Convento de' Cappuccini o monte Calvario.
Per completare la descrizione di tutte le Chiese del Circondario, mancava quella del Monte Calvario che l'egregio sig. avv. Augusto Lipparini colla più squisita gentitezza ci offrì e che diamo letteralmente trovandola superiore a qualunque confronto:
Sebbene la regola del poverello di Assisi San Francesco fosse approvata da Papa Innocenzo III nel 1208 e confermata da Onorio III nel 1217 pure la Congregazione de' Cappuccini che vive sotto questa regola istessa non fu instituita che l'anno 1525 dal Padre Matteo Bassi, castello di Urbino, e in Bologna non prese stanza che nel 1554 per cura di Fra Angelo da Savona predicatore insigne di quei tempi. Egli ebbe tale concorso a' suoi sermoni ed acquistò tanto credito che al suo sapere e al suo zelo soltanto debbono i Cappuccini il loro primo stabilimento in questa città la cui popolazione infiammata dalle parole di quell'oratore, chiese con vive e replicate instanze al Senato che a lui venisse accordato un convento perchè vi fondasse il suo ordine. Fu diffatti assecondato il comune desiderio e per scudi 350 si comprò dalla famiglia de' Conti Manzoli uno dei Poggi di Barbiano soprannominato Belgodere o Buongodere per esservi una casa di vergognosa prostituzione con una sudicia osteria che serviva di convegno a gente oziosa o abbandonata a vizi, ed era sentina di turpitudini e scandali d'ogni sorta. Ne fu preso possesso il giorno 3 maggio 1554 con solenne funzione religiosa nella quale lo stesso Padre Angelo da Savona caricatosi le spalle di una pesante e grossa croce di legno, seguito da un' immensa moltitudine che riverente accalcavasi a Lui d'intorno, ascese il poggio che gli era stato donato dalla carità Bolognese, del quale giunto alla sommità, con fervosa attitudine piantò la croce redentrice, e cambiando il nome di Buongodere in quello di Monte Calvario, volle che non rimanesse rimembranza alcuna delle passate brutture. Chiuse la sacra cerimonia con eloquentissimo discorso adattato al luogo, al tempo ed alle persone e ringraziando la pietà di quel buon popolo che quivi aveva voluto lo stabilimento di un convento per sé e suoi, promise che non avrebbe lasciato mai di pregare Iddio perchè avesse protetto, e preservata Bologna da qualsiasi sventura avvenire. Il giorno 14 settembre pertanto del detto anno 1554 si pose la prima pietra di quell'edifìzio che dapprima umile e modesto quale si addiceva alla regola di Francesco, fu in progresso di tempo aumentato con tali proporzioni che per la sua grandiosità poteva dirsi non comune, anzi unico. Il fabbricato comprendeva la chiesa cui era unito il coro, la sa- cristia ed ogni altro adatto locale; il convento nel quale oltre alle numerose celle pei molti frati, erano una grande e ben fornita biblioteca, la farmacia che occupava due camere ed altri ambienti per gli opportuni laboratoi, diversi dormitori, una vasta cucina ed un vastissimo refettorio; la forestieria che fu costrutta a parte dal lato di mezzogiorno e che era pure grandissima e corredata di tutto quanto poteva occorrere a qualsiasi persona che colà si recasse ad abitarla; e finalmente varie o ben ripartite officine che rendevano quel luogo una specie di paesetto cui nulla mancava. Fra queste primeggiavano particolarmente il Lanifizio locale molto esteso, e ben corredato di quanto era necessario a filare la lana e tessere abilmente i panni che poi si recavano al Battiferro ove i Cappuccini avevano una gualchiera per meglio assodare i tessuti; la macellaria per bovi e maiali la quale manteneva la carne tutto l'anno all'intera Comunità; per ultimo molte altre vaste botteghe in cui erano i falegnami, i fabbri-ferrai ed ogni mestiere opportuno a qualsiasi bisogno. Questo vasto recinto era chiuso tutto all'intorno a guisa di cittadella da un grosso ed alto muro di costruzione della circonferenza di ben 534 metri formato a scarpa e fabbricato con molta solidità per la quale ad onta che piantato su di un declivio piuttosto ripido e dovesse sostenere con isforzo quell' immane mole, pure poco o non mai fu mestieri di riattarlo. Sappiamo soltanto che una volta essendosi smosso dalla parte d'oriente e mezzodì vi furono gettati profondi sproni e barbacani, nella quale operazione vennero i Cappuccini soccorsi dal Senato Bolognese mediante la sovvenzione di scudi 60 e quindi fu posto in segno di riconoscenza nella fronte del muro suddetto la seguente iscrizione:
S. P. Q. B. R. F. MDCCI
Uno dei motivi per cui esso si conservava in cosi buono stato può essere forse questo, che oltre al venire aiutato nell' interno da altro largo o ben piantato muro di contro scarpa che dal lato di levante e mezzodì sosteneva, come sostiene tutt'ora il fabbricato a guisa di forte puntello, si ebbe cura, per impedire il pregiudizio grave che ne sarebbe derivato dal filtramento delle acque pluviali, di selciare appositamente non solo la piazzetta ma anche il circostante terreno con ben adatti macigni, formandosi poi diversi condotti pure selciati ed assai profondi onde deviare le acque stesse la maggior parte delle quali venivano raccolte con molta diligenza in otto tra vasche e cisterne onde averne a sufficienza per la comunità in tutto l'anno, essendo che non vi fossero in quel luogo le opportune vene per formarne pozzi, nè alcuna altra comoda derivazione da cui procurarsi acqua migliore della pluviale.
