Famiglia Malvasia

Secondo il Dalla Luna i Malvasia nel 1303 si chiamavano da Campiano, o dalla Serra del conte d'Imola. È da notarsi che anticamente dal vicolo delle Pescarie vi era un Trebbo detto dalla Malvasia. Questa famiglia quando esercitava il banco aveva bottega vicino a detto Trebbo. Nasce però il dubbio se fosse il banchiere che desse il nome al Trebbo, o questo invece al banchiere. Sarebbe a credersi che fosse il Trebbo che lo desse a questa famiglia, perchè avevano ivi smercio di vino dell' isola di Cipro che chiamavasi Malvasia. Secondo altri perverebbe dai della Serra da Gubbio essendo proprietari del Castello della Serra, che alcuni di questa famiglia vendettero ai Bentivogli di Gubbio, venendo poi ad abitare Bologna, altri all' incontro dicono che nella circostanza di esser stato Podestà di Bologna Monaldo dalla Serra, si trasferissero i suoi figli e discendenti a Bologna nel 1315 e vi facessero i banchieri. In questa famiglia vi furono vari fidecommessi, e cioè di Cornelio, di monslgnor Innocenzo e di Costanzo.

Poi di Gio. Battista seniore morto nel 1573.

Di Gio. Battista iuniore di Antonio Galeazzo iuniore morto nel 1680, del conte Giuseppe Michele morto nel 1695.

Finalmente della Mazza consistente nei beni a Castel S. Pietro in causa di Lucia di Giulio dalla Mazza moglie di Sebastiano Gabrielli.

Ebbero la eredità Gabuzzi che gli pervenne pel matrimonio di Ginevra Gabrielli con Cesare di Antonio Galeazzo Malvasia, a cui era unita l'eredità Muzzi, in causa di Laura Muzzi moglie di Sabastiano Gabrielli, e madre della predetta Ginevra in Malvasia.

Quella d'Orazi, prima Pietramellara, che passò ai Malvasia da S. Francesco pel matrimonio di Vittoria di Lodovico Pietramellara Orazi moglie del conte Francesco Malvasia.

Quella Bianchini, pel matrimonio del conte Giuseppe Michele, con Catterina Bianchini, passata poi in casa Scappi.

Fu sua proprietà il palazzo dietro Reno già dei Gozzadini, che passò al ramo di Antonio Galeazzo senatore, da lui venduto per pagare una sicurtà. Ill palazzo nella seliciata di San Francesco di Virgilio Garbieri fu comprato da Costanzo Malvasia nel 1530.

Il ramo senatorio di Antonio Galeazzo aveva beni al Trebbo, il palazzo e tenuta di Panzano, il palazzo dietro il canale di Reno, quello da S. Pietro, quello in Strada Maggiore e quello in S. Donato. Questo ramo aveva l'eredità Gabrielli.

Ebbe poi la contea di Secchio e di Costebuona nel Reggiano insieme ai Malvasìa del ramo della Seliciata. Possedeva la rocca o torre di Sant' Arcangelo presso Rimini, e la torre sopra la porta di Castel S. Pietro ceduta in progresso di tempo alla Comunità. Detto ramo ebbe anche l' eredità Bianchini, fu investito dalla Mensa Arcivescovile di Sarsina dell' ottava parte di Castel Falcino nel 1634. Dopo la morte del conte Cornelio, avvenuta nel 1664, pervenne a questo ramo il palazzo di Strada Maggiore, Panzano, e le Alfonsine. Alla morte del conte Cesare Malvasia nel 1767 fu calcolata l'annua rendita di questo ramo a L. 32478 e nette L. 18172, 19, 2.

Il ramo di Costanzo della seliciata di S. Francesco, oltre il palazzo, aveva la tenuta della Sterpata a Crevalcore, quindi gli pervenne l' eredità Orazi nel 1774, ed il Senatorato nel 1554. I componenti questo ramo furono fatti conti palatini dall'imperatore Massimiliano con dispaccio 8 dicembre 1575, con cambiamento dell'arma e col diritto d' inquartare l'aquila nera imperiale da una sol testa. Il marchese Cornelio ebbe dal duca di Modena un feudo col titolo di marchesato, ed essendo morto senza figli fu incamerato. La Rocca di Sant'Arcangelo l' ebbero per concessione pontificia, la quale dal senator Cesare ultimo fu venduta ai Ruggieri benestanti di detta terra.

