Garisendi

Se ne trovano i primordii in un Garsendo vissuto nel principio del secolo XI (1). Ebbero tre volte il consolato nel secolo seguente e furono di parte lambertazza. Ugolino nel 1303 era fra i congiurati in pro d' Azzo d' Este, ai quali vennero saccheggiate le case dal popolo, confiscati i beni e demolite le torri (2). Pietro d'Ugolino avendo ucciso per nimicizia Fabricio Fabbri nel 1316, tre compagnie delle arti si adunarono e passate alle case dell' uccisore non lasciarono pietra sopra pietra. Romeo Pepoli, che volle interporsi, rischiò la vita e perdè l'aura popolare. Checco fu bandito nel 1389 per aver cospirato in favore di Giangaleazzo Visconti (3).

In pro della patria i Garisendi disimpegnarono alcune missioni, militarono e furono trentasette volte degli anziani dal 1157 al 1516. Ebbero un Mino di Tommaso lettore di gius civile (1482-1529), un Grazia professore di lettere greche ( 1601-1623) (4) e non guari dopo si spensero.

Il Boccaccio fa eroe d' una sua novella (5) un Gentile Garisendi da Bologna « cavaliere per virtù e per nobiltà di sangue ragguardevole assai ». Il quale avrebbe tolto dal sepolcro una Catalina creduta morta, e restituitala a vita ed al marito, Nicoluccio Cazzanemici. Questo racconto ha analogìa col caso della sepolta viva in Firenze nel 1396, Ginevra degli Amieri moglie di Francesco Agolanti.

La torre de' Garisendi, detta volgarmente in Bologna la torre mozza, è tanto nota quanto la torre Asinelli (dalla quale dista soltanto met. 11) per esser sempre disegnate unite nelle opere di architettura medioevale (6), nelle guide illustrate, e a mo' di emblema della città di Bologna. È poi più nota della superba sua vicina per la grande obliquità e per esser nominata dal cantor dei tre regni, che ne trasse un' immagine comparativa. Dicesi fondata nel 1110 da Filippo e da Oddo Garisendi (7) e forse gareggiando, ma sfortunatamente, con i vicini Asinelli: era assai più alta in antico, poichè per testimonianza del contemporaneo Benvenuto da Imola conservata nel suo commento (8), la Garisenda venne di molto mozzata dall' Oleggio, ma è a credere che non sia mai stata compiuta.

Il Vellutello, altro commentatore, afferma, egli solo, che la torre Garisenda è « oggi (1544) detta dell'agnello ».

Vi aveva diritti nel 1266 Pietro di Pelalucco Garisendi e li vendeva a' suoi consorti Dondego ed Ugonetto figli di Antonio, insieme con la propria metà del terreno e degli edificii situati davanti la torre nel trivio di Porta ravegnana, pel prezzo di 220 lire (9).

Ma tre anni dopo le stesse case erano rivendute dai medesimi Ugonetto e Dondego al figlio del primo venditore, Brandelisio di Pietro Garisendi (10).

Altri diritti vi aveva acquistati nel 1286 Gemignano Brizzi, relativi alla dote della propria figlia Lucrezia, mari tata in Artenisio del già Riccardo Garisendi (11).

Se non che il comune, volendo fare una piazza del trivio di Porta ravegnana e isolarvi le due torri, comprò nello stesso anno 1286 molte case circostanti, e le atterrò, fra le quali una di Giovanni di Dondego Garisendi, del valore di 179 lire, ed una con terreno dello stesso Giovanni e di Ugolino d' Ugonello Garisendi, pagata lire 450. Poi nel 1291 ne acquistò altre dagli stessi e da altri Garisendi, cioè, da Artenisio di Rizzardo e da Brandelisio di Pietro, per lire 260 ; da Niccolò di Gherardo, da Tommaso di Guido, da Ugolino d' Ugonetto e da Giovanni di Dondego, per lire 550 (12). Il che fa vedere come molti consorti Garisendi avessero le case contermini a mutua difesa presso la torre gentilizia, della quale si veggono tuttavia proprietari in un laudo del 1378 (13), benchè il comune l'avesse presa a fitto nel 1278 per farvi « intorno un riparo o una stellata per difensione » (14).