Fra i lavori importanti quivi eseguiti dai Cappuccini merita ancora particolare menzione quello della vasta conserva tuttora esistente fatta in sostituzione di due altre precedenti crollate in parte, in parte inservibili ed inadatte a mantenere le carni nell'estate. Venne questa costrutta con soccorso di molte pie e caritatevoli persone nell'ottobre del 1750 della profondità di ben 27 piedi bolognesi oltre ai sottoposti serbatoi e scoli per raccogliere l'acqua derivante dallo scioglimento della neve; vien formata di un grosso muro di once 20 cementato con calce sceltissima e solidamente sorretto da diversi sproni e barbacani in vari punti ripartiti. Evvi nel fondo una ben lavorata chiavica che dal pozzetto di mezzo conduce l'acqua ad un altro piano dal quale si volle fare un lungo condotto che portasse lontano l'acqua stessa onde disperderla in un terreno sabbioso. Se non che avanzato che fu il lavoro di più che cento dieci piedi in pendio sotto il Monte si trovò un terreno poco consistente composto di sabbia rossiccia, e quindi si dovè sospenderlo da quella parte. Si cominciò invece al di fuori, e si volle perforare il Colle fino ad incontrare l'interrotta chiavica, ma la prova riusci funesta a chi vi lavorava; imperocchè alla terra che dapprima era gialla ne successe altra nerastra, sovrapposta ad una creta tenacissima, mischiata di vene di travertino bianco le quali compartite in vari strati sembrava che dovessero servire di sostegno all'apertura praticata: ma invece lo scavo crollò un bel giorno improvvisamente, apportando morte e tomba insieme ai poveri operai che quivi lavoravano. Por una comoda scala si discende al fondo di quella conserva o laggiù è posta una lamina di piombo in memoria di quel grandioso lavoro su cui è incisa la seguente iscrizione:
NIVIS CUSTODIA VETERI
IN PESSUM CADENTE
NOVA HAEC CONSITUITUR ANNO MDUCCLVI
PRIMO LAPIDE POSITO XII OCTOBRIS
A FR. BERNARDO A BGONONIAE
HUIUS CONVENTUS CAPPUCINORUM
BONONIAE - GUARDIANO
La stessa posizione poi in cui è costrutta la rendono anche migliore all'uso cui fu destinata, perché posta presso un arco subito entro il portone detto delle cara, non è colpita che in parte dai raggi del sole perché a mezzodì è riparata dal fabbricato anche presentemente detto la forestieria. Una gran tavola di macigno copre la bocca di questa conserva sulla quale ora è posto un monticello di terra contornato da erbe odorose e ripiene di bei variati fiori.
Per tal guisa la Cappuccinesca famiglia composta di oltre a cento individui fra laici e frati sacerdoti prosperava lietamente in mezzo ai soccorsi della beneficenza che lor venivano copiosi ad ogni istante e per ogni parte dalla carità dei Bolognesi. A questi aggiungi il ricavato dell'altare, i proventi eventuali e quelli che avevano dalle cosi dette catacombe, come rilevasi dal più volte indicato Camp. III. dei Cappuccini, e non meraviglierà come tanta gente potesse vivervi. Non eran altro in origine le catacombe che un sotterraneo, il quale erasi formato nei tempi addietro con lo scavo delle pietre arenarie di cui v'aveva un piccolo filone. Pensarono i frati di vuotarlo da ogni inutile ingombro di sassi e di sabbie e ripulito ben bene renderlo atto a servir di magazzeno per la vicina chiesa con cui comunicava a mezzo di piccola scaletta di forma rustica. Ma ultimato il lavoro parve meglio al Padre Guardiano convertire quel sotterraneo in un cimitero e a tal fine datogli forma adatta ed erettivi due rozzi altari del genere antico pose al luogo il nome di catacomba. La massa del popolo però che non va troppo oltre a cercar la ragione delle cose e con facilità si lascia portare dall'affetto, specialmente se religioso, ritenne essere quel santo sepolcreto la prima chiesa che possedesse Bologna negli antichi tempi del cristianesimo. Perciò era un affollarsi continuo di persone che accorrevano da ogni parte portando elemosine a quei frati, e tanto era l'ardore religioso, che per essere sepolti in quel luogo coi primi martiri del Vangelo, come essi diceano, costituivano moltissimi legati alla Comunità consistenti tanto in denaro che in altri effetti, intorno a che può vedersi il Campioniere citato che ne porta un lungo elenco colla indicazione delle persone e delle cose. Le donne in ispecie erano esaltate a segno tale che raschiando colle unghie un poco d'intonaco e raccogliendo nel pavimento un po' di polvere, quello e questa mettevano religiosamente in seno, guardandole come preziose reliquie.
Con tutto ciò però i Cappuccini mostravano una severità di costumi e rigidezza di disciplina che guadagnavano loro la pubblica stima e venerazione, per la quale invalse l'uso che molte nobili giovanette prima di monacarsi si recassero al Monte Calvario come in pio pellegrinaggio a luogo venerando. Anche la Duchessa d'Annover con quella di Modena nell'ottobre del 1702 munite della licenza per entrare nella clausura si recarono a visitare la chiesa ed il convento ove rimasero a pranzo insieme col numeroso seguito di Dame e di Cavalieri che le accompagnava, avendo però portato seco tutto quanto occorreva ad un regale, sontuoso e non mai più veduto convito. D'altronde la stessa silenziosa maestà di quel luogo, accompagnata da nuda semplicità, attraevano naturalmente le anime sinceramente religiose a quel sacro tempio che muoveva il cuore a dolcissimi affetti. Non si può meglio dare un concetto di questa chiesa, che riportandosi interamente al Calindri, il quale contemporaneo che era, ritrasse dal vero le cose che descrisse. Egli nel suo dizionario di sopra citato al Vol. 3° pagina 281 e seguenti sotto la data del 28 marzo 1782 parlando del Monte Calvario si esprime nei seguenti termini che torna opportuno riportare per esteso ed alla lettera:
"Salite le prime scale che conducono a questo convento, presentasi un grottesco dipinto nel di fuori del celeberrimo Ferdinando Galli-Bibiena e quindi dal tempo, delle umane cose continuo distruttore, guasto e consunto, ritornato a dipingere dal valente Paolo Dardani; entro alla grotta in figura di rilievo al naturale v'è una B. V. Addolorata con Gesù morto in grembo , e S. Francesco genuflesso davanti ad essi che invita chiunque il mira ad adorare il Divin Redentore e l'afflitta sua Santa Madre; sono queste figure dell'egregio scultore Angelo Piò. Voltandosi a sinistra e compito di salire le scale, presentasi di prospetto la facciata della chiesa (tutt'ora esistente nella primitiva sua forma) che con la sua semplicità addita il non mai rotto voto di povertà della religione Cappuccina. Sopra la porta d' ingresso vedesi una Pietà in bassorilievo, opera è dessa di Camillo Mazza. In una chiesa di poveri frati vestiti in ruvida lana e da numero non piccolo di essi per molte ore del dì abitato, dove non sono ori, argenti, ed altre ricche suppellettili si crederà non altro potervi trovare che cose di poco momento, odori non grati e non molta lindura; il contrario però mostra il fatto. Un soave odore di erbe aromatiche che la Cappuccinesca pulitezza per ogni dove in vaga simetria dispone; una nettezza in tutte le parti della stessa chiesa che la fratesca pazienza col farsi spesso attorno alle pareti, agli altari, al pavimento, alle suppellettili vi fa trovare a chi vi entra; quadri di rinomati pittori che quasi la ricoprono; con paramento che l'occhio ingannando mostra di essere di ricco tappeto ricamato a oro ed argento e che altro non è che lavoro di paglia intrecciata a ricamo, a frangia, e ad arabesco a modo di broccato, accompagnato da candelieri, da vasi, da palioti e da ogni sacra suppellettile necessaria a finire un intero altare di consimili opere, lavoro e fattura che l'ammirabile, ma difficilmente imitabile pazienza che un ingegnoso Cappuccino fece già in occasione delle feste di alcuni santi della religione, ed altre cose degne di essere vedute; pago debbono rendere con usura chi prima di vederle, non poco siasi affaticato della lunga salita e della scala che conviene ascendere prima di entrarvi. Di Camillo Procacini è il quadro a destra di chi entra, appeso alla parete laterale nel quale è effigiato Cristo che porta la croce; dell'immortale Guido Reni è il non mai abbastanza lodato Cristo Crocefisso con la Vergine Addolorata e coi SS. Giovanni e Maddalena, di cui disse il Bianconi essere il più bel Cristo Crocefisso che sia mai stato al mondo; dello stesso autore si vuole da molti essere il Padre Eterno dipinto sopra l'ancóna dell'altar maggiore, il S. Antonio col Bambino dalla parte dell'epistola è del Guercino; di Lodovico Caracci, ritoccato da Gian Giuseppe del Sole si vuole sia il quadro della Veronica. Entrando nelle cappelle, bello è il quadro di S.Francesco, spirante devozione e vita, principiato da Carlo Cignani, o per la sopraggiunta morte di esso da Felice Cignani , figlio, terminato; quello del martirio di S. Fedele da Sigmaringa di Francesco Monti; la » Madonna di S. Luca è del gran Guido, il San Francesco che riceve le stimmate, nel passo che conduce alle cappelle interne, si crede del Guercino; scendendo la scala che conduce al cimitero, tenuto con la solita pulitezza, il quadro nella parete in faccia a chiaroscuro rappresentante scheletri ed un corpo che si disfà è di buona mano. Le figure di terra cotta nelle piccole cappelline sono di Sebastiano Sarti detto Rondelone; nell' ultima di queste in pietra di paragone con lettere dorate leggesi la seguente iscrizione che ricorda il fine delle umane grandezze qui finite in persona dall'ultimo rampollo dei Principi della Mirandola:
HIC SITUS EST
IOANNES PICUS
EX
MIRANDULE PRINCIPIBUS
QUI
CORPUS TERRAE
NOMEN IMMORTALITATI
ANIMAM COELO
ANNO MDCCX DIE XXI DECEMB.
e viceversa qui si ha un documento di quanto può influire alla robustezza e alla durata della vita, l'aria buona e la vita faticata e frugale, giacché dall'anno dell'erezione di questo convento fino al corrente 1782 solo 512 Cappuccini sono quivi sepolti compresi gli estinti in tempo di influenze e di contagio."
Seguita poi l'autore ad indicare particolarmente e descrivere molti altri bellissimi dipinti di scelti pittori e rinomati, lo che lungo sarebbe riportare totalmente. Finisce egli di trattare l'argomento coll'accennare ad altre specialità di quel luogo, delle quali dice conchiudendo:
"una copiosa libreria, una pulita spezieria fornita di comodissimi laboratoi con tubi per condurre le acque ovunque bisogna, adorna di un piccolo museo di cose naturali per lo più raccolte nel Bolognese territorio e con varie cose oltramontane ed Americane: un orto botanico con molte piante medicinali, ed esotiche nostrane, Alpine, Armene, Siriache, Asiatiche, Africane ed Americane ed adattissimo per la loro vegetazione, e nel quale, ad eccezione di ogni altro orto botanico del bolognese , han vegetate, cresciute e sono in arbusti varie piante di Sabina d'ogni specie e ad una grandezza straordinaria; da oltre 40 anni ingrandiscono due piante di Aloè varieggiate di colori diversi: sono le altre cose da osservarsi nel convento del Monte Calvario con piacere di chi, non conducendo vita oziosa e miserabile, impiega i suoi giorni negli studi, nelle scienze e nelle cose utili, del quale convento pochissimi in Italia veduti ne abbiamo da potervisi trattenere, gl'intendimenti particolarmente di pitture, con egual piacere e diletto a quello che può farsi nel fin qui da noi descritto."
E ciò diceva bene a ragione quell'antico scrittore, imperocché fosse raccolto in quel luogo delizioso e bello tutto quanto era necessario per allettare l'occhio istruendo l'intelletto ed educando il cuore a nobili affetti, perchè l'animo mosso da mille piacevoli e sublimi sensazioni presentava alla mente pensieri sempre elevati, e nuovi. Non è quindi a farsi meraviglia se in quella Comunità, al dire degli stessi cronisti Cappuccini, fiorirono molti uomini di merito per la predicazione e per le scienze teologiche. Perciò non solo essi aveano dai fedeli quanto era necessario alla vita, ma sì anche facilmente trovavano i mezzi di ampliare e perfezionare sempre più quel grande convento, del quale ora non resta che una minima parte. A meglio descriverne l'interno, e mostrarne i vari compartimenti in cui era diviso egli è opportuno riferirsi alla relazione di una regolare perizia fatta in luogo fino dall'aprile 1811 per ordine della Direzione Demaniale di Bologna, dopo soppressi i Cappuccini.
