Piazza di San Domenico, dal I volume delle “Cose Notabili…” di Giuseppe Guidicini, con le correzioni di Luigi Breventani

La piazza presente di S. Domenico è di tornature 2, 81, 7, delle quali pertiche 259, 6, 7 seliciate, e pertiche 36, 68 prative. Manutenibile pertiche 37, 04, 2.

Dov' è la chiesa e il convento di S. Domenico ed i suoi contorni erano vigne; quindi le chiese di S. Nicolò e di S. Bartolomeo si dissero delle Vigne. Una via si dice anche in oggi strada delle Vigne, altra Vignacci, fra le quali si trovano spesso ricordati i Vignacci di S. Procolo. che s' estendevano fino alli così detti Vignacci del Cane di dietro alle case dei Marsili.

I Vignacci di S. Procolo erano probabilmente dov' è la via Larga di S. Domenico e quella dei Mattagliani.

L'antico Sacrato di S. Domenico era più vasto dell'attual piazza, ed in varie memorie del convento viene tutto qualificato per luogo sacro; ma l'ampliazione della chiesa, la fabbrica dei due oratorii delle compagnie dei Crocesegnati e di S. Domenico, le concessioni dei Domenicani a diversi proprietari di edifizi verso settentrione, come alle scuole Pie nel 1603, alle Terziarie Domenicane sul principio del secolo XVIII, e nel 1657 a Camillo Boccaferri che ottenne di avvanzarsi dalla via delle Vigne alla sepoltura dei Foscarari per piedi 20 verso la capella del Rosario, restrinsero il piazzale come in oggi lo vediamo.

Un necrologio scritto nel 1291 ricorda i nomi di 407 individui sepolti nel sud detto cimitero, e disposti in varie linee dalla parte della porta laterale, e dell' anteriore della chiesa di S. Domenico.

In progresso di tempo sappiamo esser stato tutto piantato di mori gelsi, poi tolti nel 1600. Nel giugno del 1823 fu in gran parte seliciato a spese del Comune, nella qual occasione ribassandolo dalla parte del portico esposto a settentrione, si trovarono molti avanzi di cadaveri umani.

Fanno capo a questa piazza la via dell'Orto a levante, quella di S. Domenico a mezzogiorno, la via Larga di S. Domenico a ponente, e quelle d'Egitto, Garofalo, a settentrione.

Dicesi che la via delle Grade, prima dell' ingrandimento della chiesa di S. Domenico e della fabbrica del convento, continuasse fino al ponte dell' Avesa, e cioè in prossimità della chiesa del Crocefisso del Cestello.

Il sepolcro d'Egidio di Guglielmo Foscarari, famosissimo dottor decretale, morto li 9 gennaio 1288, ( il necrologio del convento dei Domenicani lo dice morto li 9 gennaio 1299), si vuole eretto fra il 1298 e il 1299. Nel succitato necrologio si trova notato: "Gidius de Foscarariis doctor legum de capella S. Mariae de Carrariis, et est iuxta Cratem Ferream". È notabile in questo monumento l'arco di un sol pezzo di marmo greco con rozzi bassorilievi, che sembra dapprima avere servito di ciborio a qualche altare dei bassi tempi. La lapide del sarcofago dice: "1289, 9 jannuari. De Fuscarariis" ecc.

Il mausoleo isolato dei correttori dei notari, morti in carica, è sostenuto da nove colonne nel primo piano, e da ventotto nel secondo. La cassa racchiude le ceneri dei seguenti illustri personaggi:

Rolandino Passaggeri morto li 13 ottobre 1300.

Obizzo di Pirro Viggiani morto li 3 novembre 1581.

Giacomo Zoppi morto li 25 febbraio 1592.

Leonardo Crescimbeni morto li 24 luglio 1594.

Cesare Scudieri morto li 16 dicembre 1608.

Silvestro Zucchini morto li 28 febbraio 1685.

Questo monumento fu risarcito nel 1603, nel 1712, e nel 1823 per cura e a spese del collegio dei notari.

Fra la predetta piramide e l'arco primo della facciata della chiesa vi era l'avello, anch'esso isolato e piramidale, della famiglia Mezzovillani, passato poi in proprietà ai Nobili, indi ai Dalla Torre, e finalmente demolito nel 1714. Dentro vi trovarono otto teschi.

Li 28 aprile 1627 il Senato diede il permesso, confermato li 28 giugno 1628, di erigere la colonna. alta piedi 36 e oncie 6, che sostiene la statua di rame dorata di S. Domenico fatta in Milano, per l' erezione della quale Laura Giorgi, vedova d'Orintio Stancari, donò L. 3000, come da rogito Zagnoni delli 3 dicembre 1627.