I Zambeccari la comprarono nel 1418 (15) e dieci anni dopo cominciò ad appartenere in parte alla compagnia dei Drappieri (16) cui fu conceduto nel 1537 di sostituire un fabbricato alla tettoia sporgente dal piede di essa torre. E ciò all' intento che venisse adornata l' immagine della Madonna, vetustissimo ac pulcherrimo opere depicta, in una parete esterna della torre (17). La qual immagine venne poi compresa nella chiesuola atterrata non ha guari dal municipio, con lusinghevole conato di liberare la celebratissima Garisenda dalle fabbricucce che la deturpano.

Quella pittura a fresco sembra appartenere al principio del secolo XV, benchè venisse detta vetustissima nel 1537, ed è particolarmente interessante pel guerriero in armatura orante a' piè della Vergine, cui sono allato s. Giacomo e s. Antonio. Se ne ha una grande incisione in rame di F. M. Francia (1704), ma che non dà un'idea nè meno approssimativa del guerriero, nè del dipinto al quale nell'incisione fu data la maniera del seicento. La torre passò in retaggio gentilizio del conte Piriteo Ranuzzi.

Dante nel, tempo ch'era a studio in Bologna (cioè dal 1304 al 1306) osservò che questa torre sembra rovesciarsi su chi sta sotto dal lato pendente (fig. 16), se avviene che una nube muova contro a quel lato. E ne trasse un'immagine comparativa per descrivere lo smisurato Anteo, il quale, curvandosi su Virgilio e su lui, pareva cader loro addosso. La similitudine (soggiunge Benvenuto da Imola) era anche più propria al tempo di Dante, essendo allora la Garisenda più alta di quella che ora è, giacchè in gran parte fu mozza da Giovanni di Oleggio de' Visconti di Milano « che qual gigante feroce e superbo ivi esercitò la tirannide »: cioè in Bologna dal 1351 al 1360.

« Qual pare a riguardar la Garisenda

Sotto il chinato, quando un nuvol passa

Sovr'essa si ch'ella in contrario penda,

Tal parve Anteo a me, che stava a bada

Di vederlo chinare, e fu tal ora

Ch' io avrei volut' ir per altra strada. » (18)

Fig. 16

Ma altre rime anteriori a queste dell'Alighieri, riguardanti altresì la Garisenda, furono scritte in un memoriale l' anno 1287 da Enrichetto dalle Querce, a quanto pare nei momenti d' ozio avuti nel suo officio di notaro deputato a registrare gli atti pubblici (19). Siffatte rime sono un sonetto che reco testualmente:

« No me poriano zamay fare menda

De lor gran fallo gl ocli mey sei illi (sic)

Non s'acechasero poy la garisenda

Torre miralo cum li sguardi belli

E non conover quella ma lor prenda

Ch e la mazor de la qual se favelli

Per zo zascun de lor voy che in' intenda

Che zamai pace non faro son (sic) elli

Poi tanto furo che zo che sentire

Dovean a raxon senza veduta

Non conover vedendo unde dolenti

Son li mey spirti per Io lor falire

E dico ben se l voler no me muta

Ch eo stesso gì occidro qui (20) scanoscenti. »

Sul qual sonetto l' illustre prof. Carducci, da me pregato, mi ha favorito d' una nota della quale fregio questo libro con riconoscenza.

« Occasione del sonetto fu la Garisenda, ma l' argomento non esce dalla materia d' amore. Il poeta riprende e minaccia gli occhi suoi, perchè riguardando la Garisenda, non conobbero, non videro, una donna allora nominata di bellezza che passava ivi appresso

« ... poi la Garisenda

Torre miraro cum li sguardi belli (21),

E non conover quella (mal lor prendal)

Ch' è la mazor de la qual se favelli ...»