"A capo della pubblica strada, scrivono i periti, che conduce dal lato di ponente vi è una scalinata che mette alla chiesa come d'appresso si vedrà, non che poco lontano un portone per le carra, che introduce ad un cortile erboso e chiuso da muro a fronte della strada nel quale corrisponde la bocca della conserva, e fronteggia col portone stesso un portico di quattro archi in volto sostenuto da pilastri di pietra. Sono in detto cortile diverse aperture, e primieramente havvi a tramontana un altro portichetto in volto ove comunicano due andate di scale che conducono ad altri piani e quattro usci che danno accesso a tre stanze, dalle quali si va ad altro ambiente che è contiguo ad una grotta detta della Pietà. Ad ostro di detto cortile vi è un'arcata che mette ad un passaggio in volto che comunica coll'orto e dà accesso alla legnaia divisa in due navate in volto. Da detto passaggio piega a levante una porticaglia pure in volto, selciata di sassi e sostenuta da pilastri sotto della quale vi corrisponde una salita ed una scala che conduce al piano superiore. Unito alla legnaia piega ad ostro un fabbricato fronteggiante l'orto che contiene un camerone, un loggiato, alcune scale che conducono al piano superiore, la camera del marangone, altro loggiato, due stanze dette la fabbreria, un camerino per il carbone, una cisterna, e finalmente una stalla di due poste tassellata, tavellonata e selciata di sasso. Sotto il portico a fronte del cortile delle carra si vedono in fra le altre due aperture delle quali la prima a destra introduce in un vasto ambiento ad uso di porcile, l'altra apertura dà accesso ad un atrio con scala, che conduce al piano superiore. a destra del quale atrio vi è un andito comunicante alle scale della conserva; si passa quindi alla bugaderia e macellaria, la quale ha un apposito cortile ad ostro in cui sono i laboratoi della spezieria in volto selciato, con forno e cisterna che è corrispondente tanto ad un tinello, che a tre ambienti detti le prigioni, e molti camerini e bassi comodi che uniti alle cantine che erano in gran parte li antichi cimiteri, formano il restante di questo piano. Mediante la scala che trovasi a tramontana del cortile delle carra giungesi ad un trapiano composto di un andito e poche camere. Di fianco alla pubblica strada dalla regione di levante vedesi una gradinata di cinquanta gradini a capo della quale vi è un piccolo piazzale selciato, e piegando pure a levante evvi altra gradinata di ventisette gradini che termina in altro piazzale ove s'incontrano due porte delle quali una è di facciata salendo quattro gradini di macigno e serve per entrare nella chiesa; coperta a coppi, tavellonata con presbiterio in volto, selciato di pietre, e mensa per l'altare maggiore con due usci laterali che danno accesso al coro. A tramontana di detta chiesa vi rimane altro fabbricato unito che contiene la sagrestia, due camere contigue in una delle quali, mediante ribalta nel pavimento, per una breve scala conduce ad una cantina, un cortiletto con pozzo e chiavica di scolo. Contiene pur un piccolo andito che dà sfogo al coro, ed a cinque cappelle laterali comunicanti fra di loro, intermedio alle quali vi son tre passaggi e due camerini oltre alle scale che discendono ai cimiteri.
La seconda porta accennata nel piazzale esterno è l'ingresso del monastero, al quale salendo tre gradini di macigno si presentano subito entro tre gran bracci, o loggiati diretti a ponente, levante, ed ostro. Il primo conduce a cinque camere una delle quali piccolissima tutto in volto, e selciate di pietra; il secondo diretto ad ostro, che rimane di facciata alla porta d'ingresso e laterale a destra da un terazzo fronteggiante il cortile delle carra con discesa che conduce nell'orto. A capo di questo loggiato vi è la scala che porta al piano superiore in cui trovansi altri due loggiati che piegano a levante ed a ponente, i quali danno accesso a 18 camere, ad una cappellina, ed a tre andavini con pozzo in uno di essi. In fondo a quello di ponente piega altro braccio di fabbricato che fronteggia l'orto, e contiene le scale che discendono al pian terreno un'altana, due contigue camere, e la teggia. Finalmente l'ultimo loggiato che dalla porta d'ingresso si dirige a levante conduce ad un grandioso terrazzo selciato alla terrazziera con chiavica di scolo, difeso da parapetto di pietra sovrapposto ad un grosso e solido muro ove evvi una scala che discende nell'orto. Quest'ultimo loggiato fronteggia un cortile con cisterna e contiene le scale che portano al piano superiore, la camera del vestiario, il refettorio ed il vestibolo. Intermedio al loggiato rimpetto alla porta d'ingresso e al refettorio vi rimane altro cortiletto , sette ambienti, un andito che conduce alla cucina, la cucina vastissima e lo scaldatoio con camino a campana nel mezzo isolato. A levante del refettorio vi è il restante di questo piano in cui hannovi altre quindici camere fra grandi e piccole con scale che mettono ad altri piani. Per cinque differenti andate di scala che si trovano nel primo descritto piano si giunge al piano superiore, e queste sboccano in sette anditi tutti comunicanti fra di loro, i quali danno accesso a 92 camere, sei camerini ed un vasto ambiente con sedici sedili, superiormente al quale è posta la bella libreria del convento."
Dopo tutto ciò torna inutile il fermarsi a dire delle molte altre particolarità di questo locale, per la cui vasta estensione, sembra veramente impossibile che reggersi potesse su quell'alto Colle di piuttosto rapido e non interrotto declivio. Basta al certo il fin qui detto per addimostrare che meglio che un monastero, poteva ritenersi quel luogo un vero paesetto, i cui numerosi abitanti reggevansi da soli con a capo un guardiano che severamente governavali; ed essi obbedientissimi sempre ad ogni sua volontà, dedicavansi al lavoro ed allo studio, a seconda dell'ingegno e della condizione in che erano. La vita pacifica pertanto di questi frati non era turbata che da qualche avvenimento straordinario che li togliesse momentaneamente allo stato loro normale, per la conservazione del quale ponevano molta cura e studio, cercando di evitare qualunque questione, che lor potesse venire anche dal di fuori. Non riuscirono tuttavia di sottrarsi alle inchieste del conte Alfonso Manzoli, il quale pretendeva che i suoi avi, non avessero alienata la terra su cui era eretto il fabbricato insieme colle sue adiacenze, ma l'avessero data invece ai frati unicamente a titolo di usufrutto perpetuo. Giustificava poi il pagamento fatto dal Senato come un correspettivo del permesso accordato per la costruzione del convento con animo di ritenere per sè il diretto dominio, in conformità del quale voleva che fosse dagli usufruttuari pagato un annuo canone proporzionato alla rendita ricavabile. Questa strana pretesa non aveva però alcun giuridico fondamento di fronte alla compra regolare fatta di quel luogo dal Senato Bolognese, e lo stesso Manzoli se ne persuase pienamente esaminato che ebbe lo stato delle cose, e d'allora in avanti non ne fu più parola. Ma con ben maggiore difficoltà riuscirono i Cappuccini a sedare le liti insorte cogli Olivetani dimoranti al vicino S. Michele in Bosco tanto circa al costruire e riparare la strada del listone tuttora esistente che da porta San Mamolo conduceva ad ambidue i conventi, quanto al diritto di passaggio che questi ultimi negavano ai primi, volendoli obbligati a transitare per la stradiciuola che da Porta Castiglione andava al Monte Calvario. Tale questione durò per molti anni, non solo coi monaci di S. Michele, ma coi diversi proprietari altresì che confinavano colla detta via, i quali d'ordiniario sostenevano la parte degli Olivetani. Finalmente pose termine a questa contesa una transazione che riuscì però gravosa ai Cappuccini, i quali dovettero, lavorando essi stessi con istento e fatica, trasportare dal vicino Monte, terra, sassi e macigno per ristorare quella via che erasi resa presso ché impraticabile. Anche un grande incendio sviluppatosi improvvisamente al convento degli Olivetani, che venne sollecitamente spento dai Cappuccini, i quali vi si adoperarono con somma attività ed abnegazione, servì a pacificare gli animi di quelle due grandi Comunità religiose, ridonando la Cappuccinesca famiglia alla quiete consueta, nella quale prosperava felicemente ripromettendosi lieto avvenire.