La colonna della B. V. del Rosario, alta piedi 37, fu innalzata nel 1632, e l'Oretti dice nel 1633, con statua di bronzo, in memoria della liberazione dal contagio, che tanto infierì in Bologna nel 1630. I primi seguaci di S. Domenico vennero a Bologna sul finire del 1217, o sul cominciare del susseguente anno. Dicesi che dopo qualche giorno di dimora nel monastero di S. Procolo, passassero all' ospitale di Santa Maria di Roncisvalle nella Mascarella, dove rimasero finchè al cominciare del 1219 fu mandato dal Patriarca il P. Riginaldo con titolo di Priore, il quale diede l'abito conventuale a cinque suoi compagni che qui si trovavano, mentre reggeva la chiesa di Bologna Enrico Della Fratta che protesse il nuovo istituto.

Li 14 marzo 1219 il Priore Riginaldo comprò da Pietro di Lovello Carbonesi di Guiterno, di Carbone di Marocia, padre di Andalò, ed avolo della B. Diana di detto Andalò, e da Otta di lui moglie, una pezza di terra con casamenti, di chiusi 130, posta in contrada S. Procolo, in luogo detto Braita di Pietro di Lovello, e cioè dalla chiesa del B. Nicolò, e dal terreno alla medesima concesso. Confina a mattina e a sera due strade che conducono a quella posta presso il Fossato, a mezzodì la predetta via che va lungo il Fossato, ed a settentrione la chiesa del B. Nicolò, ed il terreno alla medesima concesso. Il prezzo fu di tre lire di bolognini che Lovello confessa di aver ricevuto.

Successivamente alla stipulata vendita il suddetto Pietro di Lovello, o Lodovichello, cede al P. Riginaldo il iuspatronato della chiesa del B. Nicolò delle Vigne, ed il terreno applicato alla medesima, salvo et retento (a Lovello ed a' suoi eredi) jure patronalus, quod aliquis laicus habere potest in aliqua conventuali, et Collegiata Ecclesia de jure comuni. Otta moglie di Lovello acconsente al contratto.

Abbiamo dalle cronache che morì nel 1198 messer Passipovero Passipoveri, nobile e magnifico cavaliere, e che fu sepolto nella chiesa di S. Nicolò delle Vigne, poi detta di S. Domenico.

Pretendesi che alla fine d'aprile, o al principio di maggio del 1219, si traslocassero i Domenicani da Santa Maria della Mascarella a S. Nicolò delle Vigne, dove li 16 maggio 1220 tennero il capitolo generale, nel quale fu stabilito che i conventi e le chiese della religione dovessero esser umili e senza preziose suppelletili. Non è noto quando si sia derogato da questa costituzione.

Il Masini ristampato aggiunge che Rodolfo da Faenza, Rettore della chiesa del B. Nicolò, rinunziò ogni suo diritto ai Domenicani, e vestì l'abito del nuovo istituto.

1220, 13 luglio. Rodolfo, forse il prodetto dimissionario di S. Nicolò delle Vigne, comprò una casa sopra terreno di Lovello, in Braida, dopo la chiesa di S. Nicolò, di dietro gli altari. Confina a mattina la via designata e Giulio de Bianco, a mezzodì Guido de Vezo, e a settentrione Giovannino Presbitero. Pagata L. 19 di Bolognini. Rogito Giovanni da Aragona.

1220, 26 luglio. Il detto Rodolfo comprò per L. 21 da Giberto Asinara, qual procuratore di Ghirardello di lui fratello, una casa posta sopra il terreno di Pietro di Lovello, nella Braida, avanti la chiesa del B. Nicolò, dietro gli Altari. Confina a sera la strada, a mattina le ragioni di detto Pietro di Lovello, a mezzogiorno e a settentrione Giovannino Tavernaro. Rogito Giovanni d' Aragona.

Il giorno susseguente 27 luglio lo stesso Rodolfo compra per L. 19, da Petronio Triclo. una casa posta dietro gli altari del B. Nicolò. Confina a mattina le ragioni di Giulio di Bianco, a sera la strada, a mezzogiorno Guido di Vezzo, e a settentrione Giovannino. Rogito Giovanni d'Aragona.

Pietro di Lovello li 13 gennaio 1221 dichiara di essere stato integralmente pagato da D. Paolo, Priore e Rettore del Collegio, ossia Università della chiesa del B. Nicolò di Braida, dell' ordine dei Predicatori, di L. 600 di Bolognini, 230 delle quali le riceve in prezzo di 200 chiusi di Terreno della Braida, vendute al fu Riginaldo Rettore dei frati dell' ordine predetto in ragione di L. 3 di bolognini per chiuso. Rogito di Pasquale da Saragozza.

1221, 7 giugno. Il P. maestro Domenico, Priore di S. Nicolò, acquistò per lire 1100 da Pietro di Lovello tre tornature di terra presso le fosse della città. Confinavano a mattina le ragioni di Donna Otta, a mezzodì la strada pubblica, a settentrione una via privata, e a sera le ragioni della chiesa del B. Nicolò. Il rogito è di Giovanni d' Aragona, e fu stipulato nella chiesa del B. Nicolò davanti l'altare di Santa Maria, presenti Ugolino dottor in leggi, Caccianemico Muratore, Giacomo fratello di Zaulo del Bego da Faenza, Guirardo della stessa terra fratello del P. Ridolfo, Azzone de' Varii prete, Ugone d'Alessandro, Arnaldo Vasco di Mauro Guglielmo, Alessandro e Mauro Guglielmo testimoni.