Che il sonetto sia stato scritto in Bologna non v' è dubbio. Ma dei rimatori che fiorirono in Bologna nella seconda metà del secolo XIII chi avrà potuto scriverlo? Non crederei il Guinicelli, perchè nè sente lo stile e la maniera di lui, nè trovasi in alcuno dei codici che di lui hanno rime. Per le stesse ragioni non è dato pensare a ser Onesto, e tanto meno a Semprebene o al Samaritani, i quali, per quel poco che di lor rime ci avanza, nè criticamente sicuro, tengono troppo del vecchio stile siciliano, dal quale è intieramente lontano il sonetto nostro. Per le stesse ragioni non par lecito il pensare a un altro poeta bolognese, ser Polo Zoppo, fin ora ignoto alla storia letteraria, ma del quale ci dà il nome e alcune rime il celebrato codice 3793 vaticano. Ser Polo era in corrispondenza poetica con Monte d' Andrea da Firenze; e dovea tenere dello stile della transizione, dello stile cioè di quei poeti che fiorirono circa il 1270, come Guittone, Bonagiunta, il Guinicelli. Ma nel sonetto della Garisenda la scioltezza della versificazione, l'accavallarsi di più d'un verso l'un su l'altro, le pose della cesura, specialmente nel verso 11, e il passaggio ardito e franco della sentenza dalla prima alla seconda terzina, danno indizio d' una scuola più recente. E per ciò nè pure potrei ammettere l'ipotesi, ch' è forse o di Guido Ghisilieri o di Fabrizio Lambertazzi, i due dottori illustri nominati da Dante, de' quali sventuratamente nulla ci avanza, o nulla almen di sicuro. Conchiudendo: il sonetto della Garisenda a me par posteriore di qualche anno al Guinicelli; e. vi scorgo alla versificazione al concetto al giro della frase e del periodo, il fare de' poeti contemporanei al Cavalcanti, della scuola della giovinezza di Dante. Nel qual caso, se bolognese fu l' autore del sonetto, potrebbe per avventura essere stato quel messer Bernardo da Bologna del quale conosciamo un sonetto indirizzato al Cavalcanti. Al notaro che vergò il Memoriale non c'è da pensare: que' notai ricopiavano nelle ore d' ozio e ne' vuoti de' Memoriali, preghiere, mottetti, versi famosi che avevano a mente o ballate popolari, e non composizioni loro.

Ho detto se bolognese fu l'autore del sonetto: perchè dà molta ragione a dubitare che fosse bolognese quel che e' narra dell' essersi fermato a riguardare la Garisenda con tanta attenzione, che e' non vide passare una donna la quale sembra pure che gli premesse. E in fatti cotesto sonetto leggesi in più codici, e anche nel 2448 della bibl. univ. di Bologna, e sempre col nome di Dante. Che fosse di Dante Alighieri, io non vorrei giurare; ma giurerei quasi che non è di rimator bolognese ».

La pendenza della Garisenda, si come quella del campanile di Pisa, suscitò lunghe ed animate controversie, credendo alcuni e volendo far credere ch' ella sia un artificio bizzarro di chi la costrusse, altri tenendo per fermo che la sia meramente accidentale. Lo storiografo fra Leandro Alberti è stato cred' io il primo che ha propugnata pubblicamente la pendenza artificiale, la quale sarebbe convalidata a dir suo (22) « dall' ordinato corso dei mattoni che dritta mente seguita e parimente dalli buchi dell' armature che senza piegatura drittamente trascorrono: e poi per haver veduto dentro perpendicolarmente scendere l' aria, e drittamente da fondamenti infino alla sommità della torre salire le parrede non piegandosi da lato alcuno, e tanto drittamente salire, e così misuratamente livellate, come ciascun edificio giustamente costrutto. Le quali cose nei tempi di Clemente VII pontefice romano, ch' era venuto a Bologna per coronar Carlo V Imperatore l' anno 1530, molto curiosamente considerando io insieme con alquanti periti, architettori et litterati huomini, giudicassimo fosse così artificiosamente stata costrutta ». Sagaci osservatori!