Ma cosi non doveva essere: era scritto che una improvvisa catastrofe dovesse deludere ogni loro speranza. L'orizzonte politico già carico di densi nubi facevasi ogni giorno più minaccioso per gravi avvenimenti; la rivoluzione dell'ottantanove cupamente rumoreggiava di lontano; già rilucea la rapida scintilla che doveva incendiare quasi tutte le nazioni d'Europa; era imminente il turbine che doveva rovesciare e sconvolgere il mondo intero, travolgendo seco insieme con l'altre anche questa Comunità, che non potea la parte durarla quando il tutto precipitosamente era volto a ruina. Le vicende della Francia e le conseguenze che da essa derivarono anche all' Italia sono conosciute senza che vi abbia bisogno di qui ricordarle. Egli è certo che in niuna epoca manifestossi mai avidità maggiore di tutto innovare, e le riforme più radicali furono portata anche da noi. Fra le più importanti di tali riforme deve annoverarsi quella dello scioglimento delle corporazioni religiose, e dell' incameramento dei Beni appartenenti alle medesime. Come è ben naturale furono colpiti da una tale legge anche i Cappuccini di Bologna stanziati al Monte Calvario.
Il convento adunque già appartenente a quella Confraternita venne dalla Direzione Demaniale di Bologna venduto nell'aprile 1811 al sig. cav. avv. Gio. Maria Regoli che ne faceva regolare acquisto. Esso però dopo alcuni anni ne costituiva un vitalizio col conte Filippo Bentivoglio, non era della famiglia di Giovanni II, il quale adunava in sè tutte le qualità che costituiscono il perfetto gentiluomo. Ne sia prova di fatto che il Cardinale Oppizzoni, Arcivescovo di Bologna, otteneva dal medesimo il permesso di abitare nella state la Villa in cui era stato trasformato l'antico convento dei Cappuccini e che per la sua amenità viene ora conosciuta e distinta coll'appellativo di Belvedere. In progresso di tempo l'Oppizzoni comprò la villa del conte Bentivoglio e la tenne caramente fino all'epoca della sua morte avvenuta nell'anno 1855 lasciando erede con filantropico sentimento il Cumulo della Misericordia. Il Cardinale operò grandi ristauri alla villa che di tal guisa abbellita e migliorata divenne senza dubbio una delle più belle fra quante adornano gli incantevoli colli che fanno corona all'antica Felsina. In commemorazione di ché, nei muri esterni sono tuttora due iscrizione marmoree ove trovasi scritto:
MDCCCXLVII
IN QUESTA VILLA
CHE
IL PORPORATO EMINENTISSlMO
CARLO OPPIZZONI ARCIVESCOVO
A SOGGIORNO ESTIVO DA PIU' ANNI TIENE ED ONORA
E CHE AMPLIAVA, ABBELLIVA LIBERAMENTE
FILIPPO LORENZO CONTE BENTIVOGLIO
CON GRATO ANIMO
DURABILE SEGNO DI RICORDANZA PONEVA
KAR. OPPIZONIUS
CARD. ARCHIEP. BON.
HUC RUSTICATUM PLURES ANNOS
DIGRESSUS
GRATI MEMORISQ. ANIMI ERGO
IN AMOENISS. VILLAE HERUM OPTIMUM
PHILIPPUM BENTIVOLIUM COM.
AEDIFICIUM HOCCE PLANITIEM
ET ADVERSUM AMBULATIONEM
PRODUCEND. CUR. A. MDCCCXXXXIX
Non posso passarmi in fine dal tributare un breve elogio imparziale all'egregio personaggio di cui si è dovuto far parola, avvegnacche debbasi nel trattare un qualunque argomento storico scrivere liberamente senz'odio e senza amore per persona alcuna la stessa verità delle cose e senza quindi distinzione dei tempi e delle opinioni diverse. Il Cardinale Carlo dei Conti Oppizzoni di Milano si rese accetto e caro ai Bolognesi che apprezzarono le eminenti qualità e le doti che facevano in lui distinguere il vero sacerdote, il buon cittadino, l'uomo benefico e generoso. I tempi in cui egli esercitò l'alto suo mandato furon ben difficili e supremi; egli seppe però mostrarsi all'altezza della sua missione nè per fini indiretti o bieche passioni dimenticò mai l'ufficio di rappresentante di una religione che comanda il perdono, consiglia la carità e l'amore per tutti gli uomini. Carico d'anni l'uomo venerando e venerato scendeva nel sepolcro, ove lo seguivano le benedizioni di un popolo che egli aveva amato e da' cui era stato corrisposto con pari affetto.
Così noi abbiamo veduto le successive trasformazioni e gli usi diversi a cui il luogo servì col trascorrere dei secoli; taberna ed antro di dissipazione e di abbiezione; sacrario di religione e di pietà; luogo di delizia e geniale dimora di nobili signori o personaggi distinti. La cortesia e la bontà del Cardinale rendevano accessibile a tutti l'amenissima e vaghissima Villa e quasi ne facevano il soggiorno più caro e delizioso. Sembrava che la veneranda e maestosa figura del vecchio signore tutto all'intorno spandesse un'aureola di pace e tranquillità da rendervi l'abitare sopra ogni dire beato. Colla morte dell'Oppizzoni era a temersi pel suo successore il confronto, ma fortuna volle che il Signore del luogo dovesse sortire tale che non ne avesse certo al paragone scapitato.
In fatti nel 1837 il conte Pietro Revedin oriundo veneto marchese di San Martino in Ferrara, acquistò la Villa Belvedere dal cumulo della Misericordia che come si disse era stato erede del Cardinale Oppizzoni. Di quel grande e splendido signore che egli era intraprese senza dimora a quivi eseguire grandiosi ristauri profondendo largamente i tesori de' suoi scrigni di guisa che pei molti lavori d'abbellimento che poi vi fece il figlio conto cav. Giovanni, ridotta ora alla forma in cui ci è dato di ammirarla pare tocchi la cima della perfezione e della bellezza.