Li 8 agosto 1231 (forse 1221) Otta vedova del predetto Pietro di Lovello vende ai Domenicani una tornatura di terra, meno un chiuso, posta nella Braida, sulla quale è la chiesa del B. Nicolò.

Frate Giovanni da Piacenza, sotto la data delli 9 gennaio 1230, comprò da Tommasino Pistore un' ortaglia, ovvero casamento posto presso il Fossato e strade pubbliche dal ponte delle case dei Principi sopra l'Avesa, di superficie chiusi 6, per lire 16. Rogito Elia Bragairacci. Si noti che presso l' Avesa e i Principi vi erano terreni di Otta Carbonesi e dei di lei figli, e che in quest' anno seguì un contratto dei Padri Domenicani, nel quale si parla di certa moneta detta boni stirlinghi, che si divideva in marchi e in soldi; il marco era composto di 13 soldi e di 4 denari stirlinghi, e pare che fosse moneta fiorentina.

Il Consiglio di Bologna donò al convento di S. Domenico, li 19 febbraio 1264, il fossato per il lungo, permettendo di spianarlo e di chiuderlo per ingrandire l' orto ed avvantaggiare l'infermeria, a condizione di lasciar libera la strada pubblica come stava. Dunque la strada era al di là del fossato, e cioè dov' è ora la via Vasselli.

Fra i benefattori dei Domenicani figura il famoso Rolandino del fu Rodolfino Fioretta, lettore dell'arte dei notari, per la donazione da lui fatta li 27 agosto 1274 ai suddetti religiosi di due pezze di terra poste nel comune di S. Vitale, le quali, li la maggio 1312, furon vendute per L. 280 ad una dei Ghisilieri.

Si ha il seguente decreto di Ottaviano Vescovo di Bologna, delli 4 giugno 1281: "È proibito a chichessia di fabbricar case, oratori, o chiese di persone religiose, dalla strada di Castione sino a quella che conduce alla fontana di Remondato, da S. Michele in Bosco fino al convento di S. Domenico, dalla fossa degli Asinari sino al luogo vecchio di Sant'Agnese, e da questo sino al luogo che le suore di Sant' Agnese. stanno fabbricando, finalmente da questo sito sino al convento di S. Domenico".

Li 5 luglio 1286 Sinibaldo, professore di grammatica. figlio del fu Gentile da Cingoli assolve frate Artusio Vicentino, vicario di frate Florio inquisitore delle Provincie della Marca e della Lombardia, di L. 155, prezzo di una casa altra volta venduta per l'uffizio dell' Inquisizione al detto frate Florio , posta in contrada S. Domenico. (La contrada di S. Domenico pare la stessa che poi si disse Patarina, indi via dell'Orto, la quale continuava dietro l'Avesa fino al Cestello). La detta casa era presso Nascimbene beccaro, presso l' acqua dell' Avesa, e presso gli eredi di Bolognino fornaro. Rogito Giacomino dalle Torri.

Da questo contratto risulta che l'uffizio dell' Inquisizione fu già a quei tempi all' incirca nel luogo stesso, o prossimamente a quello dove era anche ultimamente. Passò poscia nel chiostro terzo ossia dal pozzo di S. Domenico circa il 1342, come da una stampa pubblicata dai Domenicani in occasione di certe controversie insorte fra il P. Inquisitore, i Crocesegnati, e i confratelli della compagnia di S. Domenico, la qual stampa è autenticata dal notaro Francesco Maria Fabri li 7 dicembre 1685.

1288, 18 aprile. Il Consiglio permise ai Domenicani di chiudere con muro il fossato cominciando dal ponte dell' Avesa fino alla sponda dell' altro ponte incontro la via di Mirasol Grande. Rogito Benvenuto Martini e Riguzio Pace. Questa permissione del Consiglio è la conferma dell' altra fatta li 19 febbraio 1264. Il ponte dell' Avesa è lo stesso che si dice dei Principi e cioè dov'è la chiesa del Crocifisso del Cestello; l'altro ponte incontro la via di Mirasol Grande doveva essere il Fossato.

1295, 31 agosto. Tommasina del fu Caccianemico di Giacomo d’Alberto di Orso, vedova di Giacomino Bleglone, aveva due vigne, una posta a piede di Basabò fuori di porta Strada Castiglione, e l’altra in Remondato (luogo presso la chiesa di S. Michele in Bosco, dove si trova in oggi il ricetacolo d’ acque che servono alla fontana del Nettuno, vicino al qual sito vi era quello detto Prieda Calcara nel 1221), le quali due vigne furono lasciate, a rogito di Francesco Mascaroni, alle suore di Sant’ Agnese, a condizione che se il convento di S. Domenico volesse pe’ suoi bisogni raccogliere le fonti, e sortive delle acque della vigna di Remondato, lo potesse, come pure condurle al convento ed ivi fabbricare. La vigna di Remondato fu venduta ai monaci di S. Michele in Bosco da Lorenzo di Marco da Firenze nel 1398. Rogito Giovanni Moroni.