Il celebre conte Carlo Cesare canonico Malvasia, autore della Felsina pittrice, fu figlio naturale di Antonio Galeazzo. Fu dottor insigne di leggi e di teologia, e lettor pubblico. Morì il 9 marzo 1678, e sepolto in S. Iacopo. Possedeva il casino e la toretta fuori porta S. Donato dove esegui molti lavori importantissimi, ricevendovi gli uomini celebri di quell' epoca, e tenendovi sedute letterarie.

Il conte Cesare di Antonio Galeazzo fu fatto senatore li 28 marzo 1577 in luogo di Cornelio di Napolione suo zio, fu dottor di leggi, e sposò Ginevra Gabrielli. L' 8 dicembre 1575 ebbe privilegio dall' imperatore per sè e suoi discendenti di essere conti palatini e di cambiar arma surrogando ai cinque monti verdi tre d' oro, e al serpe o drago verde uno parimenti d' oro in campo azurro, con facoltà d' inquartarvi l' aquila nera imperiale da una testa pur essa con corona d' oro.

Il conte Cesare Alberto d' Antonio Galeazzo, maritossi con Giulia Malvezzi, e dopo esser stato fatto ventuno volte anziano fu fatto senatore. Nella sera del giovedì santo 4 aprile 1699 fu avvelenato mediante un pancotto da Antonio Galeazzo suo figlio che fu poscia relegato nella fortezza di Rubiera.

Il conte Cesare Alberto del conte Cornelio senatore, marito di Ginevra Gozzadini, morì l' 8 luglio 1768 di febbre maligna dopo 13 giorni di malattia. Gli furono fatti pomposi funerali in S. Iacopo. Fu uomo di carattere strabiliare, ma giusto, distintlssimo cavaliere, gentile con tutti, religioso, amico sviscerato verso l'amico, ed integerrimo cittadino. Fu sepolto in S. Giacomo.

Le gioie trovatigli ascendevano al valore di stima Zecchini 1537. Gli argenti L. 16865, 1. Lasciò una rendita netta di L. 27625, 75. Aveva debiti fruttiferi per l'annua somma di L. 3915, 7, 4, e debiti secchi per L. 13280. Alienò durante la sua vita per L. 272463, 19; 4, e fece debiti per L. 148010, 12, 6. Acquistò per L. 306463, 19, 4, in guisa che il deficit fu di L 79212, 16, 8.

Cornelio di Napolione entrò senatore il 6 marzo 1554 in luogo di Filippo Guastavillani. Nel 1566 andò e Roma ambasciatore per l'elezione di Pio V con Ercole Bentivogli e Francesco Maria Casali. Li 30 ottobre 1570. essendo senatore, e ambasciatore, fu dal Reggimento fatto suo ambasciatore al legato di Romagna essendolo pure di Bologna, dopo esser stato quindici giorni prima tesoriere di Bologna. Li 13 febbraio 1576 partì per Roma onde risiedervi ambasciatore in luogo di Agostino Ercolani. Qualche cronista vorrebbe far credere che fosse eletto li 17 maggio e che partisse il primo giugno 1576. Nel 1549 era stato difensore del Cambio. Esercitò il banco sotto il volto dei Banchi in una bottega di Matteo Amorini, e cioè fra la bottega ove esercitava banco il suddetto Matteo e Rinaldo Buglioli Mori all'i 22 marzo 1577, ed il suo posto fu dato a Cesare di Antonio Galeazzo suo nipote ex fratre.