Premesso un cenno storico sulla Villa Belvedere; detto delle diverse e molteplici variazioni alle quali andò soggetta col progredire del tempo; nominate le famiglie ed i personaggi che contribuirono a ridurla incantevole e deliziosa come la veggiamo oggidì, altro non rimarrebbe, a voler finire convenientemente, che procedere alla descrizione di quel bellissimo luogo. E tale in vero sarebbe il mio desiderio se mi ritenessi da tanto e non temessi che mi venisse meno la lena e la potenza di esprimere anche in minima parte le sensazioni che l'animo prova alla vista di tanta magnificenza che l'arte e la natura a gara congiungono in un punto solo. Imperocchè la descrizione quando non sia pittura è men che nulla, e la pittura se non è riproduzione esatta ed estetica del vero, non può apparire che una goffa contraffazione. Ben a pochi fu concesso il dono sublime di riprodurre al naturale colla tavolozza o colla penna le ora terribili, ora soavi bellezze di cui va adorna la creazione: è questo un privilegio del genio ad ottenere il quale non valgono diligenza e studio profondo. Conoscendo per tanto la debolezza delle mie forze mi tratterrò volentieri dall'accingermi alla difficile impresa e mi limiterò invece a porgerne un informe abozzo, uno schizzo incompleto, che possa più presto far nascere in altri il desiderio di vedere coi propri occhi che rimanere paghi e soddisfatti a questa lettura.
Appena usciti dalla porta S. Mamolo, appariscono i vaghissimi colli che come vedemmo fanno corona all'antica Felsina, i quali sono le ultime e minime fra le vertebre che costituiscono l'immensa ed irta spina dorsale della penisola Italica, li Appennini. A piedi di quei poggi sorge la maestosa e turrita città già madre della sapienza, culla delle nobili discipline del diritto; la dotta ed artistica Bologna; la patria d'Irnerio e di Guido Reni. Procedendo di spazio in linea retta lungo la spaziosa strada di S. Mamolo, dopo non molto tratto si apre a sinistra una larghissima e comoda via detta Panoramica, fiancheggiata da una doppia fila di variati alberi in bell'ordine disposti, la quale con dolcissimo insensibile pendio, conduce alla Villa Reale ed alla Villa Revedin. L'ingresso di quest'ultima e precluso da un sontuoso e magnifico cancello di ferro fuso, sormontato dall'iniziale del cognome del nobile proprietario. Ai lati s'appoggia su due pilastri di cotto fregiati a mattonatura, in cima ai quali s' ergono due maestosi leoni che ti paiono più che ad ornamento, posti a custodia del luogo, perché non sono essi in atto di chi posa, ma s'innalzano dritti e fieri nell'aspetto quasi vigili scolte che adempiano attente al loro dovere. Il cancello è di un vago e nuovo disegno, diviso in tre scompartimenti mobili e due a barriera fissa, assieme collegati da quattro coloncine di ferro fuso, il tutto di studiato lavoro e di elegantissime proporzioni, per guisa che ti apparisco svelto e leggiero non ostante la sua grandiosa mole. Appena entrati, ed i anche dal di fuori, si presenta allo sguardo un verde prato di figura circolante su cui sono disposte con graziosa varietà alcune ceste di fiori di diverse specie che fanno un magnifico risalto su quel verde tappeto. Esso è racchiuso all'intorno da una larga o regolare strada che vien cinta da molti alberi ben disposti e con bell'ordine variati. Fra questi alcuni salici stanno lontani di contro al cancello, i quali coi loro lunghi rami fino al suolo inclinati pare nascondino ad arte il fusto che li sostiene. Un folto bosco di faccia a chi guarda occulta la vista del resto, ma quel che vedi è assai, perchè ti senta irresistibilmente tratto a ricercare ciò che non apparendoti, ti sforzi immaginare che sia o debba essere. E non è questo, il nascondere in parte, uno dei segreti dell'arte di piacere? Le cose subito vedute nella loro realtà fanno presto cessare il desiderio, e la brama più s'accende per ciò che s'invola ai nostri sguardi. La mente e lo spirito sono per tal guisa suscitati dal mondo meraviglioso dell' immaginazione. Superato il primo e spontaneo sentimento di ammirazione che ci fa qui soffermare nell'esame particolare di quel luogo che rappresenta l'idea archetipa del bello, è irresistibile il desiderio di passar oltre. Parecchie vie si presentano in diversi punti ripartite, fra cui una delle altre più spaziosa ed anzi carrozzabile che sempre per mezzo al bosco conduce sino all'alto ed all'interno della Villa con molti tortuosi giri e con insensibile declivio. Ma prendiamo a preferenza il sentiero a sinistra di chi entra, di fianco al casino del custode e del guardabosco. Dopo avere percorso alquanto la linea retta esso piega a destra con varie ritorte diramazioni: la salita non è ripida, ma diffìcilmente si può resistere alla tentazione di far sosta di quando in quando o rivolgere dietro sé lo sguardo. Ed ecco che cominci a godere dello spettacolo che hai all'intorno. Di fronte al viale sul quale ti trovi ti si presenta quasi improvvisamente in linea retta il tratto di stradone che dal cancello della Villa Belvedere conduce a S. Michele in Bosco che vedi con meraviglia a te sottoposto, sebbene non abbia fatti che pochi passi e brevissima salita: dal lato di settentrione hai la città che cominci a dominare, ma che non puoi anche benissimo vedere per esteso. Più volentieri allora ripigli la intralasciata fatica dell'ascendere l'elegante via che direttamente conduce alla Villa, perocchè ci ripromettiamo, col pervenire, un piacere più vivo e pieno. La nostra speranza non rimane delusa. Ecco: siamo nel grandioso o vastissimo terrazzo che è situato di fianco al palazzo della Villa, e come che il giardino che abitiamo dovuto attraversare per giungervi e l'esterno del fabbricato siano degni d'attenzione, pure vogliamo incontanente e prima d'ogni cosa salire a deliziarci del magnifico colpo d'occhio che ci eravamo ripromesso, riservandoci di esaminare le