Trovasi che nel 1297, presso la nuova infermeria, vi erano le case di monsignor Tedorico Borgognoni da Luca, domenicano, Vescovo di Cervia, il quale testò li 17 ottobre 1298, o li 4 novembre susseguente, nella sua casa in Borgo Ricco.

1403, 5 maggio. Fu annullato il contratto di permuta fatta dei Padri con Benino e Nane Oliveri di una casa grande con corte e pozzo in capella S. Damiano, ovvero di S. Domenico, posta nell’androna dei Pattarini (ora via dell’Orto, e che pare quella già detta di S. Domenico nell’assoluzione succitata delli 5 luglio 1286) presso la casa dell’orto del convento, della via pubblica, e dell’Avesa, la qual casa era destinata ad uso dell’Uffizio dell’ Inquisizione.

L’ orto attinente al convento dei Domenicani oltrepassava la destra riva dell’ Avesa li 10 dicembre 1162, e confinava col casamento del lanifìcio detto Chiora, o Chiuvara. Nel 1531 la posizione dell’ orto di là dall’Avesa fu affittata ad Antonio di Bartolomeo della Ratta della capella dei SS. Cosma e Damiano, per annue L. 70, coll’obbligo di mantenere la siepe nei confini delle Chiuvare e dei Caprara. Rogito Vincenzo d’Arzele.

1752, 28 luglio. I Padri Predicatori vendettero la suddetta porzione ortiva a Giovanni Battista Membrini, possessore della casa in Strada Castiglione N. 368.

CHIESA DI S. DOMENICO

È indubitato che la prima chiesa avuta dal Domenicani in Bologna fosse quella del B. Nicolò delle Vigne, chiesa, che secondo frate Leandro Alberti, esisteva nel 1198, nel qual anno vi fu sepolto messer Passipovero Passipoveri nobile e magnifico cavaliere. Che fosse parrocchia diretta da un Rettore non se ne fa parola nella donazione di Pietro di Lovello, e tutto il fondamento della sua esistenza è appoggiato soltanto all’autorità del Ghirardacci, del Masini, e di altri storici.

Morì S. Domenico li 6 agosto 1221 sotto il priorato di frate Ventura, e fu sepolto nella chiesa del B. Nicolò in un deposito cavato fra due altari, secondo la deposizione di frate Rodolfo da Faenza procuratore del convento, riferita dai bollandisti pag. 640, N. 43. Lo stesso viene deposto dal detto frate Ventura da Verona priore di S. Nicolò delle Vigne, come al precitato tom. I dei bollandisti pag. 634 N. 10. Il padre Turone dice che fu sepolto nella comune tomba dei frati, e cioè nel cimitero conventuale, che dei frati si pretende esser lo stesso d’oggigiorno, il qual cimitero resta fra la sagristia e il tribunale dell’ Inquisizione, che si cominciò a fabbricare li 5 luglio 1568 da frate Antonio Balduzzi da Forlì. Dicesi che nel, piedestallo della piccola colonna di marmo sormontata da una croce che trovasi nel mezzo di detto cimitero vi fosse una memoria che attestava essere stato sepolto in detto luogo il S. P. Domenico. Per assicurarsi di quanto era scolpito sulla lapide, non bisognerebbe però tener conto della distanza di questo cimitero dal chiostro della cisterna. Il predetto Lodovico da Prelormo, custode dell’ arca del Santo nel secolo XVI, stupisce e si duole di non avere in 10 anni potuto mai trovare il preciso luogo ove il S. Padre fu sepolto, poscia soggiunge d'aver raccolto da cronache antiche che fosse sepolto in terra "di drieto a l’altar grande".

Il B. Giordano Generale dei Domenicani dice, che aumentandosi in Bologna il numero dei frati, e venuto il bisogno di ampliare il convento e la chiesa, atterrossi quella parte ov’era il sepolcro di S. Domenico, il qual sepolcro restò coperto di macerie ed esposto al sole, alle pioggia e alle nevi per più anni.

Del 1233 nella notte delli 23 venendo alli 21 maggio, seguì la prima traslazione del corpo del Santo, e da quanto si raccoglie è certo che la sua sepoltura era a cielo scoperto, sia perché fosse stato sepolto in un cimitero, sia in causa del succitato atterramento. Li 11 luglio 1231 fu solennemente canonizzato in Rieti da Gregorio IX, quantunque per questa data si incontri qualche discrepanza fra gli storici che hanno trattato di questa materia.

Dove fosse la chiesa del B. Nicolò è argomento di quistione fra gli antichi e moderni scrittori. Pretendono alcuni che si trovasse dov’è l’ odierna chiesa di S. Domenico, altri la pongono in prossimità della sagristia, e pochi la vogliono nel luogo dov‘era la spezieria, e cioè in faccia all’ingresso del convento; forse nessuno ha colto nel segno, come si vedrà in appresso.