Cornelio del senator Ercole ebbe in moglie Ortensia Ercolani. Fu accademico Gelato, tenente sotto il generale Baron Mattei nell'armata di Urbano VIII. Fu destinato ambasciatore nel 1655 dai bolognesi per Innocenzo X che non lo accettò, del qual rifiuto indignatosene recossi a Modena, ove da quel Duca fu fatto colonello e generale d'artiglieria, e poscia donato di un feudo col titolo di marchesato. Fu valoroso e del pari generoso, colto e versatissimo nella scienza astronomica. Fu tenente generale di Lodovico XIII Re di Francia ne' suoi eserciti in Italia. Fu padrino nel famoso torneo del 1628. Li 23 ottobre 1529 furono esplose parecchie archibugiate contro la casa Malvasia, che da taluno si disse contro i Malvasia, e da altri contro gli uomini di Filippo Malvezzi che a lui uniti volevano entrare in detta casa, ma questo incidente non ebbe tristi conseguenze, e terminò senza rumore di sorta. Fu esso Gonfaloniere nell'anno 1630, in cui Bologna era straziata dal contagio, e la sua carità cittadina e coraggio fu senza pari. Morì li 29 marzo 1664 d'anni 61, e sua moglie nel 1656, che gli aveva portato in dote L. 40000. Giulio di Cornelio senatore, il 9 marzo 1579 si maritò ad Isabella di Gio. Paolo Castelli con. dote di scudi 6000, parentado che ebbe luogo sotto gli auspici del Cardinal Giovanni Moroni di Milano. Fu dedito agli esercizi cavallereschi, giostre, ecc. Fu cavaliere compitissimo e di maniere dolcissime, versato in cognizioni politiche che gli procurarono corrispondenze di molti principi e signori. Morì nel 1620. L'anello inquartato nello stemma di questa famiglia rappresenta quello stesso che l'arcivescovo di Ferrara pose in dito a Carlo V nella sua coronazione. La collezione Guidicini possiede la famosa e celebre cavalcata che ebbe luogo in Bologna per la venuta di quell'Imperatore e del Papa Clemente VII, tirata in tela, di quaranta fogli del pittore Hoghenbergus, molto interessante e rara per designare essa tutti i costumi di quell'epoca. Si darà poi a suo tempo esatta e particolare descrizione della prima e seconda coronazione di Carlo V, che in gran parte rilevasi da un prezioso opuscolo stampato l'anno 1530 in Bologna, pure esistente presso l'editore di questa storia. Riuscirà interessante la lettura di una narrazione che concerne due membri di questa illustre famiglia.

Era carcerato nel Sant'Uffizio di Bologna Emanuele del fu Gaspare Rodriguez Passarino, nato, e battezzato in Siviglia il 9 maggio 1641, che facevasi chiamare Leone, ovvero Giuda Vego, reo d' apostasia. In detto tempo Luigi del fu Francesco Malvasia richiese più volte, con promessa di 100 e poi di 300 doble ed anche con minaccie, a Valentino Fabri servitore dell'Inquisitore, che antecedentemente lo era stato di Girolamo Malvasia suo fratello carnale, di far fare le chiavi false delle porte del Sant' Uffizio, per poterne far fuggire il Passarino, preghiera che fu fatta anche alla presenza di Girolamo. Valentino finì per accondiscendere dando l' impronta delle chiavi disegnata sulla carta unitamente alla chiave comune della porta dell'Inquisizione, che Luigi improntò sopra cera lacca rossa, poi da Innocenzo Piazza suo cameriere, perito nell'arte di fabbro ferraio, fece fabbricare le chiavi stesse nella palazzina alla Sterpata, di proprietà Malvasia.

Fatte le chiavi, i fratelli Malvasia, Innocenzo Piazza, Vitale Ambrosio ebreo, ed altri due complici ebbero vari congressi sui mezzi da praticarsi onde metter in salvo il carcerato. La mattina del sabato 24 febbraio 1674 l'Inquisitore andò a dir messa alle suore di S. Mattia, della quale opportunità essendone i complici informati, si recarono alla chiesa di S. Domenico, e Valentino colle chiavi false apri le porte delle carceri facendone sortire il Passarino, e condottolo fino alla porta della sacristia, lo consegnò ad altro complice che ivi stava attendendo in unione ad Emanuele, Innocenzo e Luigi, che usciti dalla chiesa e giunti nella piazza vi trovarono Valentino ed un altro complice, nell'abitazione del quale erano già preparati i cavalli per fuggire. Intanto Luigi fece tosto sapere a Vitale Ambrosio ebreo, per mezzo d' Innocenzo, che Passarino era sortito dalle carceri ed in suo potere. Ambrogio per le poste parti subito per Venezia onde recare ai parenti dello scarcerato la lieta novella. Luigi consigliò Valentino a fuggir pur esso da Bologna in compagnia del Passarino, come di fatto fece. Giunti alle Rosate vi si fermarono per aspettar Luigi, dove arrivò il lunedì accompagnato da Innocenzo, e la mattina susseguente partirono per la Polesella raggiungendo Luigi in Arqui, che li aveva preceduti, poi tutti uniti partirono per Adria, indi s' imbarcarono per Venezia ove giunsero il giovedì mattina. Innocenzo fu regalato dall'ebreo Vitale Ambrosio di due doppie, di sei un complice, e di due un altro.

Compito ciò Luigi consegnò il detto Passerino a Vitale, che scesi di barca scomparvero. Luigi mostrò poi agli altri complici un sacchetto lungo circa un palmo pieno di dopple che disse aver ricevuto dagli ebrei in premio della seguita scarcerazione, soggiungendo a Valentino che in detto sacchetto vi erano 300 doppie per lui, ed ai complici, che pur essi sarebbero stati degnamente compensati.