altre cose in appresso. Sì, è il vero tripudio, è la festa del senso e della vista; Bologna ti si presenta come designata in un'immensa carta topografica colle linee de' suoi confini: per un insolito incanto il disegno ha il rilievo: è Bologna panoramica vista a volo d' uccello. Tutto discerni; le suo guglie, i suoi templi, i suoi monumenti, lo sue torri; l'Asinelli s'erge sovra tutte come gigante sulla folla, e la curva Garisendi sembra si appoggi alla sua vicina come una vecchia affranto al braccio del giovane figlio. Tutto ha vita e prende anima dinanzi a te; è una delle più belle fantasmagorie dell'immaginazione, per guisa che a quella vista tutti ci sentiamo poeti. Coll'occhio indaghi ove sia la casa che ti vide nascere o quella ove abiti; indovini le vie: ti pare di scorgere gli abitanti; immagini le posizioni più belle della città ; vedi i pubblici giardini ed il grandioso fabbricato della stazione. Il silenzio e la dolce pace della campagna regnano attorno al riguardante mentre in confuso ed indistinto giunge al suo orecchio l'eco del clamore della grande città, ove ferve il lavoro industro ed assiduo dell'operaio e il brulichio di una popolazione di centomila persone che si muove, s'agita e s'aggira in questa grande commedia della vita sociale che un dotto autore contemporaneo imprese a descrivere con altrettanta eleganza di stile che verità di scene. Tu abbracci collo sguardo Bologna tutta; colassù ti senti più libero, respiri aria balsamica; sono i zefflri che hanno baciato la rosa ed il gelsomino, e ora bacian te pure e tu ti credi allora un essere differente dagli altri e superiore a te stesso. È una illusione ottica, un miraggio, un sogno: dubbioso della realtà ti scuoti ed allora fuggono le fantasie del poeta, ma rimane pur sempre la meravigliosa bellezza della realtà. Dalla città è naturale che si passi a riguardare l'immensa pianura, la più vasta d'Italia, la gran valle del Po che si stende fin dietro Bologna. La vista dell'Oceano solamente può destare più di questa il sentimento del sublime. Invano ne cerchi il limite: si confonde coll'orizzonte, col cielo; è l'infinito ovvero un suo riflesso. Quante case, quanti paesetti! Come sono colti ed ubertosi quei campi che ora il colono lavora per se e non per straniere genti!
Ma troppo lungo sarebbe l'enumerare tutte le emozioni che prova colui che da quell'alto poggio spazia con occhio d'aquila su tanto tratto del bel paese; uno stormo, una miriade d'idee gli si affastellano nella mente le une sulle altre. Però l'esaltazione non è normale e ti senti affaticato, per cui volgendo le spalle a Felsina vai ad osservare il palazzo ed il giardino. L'uno e l'altro meritano la tua attenzione, ti dilettano e ti piaciono molto. Varchi la soglia sacra agli antichi e cara ai presenti: passi la lunga fila di vastissime sale che all'entrata ti si presentano a perduta d'occhio, splendidamente addobate con arazzi superbi e decorato di ricchissimi fregi; l'opulenza ed il buon gusto si trovano colà riuniti, e quel cannubio è fecondo di piacere al forestiero, accolto con graziosa ospitalità dai signori del luogo, mentre senza di questo, quel fasto ti irrita o ti avvilisce; ma dove Giove Ospitale ha un altare, il cuore tuo si dilata perchè alla ricchezza vedi congiunta la bontà! Sei tu amante delle belle arti! Ebbene, puoi ammirare buone tele del Rasori, del Lipparini e di altri scelti pittori, e se Bologna ti diede i natali, potrai anche compiacerti di vedere in un gran quadro riprodotta una delle glorie dell'antica Repubblica; uno dei maggiori fatti di cui possiamo andar superbi: Enzio prigioniero dei Bolognesi. All'esterno il palazzo è semplice e grandioso ad un tempo. Da settentrione, levante e mezzodì è circondato da un elegante e spazioso terrazzo con parapetto ornato di balaustri e con battuto a marmo e formato di solido cemento. Si accede su quello per diverse andate di scale ricche per la loro vastità e per il bel granito che ne forma i gradini. La facciata del palazzo è piuttosto seria ma bella. Nel mezzo di essa è un vestibolo aperto di figura quadrilunga formato a soppalco , all' ingresso del quale vi sono due colonne che sostengono un timpano con mostra da orologio. Una larghissima scalinata per ultimo, pure fiancheggiata da parapetto formato da balaustri, a metà della quale è un piccolo ripiano per maggior comodità ed eleganza, conduce al sopra detto vestibolo ove da un lato è posta un iscrizione in onore del Cardinale Oppizzoni. Ad ostro del palazzo congiunto a mezzo d'un grazioso terrazzo, s'erge un lungo braccio di fabbricato che poi volta la sua fronte principale dal lato di ponente. Questo, altro non è che l'antica foresteria di molto ampliata ed abbellita dove sono ancora, una comoda cappella portante l'iscrizione:
D. O. M.
IN HON. FRANCISCI ASISINATIS
La casa del custode, quella del giardiniere, le vaste e bellissime serre pei molti vasi e le magnifiche scuderie padronali.
Il regno di Flora merita bene una nostra visita; passeggiamo per le aiuole del giardino che i tiepidi fiati di primavera resero lussureggiante di vegetazione. Quivi arte e natura s'accoppiano con indicibile incantesimo. Qua e là per ogni parte vedi graziose ceste di variati fiori, screziati per colori diversi e disposti con bell'ordine e pittoresca varietà. Alcuni gruppi di scelti vasi formano odorose macchiette sparse ad arte nelle diverse posizioni che maggiormente impressionano e sorprendono ad un tempo. Ovunque guardi, ovunque giri, tu riconosci la mano abile di attivo ed intelligente giardiniere, che sa accompagnare al materiale della coltivazione il difficile effetto di piacere moltissimo. Infatti, la vaghezza o la varietà dei colori ti rapiscono; tutte le gradazioni in piccolo spazio; la luce è più vivida perchè si compiace di suscitare tanta varietà. L'olezzo t'inebria l'olfato; tutti i sensi godono e lo spirito innalza un inno di grazia.