Le memorie dei Domenicani dicono che per la fabbrica di una nuova chiesa furono aiutati con elemosine annuali probabilmente somministrate dal Comune, siccome sussidio che concedevasi a quei giorni a tutte le religioni che imprendevano di erigere chiese; che il padre priore Ventura comprò da Aldrovandino di Azzone da Frignano alcune case per quest’ oggetto, e che Pietro Toschi, romano, donò al convento una sua casa posta in contrada S. Nicolò per l’ effetto medesimo. Nelle compre fatte dai Domenicani attorno la chiesa di S. Nicolò non vien fatto riscontrare come confinanti nè i da Frignano né i Toschi, e non volendo contraddire le citate memorie, ci restringiamo ad osservare che la nuova chiesa possa esser stata fabbricata a non piccola distanza dalla vecchia di S. Nicolò. Che poi s’ imprendesse_a fabbricare un nuovo tempio dedicato anch’esso a San Nicolò, è fuor di dubbio, trovandosi nell’atto di applicazione dei beni del monastero di Sant’ Alberto a quelle di Sant’ Agnese che "Acta fuerunt praedicta in ecclesia S.Nicolai fratrum predicatorum noviter facta millesimo ducentesimotrigesimo. Indictione tertia die13 intrante novembris". Rogito Rodolfo del fu Agostino. Dunque la chiesa nuova era fabbricata sotto l’antico titolo di S. Nicolò, che poi si sarà cambiato poco dopo la canonizzazione del Santo in quello di S. Domenico, e ciò viene comprovato da una bolla di Gregorio IX delli 27 aprile 1238, nella quale si fa menzione della chiesa di s. Domenico, e da un rogito delli 13 novembre 1258 che tratta di una casa posta nelle sue vicinanze ossia del Ponte Nuovo, il quale doveva servire per passar l’Avesa, o il Fossato.

Francesco Accursio, giureconsulto, nel suo testamento fatto nel 1293 lasciò L. 100 per fare nella chiesa tre tribune e un altare.

Tedorico da Luca venne a Bologna d’ anni 6, dove apprese e professò medicina e chirurgia. Si fece domenicano e fu nominato Vescovo di Cervia. Ripigliò la fabbrica della capella maggiore della chiesa di S. Nicolò, ma sorpreso dalla morte non poté finirla. Testò egli li 10 ottobre 1298, a rogito di Giovanni di Damiano, nel quale ordina che sia compita la volta, o cupola, da lui cominciata sul presbiterio . dell’ altar maggiore di S.Nicolò e Domenico dei Predicatori. Lascia i suoi libri di medicina a Tederico di Veltro, a Ugone e Veltrutio fratelli, e figli di Francesco. Alla chiesa di Santa Maria delle Muratelle lascia un apparato da altare e L. 6 di bolognini. Raccomanda i poveri di borgo Ricco suoi vicini. A frate Francesco dei Predicatori, e pe sonalmente, lascia la sua casa in borgo Ricco presso la casa del Vescovo Bethelemitano, presso gli eredi del fu Delfino del fu frate Michele priore, presso Lorenzo di Ugolino brentatore, e presso la via. Alla chiesa di Cervia lascia la sua casa grande fatta da lui edificare poco tempo prima della sua morte, in via Barberia, sotto la capella di S. Barbaziano, o Santa Margarita, presso Paolo Gosberti e gli eredi del fu frate Fino del fu Theuzio. Questo suo testamento fu fatto in borgo Ricco, in casa propria,

Nel 1299 Alberto di Oddofredo lasciò L. 500 per erigere una tribuna e due altari, uno ad onore di S.Matteo, e l’ altro a Santa Catterina vergine e martire. Era sommo iureconsulto.

Dall’ altare di Santa Catterina fu levato il corpo di S. Domenico li 11 dicembre 1411 e riposto nella nuova capella fatta da Antonio di Pietro Curialti da Tossignano.

Frate Bencivenne Borghesini, Priore dei Domenicani, ricorse al comune di Bologna nel 1313, rappresentando che per eseguire quanto aveva ordinato frate Tedorico vescovo di Cervia nel suo testamento, occorreva innalzare la truna degli altari prossimi all’altar maggiore, ed elevare il campanile a modo, che il suono delle campane si spandesse come prima per tutta la città; a ciò fare non bastava il denaro lasciato da detto Vescovo, ma due volte tanto ne occorreva per portare a termine i detti lavori, quindi chiedeva soccorso. Assegnò il Consiglio L. 1000 di bolognini, col patto che si facessero due altari in detta chiesa, uno dedicato a S. Bartolomeo perché in detto giorno ed anno era morto Arrigo VII Re dei Romani, e l’ altro a Sant’ Agostino, per ché in detto giorno giunse novella di sua morte, avvenimenti entrambi ritenuti dal Comune come grazia singolare impartitagli dalla divina provvidenza. Si pretende poi, che ridotta la chiesa nuova a perfezione, fosse innalzata una maestosa capella a S. Domenico nell’ oriental parte di detta chiesa.