Il Ricci, nella sua recente storia dell' architettura (23), seguì a chiusi occhi l' Alberti, riportandone le asserzioni soprariferite senza verificarle, e solo cercando di puntellarle con ragionamenti inefficaci. Ma in quistioni di fatto bisogna chiarire i fatti e lasciar da parte le argomentazioni. Ora per provar l' assurdo dell' interna verticalità della torre annunziata dal buon frate Alberti, sarebbe bastata una grossolana e materiale osservazione, senza bisogno di disturbare architetti o matematici. Giacchè la torre essendo scapezzata e potendosi salirla comodamente fino al sommo e vedervi la grossezza dei muri, bastava osservare che le quattro pareti son tutte grosse egualmente in cima, per esser certi che la interna verticalità è un sogno. Avvegnachè, per ottenere questo immaginario a piombo, avrebbe fatto d' uopo che la parte Orientale, ossia quella più inclinata in fuori, fosse in cima assai più grossa delle laterali e che per converso fosse di queste assai più sottile in cima la parete occidentale. Ciò non è, ed aggiungasi che nè meno potrebb' essere in modo sufficiente da raggiungere la interna verticalità. La quale si sarebbe bensì potuta ottenere nella parete orientale ingrossandola ascendentalmente da met. 2,35 a met. 4,72, ma non si sarebbe arrivati ad ottenerla nella parete occidentale nè meno rastremandola fino ad un centimetro. La grossezza uniforme delle quattro pareti prova dunque evidentemente che l' interno della torre asseconda la pendenza esteriore.

Ma per accertare altresì se orizzontali, oppure inclinati come la torre, sono gli strati dei mattoni e le file dei forami che servirono ai ponti (24), e così risolvere sicuramente la quistione della pendenza o artificiale o casuale, occorreva di fare apposite osservazioni. Perciò pregai l' egregio sig. ingegnere Luigi Franceschini di volersene prendere la cura, il quale, cortesemente aderendo, fece con esattezza l' esamina desiderata nel 1868 ed ottenne e mi comunicò i seguenti risultati:

Larghezza della torre, da basso. met. 7,15 per 7,20

Larghezza della torre in cima. met. 6,90 per 7

grossezza dei muri, . . da basso. met. 2,35

grossezza dei muri in cima (25) met. 1,95

altezza totale met. 47,51

strapiombo (dell' asse) a mezzodì met. 0,35

strapiombo (dell' asse) a levante. met. 2,376

« imperocchè (aggiungeva il sig. ingegnere Franceschini) lo spigolo della torre, fra levante e mezzodì, essendo una perfetta retta, ho abbassato una perpendicolare da un punto dello spigolo nell' interno della bottega di met. 3, a cui corrisponde lo strapiombo di met. 0,14 e la sua pendenza è del 5 per cento; poscia ho abbassato un'altra perpendicolare di metri 4,14 sul tetto ed ho trovato lo strapiombo di met. 0,193, a cui corrisponde pure la pendenza del 5 per cento, la quale moltiplicata per l' altezza di met. 47,51 dà lo strapiombo di met. 2,376, e questa sembrami la misura più meritevole di fiducia (26), avvegnachè la pendenza già ripetuta tanto su gli strati dei mattoni, quanto alle spallature dei vani delle finestre essendo circa il 5 per cento, non vi ha più dubbio nè sull' abbassamento parziale del terreno, nè tampoco sullo strapiombo.

Nel trapiano superiore, coperto in volta a mezzabotte, verso mezzodì fu rilevato il dislivello di metri 0,17 sulla totale larghezza di metri 2,92; laonde la pendenza per metro è di 0,05 e della pendenza totale dà idea la pianta proiezione qui unita, nel rapporto metrico di 1 a 200 (fig. 17).

Ma dall' inclinazione in senso contrario che ha la vicina torre Asinelli, si deduce che il terreno avrà avuto diversa consistenza da un luogo all' altro.

Dividendo l' altezza della torre fino a livello del coperto che poggia nella torre stessa verso oriente, ch' è di metri 40,15 per il giù di piombo di metri 2,52, ne risulta la pendenza maggiore del sei per cento, ossia 0,063.

E ripetendo ciò sui muri formanti la finestra a mezzodì di met. 1,80/0,12 = 0,066.

E così pure sui muri che comprendono il vano d' ingresso superiore alla torre di met. 1,65/0,10 = 0,0606.

Corrispondono le pendenze dei corsi dei mattoni verticali con quelli dei corsi traversali e risulta evidentemente l' abbassamento del terreno durante la costruzione della torre, laonde non è ammissibile che la torre sia stata costruita nella posizione in cui è attualmente ».