Luigi temendo che Valentino potesse un giorno denunziarlo, pensò di farlo uccidere dagli altri complici, che sulle prime recisamente rifiutarono, ma poi a furia di scongiuri acconsentirono ricevendo da lui stesso un coltello alla Genovese, del quale dovevano servirsene quando gli avessero tirata un' archibugiata, per cosi essere assicurati della sua morte. Accettatosi da loro il mandato, Luigi partì con Innocenzo, ordinando a Valentino di andare coi due complici che erano incaricati di condurlo in luogo sicuro sul Mantovano. Valentino partì senz'ombra di sospetto accompagnato dai sicari del Malvasia, e giunti alle Quadre verso il Mantovano, uno di essi esplosegli alle spalle un' archibugiata che tosto lo balzò a terra, onde credutolo morto non scese per tagliargli la gola, siccome eragli stato ingiunto da Luigi, solo ordinò al compagno scendesse da cavallo per assicurarsi se realmente era estinto, altrimenti lo finisse. E di fatto sceso quegli da cavallo ed accostatosi a Valentino, sentendo non fiatava, lo credette positivamente morto, e con un calcio lo precipitò nella vicina fossa d'acqua. I sicari andarono alla Sterpata dove trovavasi Luigi ed Ippolito, il qual primo, saputo che non gli avevano tagliata la gola, montò su tutte le furie. Giunto a Bologna l'altro sicario fu interrogato da Girolamo Malvasia, e lo assicurò tutto essere andato a seconda del loro desiderio.

Girolamo la sera delti 4 e 5 marzo si portò fuori di porta S. Felice ad aspettare Luigi, il quale la sera del 5 arrivò a cavallo armato, e seguito da Innocenzo. La susseguente sera Luigi fu avvisato che Valentino non era subito morto, ma solo dopo pochi giorni, e che il tribunale informato dell'assassinio, aveva esaminato Valentino, il quale aveva rivelato tutto quanto il fatto avvenuto, per cui la stessa notte Luigi e Girolamo con Innocenzo partirono da Bologna, prevenendone i sicari, che pur essi tosto fuggirono, senza che il Santo Uffizio potesse penetrare il loro rifugio.

Dopo inutili ricerche la Congregazione del Sant'Uffizio di Roma con lettera delli 15 gennaio 1675 ordinò la spedizione del Monitorio contro i due Malvasia ed il Piazza, che ebbe luogo li 16 gennaio affigendolo alle case dei delinquenti, ed alla Metropolitana. Spirati i trenta giorni assegnati, e non comparsi, il dott. Pietro Vincenzo Mantachetti fiscale del Sant'Uffizio fece citarli a comparire la domenica 3 marzo 1675 in questa Metropolitana nell'ora di vespro per udire la loro sentenza che fu la seguente:

1. Scomunicati della scomunica maggiore.

2. Dichiarati rei di lesa maestà

3. Condannati a perpetua infamia, privati della facoltà di far testamento, di poter succedere a qualsiasi eredità, successione, o donazione, o legato, sì per parte dei parenti che di estranei, o per testamento, o ab intestato, o per fidecommessi, sottoponendo ancora i loro figliuoli e nepoti per linea mascolina alla perpetua infamia, alla privazione di dominio, di dignità, di onori, di feudi, di qualsiasi grazia o benefizio, così ecclesiastico, che temporale, ed a perpetuità della tradizione al braccio secolare, della confisca di tutti i singoli loro beni tanto mobili quanto immobili, ragioni, azioni, nomi di debitori, e di qualsivoglia altra sorte di beni, tutti applicati al Sant' Uffizio.

La detta sentenza fu pronunciata dal cardinale Bonacurso Bonacursi Legato e giudice delegalo, e dal cardinale Girolamo Boncompagni arcivescovo di Bologna.

Si rifugiarono a Venezia ove vissero per molti anni sotto mentito nome. Oltre la confisca dei beni, siccome più sopra fu detto, furono pur condannati a morte, e la loro sentenza pubblicamente letta nel modo il più solenne, ed a suono di campane. I beni poi dopo qualche tempo furono restituiti al conte Lodovico loro fratello, che si assunse corrispondergliene una piccola porzlone pel loro mantenimento.

Lettere di Venezia del 28 ottobre 1703 portarono l'annunzio della morte di Luigi.