Frate Leandro Alberti, sotto la data del 1221, dice che fu cominciata la chiesa dei Padri Predicatori, che ora si vede, cominciando dalle due colonne grosse di mattoni ove finiscono le volte, per cui quivi era la fronte di detta chiesa con la porta rispettiva, e trascorrendo fino alla metà della capella maggiore, che ora si vede, era questa la sua lunghezza; la sua larghezza era dalla sagristia fino alla capella di San Michele dove formava croce. Vero è che il corpo della chiesa non era tanto largo, ma solamente era tanto quanto si ritrova da una parete all’altra che sostentano la bassa volta, ossia delle due piccole navate, essendo poi la volta di mezzo portata da sette colonne, di mattoni. A capo di ciascuna delle navi piccole vi erano due capelle con altari che guardavano ad oriente, siccome il maggior altare. Di mano in mano poi vi furono aggiunte altre parti, siccome il corpo che comincia dallo sumenzionate due grosse colonne fino alla porta maggiore, la qual parte è anch’essa fatta a tre navi tutte coperte di quadroni di legno dorati, e dipinti con varie e curiose figure. Furono ancora accresciute amendue le braccia della prima chiesa, una da Taddeo Pepoli fabbricando la capella di S. Michele e di S. Tommaso d’Acquino, e l’altra da messer Lodovico Bolognini di commiseione e spesa di monsignor Nicolò Lodovisi, edificando una sontuosa capella per conservarvi il capo di S. Domenico, e facendovi inoltre due piccole capelle, cioè una per ciascun lato. Dalla parte sinistra di detta chiesa vedevansi quattro piccole capelle che guardavano a settentrione fabbricate da Taddeo Popoli, poi atterrate nel 1540 per edificarne una superba di commissione del conte Alessandro Filippo e Girolamo di Guido III. Proseguendo lunghesso questa parete ritrovasi la capella di S. Giovanni, più oltre la capella di Sant’ Antonio, e alla fine della chiesa quella fabbricata da Lodovico Ghislardo. Anche nel mezzo della chiesa vi fu fabbricato un vago pontile sotto il quale sono alquanti altari. Fu ancora accresciuta la maggior capella, che è un artificioso edifizio di mattoni, da frate Tedorico de Borgognoni da Lucca, vescovo di Cervia, ov’ egli riposa.

Negli atti del Senato si trova un soccorso dato ai Domenicani per la loro chiesa li 17 ottobre 1519, ed un altro li 11 luglió 1550 per risarcire i muri della medesima. Nel 1625 fu finito il nuovo coro, e levato il vecchio che era in mezzo alla chiesa.

La magnifica capella del Santo, cominciata il primo aprile 1597 nel martedì della settimana santa, si vide compita nel 1601, o nel 1691 si ricoperse la cupola impiegandovi libbre 20964 di piombo. Per salire all’area del Santo nella vecchia capella vi erano due scale, una di 32 scalini, l’altra di 34.

Li 24 luglio 1593 fu posta l’ancona dei Santi tre Maggi all’altar maggiore di S. Domenico. I Barbieri fecero la sposa dell’ intaglio, e i Padri quella della doratura.

1654, 12 giugno. La compagnia del Rosario accordò L. 9759 al Colonna e a Mittelli per dipingere la capella del rosario, salvo l’oro, ponti e muratore. Rogito Carlo Felina.

Questo tempio avendo bisogno di grandi riparazioni nel coperto, fu deciso di alzare i muri laterali per mantenere il nuovo coperto al livello di quello del presbitero.

Nel dicembre del 1727 fu finito il restauro che importò circa scudi 3600 somministrati da Papa Benedetto XIII, già religioso di questo convento. Si proponeva però di ornare la chiesa, al qual effetto furon fatti vari disegni, fra i quali fu scelto quello di Francesco Dotti, che si cominciò ad eseguire li 12 febbraio 1728. Soccorse il Papa il nuovo lavoro con altri scudi 5100, ma progredita, la fabbrica dalla porta maggiore alla capella del Rosario, essendo stato mal prevenuto il Papa, non volle più sommininistrar denaro. Il convento non ostante compì la chiesa colla spesa di oltre scudi 20 mila. Il pavimento fu alzato di oncie 20, e la fabbrica fu portata al suo termine entro l’ anno 1730.

Resta a dirsi che l‘arco esterno che copre la porta principale del tempio fu fatto a spese del famoso Galeazzo Marescotti Calvi (1), al quale li 3 giugno 1461 i Domenicani donarono le due basi con piedestallo che sostengono le due colonne. Gli archi presso la porta del convento furon fatti prima degli altri tre che trovansi dalla parte del sepolcro dei notari. Questi ultimi si cominciarono li 10 febbraio 1756 e furon finiti li 29 maggio susseguente.

Convento di S. Domenico.

Il convento di S. Domenico ha per confini la piazza o cimitero di detto Santo, e la via dell’Orto a settentrione, la via di S. Domenico a ponente, la via Vascelli a mezzodì, il torrente Avesa a cominciare dalla chiesa del Cestello fino alla via dell’Orto suddetta a levante. In qualche parte di questa linea l’Avesa ha oltrepassato il confine di questo vastissimo convento.