Queste conclusioni, le quali trovan riscontro nell'inclinazione della vicina torre Asinelli ed eziandio della torre Coronata, non sono punto diverse dalle conclusioni ottenute con osservazioni scientifiche ed artistiche concernenti il campanile di Pisa (27). I due antichi architetti sono pertanto assolti dalla taccia di aver elevati obliquamente questi due edificii, con istranio intendimento e con disaggradevole effetto. Le dubbiezze son dunque assolutamente eliminate malgrado talun recente sragionatore e credo non vi sarà nessuno cosi cocciuto da dubitare ancora dopo codesta esposizione di fatti.

La base della Garisenda (stoltamente incavata (28) per allargar botteghe) è, conforme alle altre, rivestita di parallelogrammi di gesso messi a scarpa in cinque file, il più lungo dei quali è di metri 2,50 alto metri 0,50: l'altezza loro totale è di metri 2,90. Dal lato occidentale vi è una porta a livello della strada con arco esterno e cieco, alcun poco ogivale, sopra l'architrave di gesso posante su due modiglioni pur di gesso (29).

Poi i modiglioni e l' architrave sono ripetuti nel mezzo della grossezza del muro, appoggiando su due pilastri, e così ancora per la terza volta nell' interno della torre, ma con arco ogivale, ch' è più pronunziato nella fascia a cunei di macigno. In questa parte interna la porta ha però proporzioni molto più grandi ed è veramente maestosa. Ne porgo qui di nuovo il disegno (fig. 18) tolto come dissi dall'interno della torre.

Fig. 18

La quale inoltre ha anch' essa una porta superiore, volta a settentrione (30), all' altezza di metri sei dal suolo, per la quale da lungo tempo si monta sulla torre, essendone chiuso da volto il vacuo in cui dà la porta inferiore. La superiore ha un architrave pari al muro, tanto nella parte esterna quanto nell' interna, appoggiato sulle pilastrate; e sopra l'architrave gira un arco cieco a tutto sesto di mattoni. Poi un po' indentro, così nel lato esterno come nell'interno, v'è un altro architrave sottoposto al primo eretto dai soliti modiglioni. Il disegno qui contro (fig. 19) è tolto anch' esso di dentro la torre, e la linea che vi è accanto, segnando la verticale, fa vedere il pendìo della porta che segue quello della torre.

Fig. 19

Le tre finestre, che sono in altrettanti lati a considerevoli altezze, furono costrutte bensì ad arco semicircolare ma in modo diverso senza fascia, senz'architrave e quindi senza modiglioni cioè a dire come tutte le altre finestre delle torri bolognesi (31).

Alle finestre della Garisenda si connettono in ogni lato della torre certi piccoli parallelogrammi di gesso sporgenti da sotto tutti i forami per i ponti, che sono a livello di ciascuna finestra. Quindi la prima fila di essi parallelogrammi è sotto i forami alti da terra dodici metri; alla seconda s' interpongono otto forami, o met. undici e ottanta ed alla terza altri cinque forami, o met. sette. E tali parallelogrammi sporgenti, che sono soltanto in questa delle torri bolognesi e nell' Asinelli, han riscontro certi in mensoloni o meniani ugualmente disposti ad intervalli nelle torri di Firenze, i quali servirono secondo l'opinione del Vasari e del Lami (32) a reggere impalcature esterne, sia ad uso di guerra sia per starvi a sollazzo. Al che in fatti converrebbe l' uguaglianza di livello di tali file di parallelogrammi e delle finestre nella Garisenda e nell' Asinelli, perchè dalle finestre si poteva appunto aver adito all' esterna impalcatura.

(1) Savioli, Ann. v. 1, pag. 193.

(2) Ghirardacci, Hist. v. 1, pag. 449.

(3) Histor. miscell, col. 329. Ghirardacci, v. 1, pag. 432, 585.

(4) Mazzetti, Repert, pag. 141.

(5) Decameron, giornata 10, nov. 4.

(6) Ad esempio nella magnifica opera in foglio The ecclesiastical architecture of Italy etc. by Henry Gally Knight. London 1843.

(7) Sabbadino degli Arienti in Ghirardacci, v. 1, pag. 59.