Ma passiamo avanti. Prendendo lo stradone che trovasi presso la foresteria, giriamo attorno al gran monte che è dentro alla Villa, sul quale è posto in parte un foltissimo bosco; andiamo a bearci del nuovo quadro che la natura ci presenta; andiamo a vedere la varietà dei colli, dei monti, delle valli e dei prati che ci stanno d'intorno. Sei tu vago di nuove emozioni? Guarda dal lato di levante e vedi la profonda valle che ti sta sott' occhio a principio della quale o un ameno casino di villeggiatura appartenente al Belvedere; guarda la strada principale di Castiglione che a poco a poco salendo serpeggia sul colle; osserva l'immenso prato che ti sta dirimpetto formato su di un rapido declivio che è il fianco di un alto monte. Ecco che ti appare l'antico Barbiano alla cui sommità scorgi un palazzo grandioso e superbo per magnificenza, che sai posseduto da nobili genti per ospitalità gentili: ecco S. Vittore ove era un antico sacrario di religione, ecco infiniti colli che ti attraggono ed incantano per la loro varietà! Proseguiamo il giro attorno il monte; lasciamoci allo spalle i bei vigneti raccolti in ordinati filari, pel quale nuovo genere di coltivazione, tu non vedi più la vite avvitticchiarsi in disordine ai pali colle sue storte braccie, la osservi invece distesa su di un lungo molteplice e non interrotto filo di rame nascosto e vestito dalle fronde che lo coprono, facendo risaltare cosi l' eguaglianza della ricercata livellazione. Lasciamo dietro noi il nuovo fabbricato che ci si presenta sempre appartenente al Belvedere dirimpetto alla villa Nanni; rechiamoci piuttosto dal lato di ponente. Quivi è una scena nuova che cambia e che varia ad ogni tratto, ad ogni muovere di piede, per guisa che ti sembra essere lontanissimo da Bologna e quasi in altro paese. Anche quivi ti si presenta una spaziosa vallata in cui si stendono varie diramate strade che conducono a luoghi diversi.
Scorre in essa il rapido torrente Aposa che con mille curve e ricurve si stendo fin dentro Bologna girando sotto le strade di essa. In quel vasto piano sono sparse molte amene villeggiature fra cui quelle Sassoli, Tacconi, Testi, Veronesi, Gaudenzi ed altre molte di non minor conto. Poi vedi colline incantevoli seminate di case, di palazzi e di ville sempre nuove e belle. Quel variopinto e bizzarro fabbricato che ti sta a destra è la villa Baruzzi il gentile scultore delle veneri pudiche; quello più sopra è il grandioso palazzo Aldini che ti ricorda i tempi dell'Impero Francese; l'altro più lontano è l'Osservanza che fu comodo convento a frati zoccolanti; poi su quella stessa linea scorgi la villa Contri, quella Vecchietti, Manzi, Roppa, Minghetti, Lagorio, e varie altre che troppo sarebbe qui tutte indicare. Di fronte ti è dato vedere il Santuario di S. Luca che forma l'ammirazione del forestiero, non tanto per la bellezza del tempio, quanto per la specialità del lungo portico che da Bologna conduce fin su quell'alto monte; discerni il vago colle Ronzano ove osservi il grandioso palazzo Gozzadini in cui dicesi abitasse un tempo il sommo Dante Alighieri; ti si presentano per ultimo molte altre belle alture di forma sempre nuova, il cui quadro è indescrivibile per l' immensa loro varietà. Tutto questo vedi, tutto questo puoi ammirare con tuo sommo contento, fino a che mano mano andando oltre e passando rasento al cancello in cui è un apposita strada che conduce a S. Michele in Bosco costeggiando le ville Zanardi e Boldrini, tu ti trovi in breve in un grazioso prato ove sorgono due altri non piccoli fabbricati, che sono la casa colonica e la cascina in cui havvi numeroso e scelto bestiame nostrano e peregrino.
Ma il sole s' innalza cocente e ci sferza co' suoi raggi infuocati. Ripariamo nel bosco ed aggiriamoci fra i suoi tortuosi ed intricati sentieri. Quivi i raggi dell'astro maggiore non giungono fino a noi, troviamo invece un aura vivicatrice che ne rinfresca accarezzandoci il volto: quivi innumerevoli alberi di specie diversa vegetano rigogliosi, intrecciando a vicenda i fronzuti rami, mentre il sottoposto terreno è tutto smaltato all'intorno del vago anemone e del leggiadro mughetto. Gli abeti, i pioppi, i cipressi, gli olmi, i platani, i pini e molti altri alberi di molto maggior conto peregrini e rari, quivi crescon robusti ed alti stendendo per ogni parte i loro numerosi rami. Odi il vago fringuello che va alternando il suo canto col variopinto cardellino; canticchia il luccherino dal bruno capo e gli fa riscontro lo studioso merlo che va a bassa voce provando la canzone che ripeterà nella quiete della notte. L'usignolo co' suoi gorgheggi ti fa conoscere qual valente cantore sia; non piange egli gl'implumi figli addocchiati dal duro aratore; nè, il suo canto non è flebile perchè è sicuro dagli oltraggi dell' uomo. In mezzo a tutto questo ti sei tu avvicinato al quieto e rustico laghetto che ti si presenta quasi improvvisamente quando scendi lungo la via principale di questo bosco? Esso non può essere più grazioso e ben formato; i sassi ed i macigni di diversa forma e grandezza che qua e là tu vedi con disordine sporgenti sul suo contorno, sono l'opera perfetta del buon gusto che sa imitare la natura e le molte piante esotiche che tra essi crescono e vegetano mirabilmente, l'adornano con incantevole varietà.
Insomma in questo luogo delizioso e bello, trovi riunito tutto quanto può muovere l'immaginativa; destare l'animo a poetici affetti; alettare lo sguardo con quadri sempre nuovi ed interessanti; educare l'animo a nobili sentimenti e sviluppare l' intelletto cogli insegnamenti che la natura ci porge colla muta ma reale sua eloquenza. Uscendo dal bosco li trovi di nuovo vicino al cancello da cui sei entrato e dal quale uscirai colla mente e col cuore ripieni d'infinite emozioni e di sensazioni diverse che sentirai in te stesso ma che non ti sarà dato spiegare agli altri con termini abbastanza espressivi.
Io non so se m'abbia raggiunto lo scopo che m'era prefisso; non so se abbia cosi bene espresso le mie idee da far rimanere impresso nella mente altrui quanto volli dire intorno al Belvedere, ai diversi suoi possessori ed alla casa Revedin; non so per ultimo se abbia destato nessun affetto di meraviglia per quel luogo, nessun sentimento di stima per chi tanto bello e tanto caro lo rese. Io desidererei di tutto cuore di essere riuscito a quest'intento nel quale posi ogni mia cura e possibile studio. Ma se per avventura ad onta della mia buona volontà non ottenni l'effetto desiderato, non avrò che a lagnarmi con me stesso per essere stato troppo facile ed ardito nel por mano a questo povero lavoro.