Pare probabile che la chiesa di S. Nicolò delle Vigne avesse cura d’anime, ma che in questa continuasse dopo che l’ebbero i Domenicani, e dopo che la chiesa fu intitolata S. Domenico, non se n' ha alcuna prova. Tuttavolta un rogito di Giovanni Battaglia delli 24 settembre 1312 porta come testimoni Ugolino del fu Alberico Scannabecchi, e Dalmasio del fu Giacomo pittore della capella di S. Domenico.

Un rogito di Graziolo di Bolognetta delli 13 luglio 1319 tratta della compra di Bombologno del fu Rolando, da Cola figlio ed erede di mastro Rodolfo muratore, una casa con suolo ed edifizio posta sotto la parrocchia di S. Domenico, per L. 75.

Il Masini cita un rogito di Azzone Bualelli delli 20 luglio 1375 nel quale è quistione di un Lombardino dei pittori della parrocchia di S. Domenico.

Il testamento di Simone di Filippo pittore, esistente nel pubblico archivio, si dà per fatto in capella di S. Domenico li 10 giugno 1396.

Finalmente in un contratto delli 5 maggio 1403 si ricorda l'androna dei Pattarini in capella di S. Damiano, o di S. Domenico. Nè l’ elenco delle parrocchie di Bologna prodotte dal Melloni, né quello del 1408 che servì per mettere un’ imposta sui beni ecclesiastici portano S. Domenico come chiesa parrocchiale. Come si possa sciogliere questo enigma non è facile. Dall’una parte vi sono cinque rogiti che provano esservi stata dal 1342 al 1403 la parrocchia di S. Domenico, e dall’altra viene contraddetta dal silenzio degli elenchi delle parrocchie dei secoli XIV e XV. Nel chiostro corrispondente al N. 584 della via di S. Domenico nel 1250 vi fu collocata la residenza dell’Inquisizione, la gran stanza per gli esami rigorosi e le carceri inquisitoriali. Questi uffìzi vi rimasero fino al 1447, ai quali era aderente la così detta chiesa di S. Bartolomeo nella quale si tenevano le grandi convocazioni e gli auto-da-fè.

In seguito di quanto si è narrato sul conto della chiesa vecchia e nuova di San Nicolò delle Vigne, e di S. Domenico, resta il dire alcun che intorno l’altra chiesa posseduta dai Domenicani entro il vasto loro recinto, e conosciuta sotto il titolo di S. Bartolomeo delle Vigne.

Il Masini racconta che nel 1219 i monaci di S. Procolo donassero ai Domenicani la chiesa di S. Bartolomeo delle Vigne, senza dire come e da dove abbia attinta simile notizia, sulla quale si fanno le seguenti osservazioni che inducono a dimostrare che S. Nicolò e San Bartolomeo delle Vigne fossero una stessa chiesa.

1° Gli archivi di S. Procolo e dei Domenicani non hanno alcun documento di questa donazione, le memorie dei Padri Predicatori non ne parlano, nessun storico ripete quanto ha detto il Masini, e lo stesso frate Leandro Alberti domenicano, bolognese, la passa sotto silenzio.

2° Nel 1219 Lovello dei Carbonesi donò il padronato di S. Nicolò delle Vigne al P. Reginaldo, e il Masini fa donare dal Benedettini ai Padri Predicatori, nell’ anno stesso, la chiesa di S. Bartolomeo delle Vigne. L’atto di Lovello è conservato nell’archivio dei domenicani, quello dell’ abbazia di S. Procolo non si trova.

3° I Benedettini avevano il diretto dominio sopra tutti i terreni limitrofi al loro monastero, e sicuramente sulle vigne di S. Nicolò che vi erano prossimissime.

4° Che queste vigne fossero prossime a S. Procolo lo rileviamo dagli annali dei predicatori, i quali raccontano che certo Beato Chiaro, uno dei primi a vestir l’abito Domenicano, passeggiando con suo padre per le medesime, aveva sentito talora celesti canti, che da lui si giudicarono per quelli dei vicini monaci di S. Procolo. Ma più ancora che dal riferto degli annali, si conferma dalla confinazione della vendita e del dono di Lovello, fatta per atto pubblico nel 1219.

5° Il chiostro dell’infermeria del convento di S. Domenico corrisponde al N. 584 della via di S. Domenico, e questa è la parte più prossima di detto convento al monastero di S. Procolo. Il medesimo chiostro è conosciuto per chiostro terzo, per chiostro della cisterna di S. Domenico, e per quello fabbricato vivente il santo Patriarca, anzi si attribuisce ad opera sua il pozzo scavato nell’angolo settentrionale di detto chiostro, il qual pozzo aveva in uno dei due pillastri, ai quali si raccomandava la girella per trar acqua, la seguente iscrizione: "Fossus a divo Patre Dominico puteus instauratur A. MDVII".

6° S. Domenico mori li 6 agosto 1221, e fu sepolto nella chiesa del B. Nicolò, che fu certamente la vecchia, perché la nuova non era costrutta, e tutt’al più si potrebbe concedere che fosse appena cominciata. La fabbrica del primo chiostro fu eseguita senza dubbio dopo il dono della chiesa di S. Nicolò delle Vigne. Le prime compre dei Domenicani furon fatte in contatto di questa chiesa che dovevano officiare, e necessariamente fu sopra quei terreni che vi fabbricarono il primo chiostro a portata di comunicare immediatamente colla loro chiesa, ma la chiesa a contatto del primo chiostro non era S. Nicolò, ma s’ intitolava S. Bartolomeo delle Vigne.