(8) Inferno, c. 31, v. 11.

(9) Docum. n. 11.

(10) Docum. n. 43.

(11) Docum. n. 149.

(12) Alidosi, Instrut., pag. 141, 142.

(13) Alidosi, Instrut., pag. 189.

(14) Ghirardacci, Hist. v. 1., pag. 365.

(15) Con rogito di Matteo Torelli del 25 giugno, come si vede nel vacchettino ms. dell' Alidosi 484, fol. 17.

(16) Alidosi, Instrut., pag. 189.

(17) Docum. n. 243.

(18) Inferno c. 31, v. 11.

(19) Lib. 69, Memor. 1287 nell' antipag. v. L' antico apografo bolognese di questo sonetto, scritto anche in altri codici, fu da me rinvenuto nell'agosto del 1869, siccome risulta dalle note dell'archivio notarile per la consegna fattami del volume che lo contiene e ne diedi poscia la trascrizione al ch. sig. prof. Carducci, il quale fece noto esso apografo alla deputazione di storia patria nella seduta del 22 dicembre 1872. Quindi da quel giorno fu preso atto ch' io avevo rinvenuto, copiato e dato al prof. Carducci l' apografo bolognese. Ma ciò non ostante il sig. avv. Angelo Gualandi, socio dell' anzidetta deputazione, pubblicò esso sonetto nel 1874 come suo ritrovamento e asserendo di aver notato fra' suoi cartolari nel 1865 (ma non di averlo detto a qualcuno) che vi era nei memoriali una poesia da copiare. Egli confessa però d' aver copiato il sonetto solo il 23 marzo 1874, cioè cinque anni dopo ch'io l'avevo trascritto e più d'un anno dopo che il prof. Carducci l'aveva fatto noto. A questo proposito meritano d'esser lette le tre appendici del prof. Carducci nei n. 138, 139, 140 (anno 1874) della Gazzetta dell' Emilia.

(20) II dialetto bolognese ha qui in vece di quelli.

(21) con risguardi bèlli, legge il cod. 2448 della Bibliot. univ. di Bologna: ed è la sola variante che esso ci dia.

(22) Histor. lib. 6, deca 1.

(23) Vol. 1, pag. 577. Riportando gran parte del passo sopraddetto il Ricci lo dice tratto dalla Descrizione dell' Italia dell' Alberti ed è tolto in vece dalle Historie di Bologna di esso Alberti.

(24) Gl' intervalli tra le file sono di met. 1,38.

(25) Questa diminuzione di grossezza deriva da sei riseghe al di sopra del volto che sono a intervalli disuguali, cioè:

riseghe grossezza dei muri

6a met. 7,42 met. 1,95 in cima.

5a met. 6,84

4a met. 8,74

3a met. 9,88

2a met. 6,08

1a met. 8,55 met. 2,30 al primo volto.

-----------------

met. 47,51

I muri sono formati di tre teste di mattoni tanto all' esterno quanto all' interno, riempiuto il vano con calcestruzzo di ghiaia.

(26) « Dalla media di altre quattro misure rilevate con mio teodolite (notava il sig. ingegnere Francescani ) mi risultò lo strapiombo di met. 2,34; se non che questa misura è forse meno meritevole di fiducia della precitata ».

Erano state fatte osservazioni sulla pendenza della Garisenda nel

1792 dall' architetto Francesco Tadolini

1813 dai prof. Baccelli e Antulini

1829 (circa) dall'ingegnere Zambonini

e le piccole differenze risultate sembrano derivare dalla difficoltà, non sempre superata, di poter ottenere delle misure esattissime.

(27) Vedasi il cenno stor. e analit. dei discordi pareri su la pendenza del campanile pisano, esposto da Alessandro Torri.

(28) Videant consules !

(29) Alla pag. 14 nota 1 ho già indicato le misure di questa porta, tanto nella parte esterna, quanto nell' interno della torre.

(30) Veggansi alla pag. 16, nota 1 le misure della porta superiore della Garisenda tanto dal Iato esteriore, quanto dall' interno.

(31) Hanno met. 1.81 per met. 0.60 d'apertura.

(32) Antich. tosc. v. 1, pag. 180 e segg.