7° Negli atti dell’Inquisizione dal 1350 al 1400 si trova la seguente formola: "Sedentes in conventu fratrum praedicatorum S. Dominici in capella(ordinariamente, e qualche volta) in ecclesia S. Bartholomaei sita juxta claustrum cisternae (oppure, sebben di rado) juxta claustrum infermeriae" e questa è la sola memoria certa dell’esistenza di una capella o chiesa di S. Bartolomeo, e della sua ubicazione.

8° Per le cose dette è evidente che la chiesa del Beato Nicolò del 1219 è la stessa del Beato Bartolomeo del 1350.

Provato cosi che la nuova chiesa di S. Nicolò, detta poi di S. Domenico, era fabbricata "indictione tertia die 13 intrante novembris 1230" siccome da rogito Rodolfo del fu Agostino, e che la vecchia chiesa di S. Nicolò era stata abbandonata e anche in parte distrutta dove precisamente era stato sepolto il Santo, notizia tramandataci dal B. Giordano generale della religione, resterà ad esaminarsi come e quando si cambiò il titolo di questa chiesa, ciò che faremo nel secondo volume.

(1) Siccome quando in via Barbarie. demmo la descrizione del palazzo quondam Marescotto Calvi, ora Marsigli, non ci eravamo ancora determinati corredare questo lavoro di note, ne venne di conseguenza omessa l‘ inserzione di un documento tramandatoci dall‘ il lustre Galeazzo qui sopra ricordato, e che dà. ragguaglio esatto e particolarizzato di uno dei fatti più gloriosi che illustrano la nostra Storia Patria. Lo facciamo ora di buon grado dacchè l‘ opportunità ce ne presenta il destro. Questa cronaca dal medesimo vergata, e da noi ridotta all’odierna dizione, cosi s'intitola:

Cronaca come Annibale Bentivogli fu preso e tolto di prigione, poi ucciso e vendicato;

composta; da messer GALEAZZO.MARSCOTTO de’ CALVI.

Egli è quindi a sapersi siccome fu che dell’ anno 1452, la vigilia di S. Luca, in Bologna, furon presi il nobile e valoroso Annibale Bentivogli, messer Achille Malvezzi e Gaspare Malvezzi suo padre, per mezzo di Francesco Picinino, che essendo infermo e malaticcio, deliberò recarsi a S. Giovanni in Persiceto, mostrando con belle e lusinghiere parole il desiderio di essere da loro accompagnate, al quale invito cortesemente acconsentirono.

Il dì susseguente giunse novella a Bologna che tutti e tre erano stati tradotti in quella Rocca di S. Giovanni in Persiceto per ordine del capitano Nicolò Picinino che a quei dì era signore di Bologna, quantunque vigessero i signori Anziani ed altri reggimenti sotto nome di libertà.

Questa triste novella destò grande sconforto nell‘animo de‘ cittadini, ed in particolar modo degli amici del partito Bentivolesco, che presentarono molti e svariati progetti sui quali prevalse quello di spedire a Picinino una deputazione che richiedesse il motivo di tale cattura, alla quale rispose si rivolgessero al padre suo Nicolò, siccome quello da cui era emanato tal ordine e non altrimenti, e sopra mercato la notte seguente li fece segretamente condurre nella Lombardia e nel Parmeggiano. Annibale fu messo nella Rocca di Varano, messer Achille nella Rocca di Pellegrino, e Gaspare a Valditarso. Presi adunque ed imprigionati uomini tanto amati ed estimati, in tutti unanime fu il desiderio di poterli salvare di qualunque guisa. Furono per ciò appunto spedite autorevolissime ambasciarie al Duca di Milano Filippo Maria. ed al capitano Nicolò Picinino, umiliando fervida preghiera per ottenere grazia, ma le risposte, se non furono di assoluto diniego, furono però incerte, per cui non era a sperarsi per la loro liberazione in quella vernata.

Giunti al mese di Maggio del 1453, e circa alli dieci, sull‘ora. del pranzo, mentre io Galeazzo recavami a casa, m‘incontrai in un valoroso giovane chiamato per nome Zanese dal Borgo Sandonino, che veniva precisamente da quelle contrade in cuì era prigione Annibale, avente sulle spalle un carnero ed una partigiana. Al vedermi fecemi gran festa, ed in pari tempo recommi i saluti di Annibale, del che ne lo ringraziai senza fine. Volgendo quindi i passi verso la mia abitazione, andai pensando e ripensando sulle raccomandazioni che costui mi aveva fatto per l'infelice Annibale.

Giova il sapersi che fra i molti amici di Bentivogli rammaricati ed indignati per la prigionia delle strenuo Annibale, noi fummo sopra ogni altro, e cioè mio padre messer Lodovico, e la sempre buona memoria dei fu miei fratelli, che tutti di unanime accordo in quell‘ invernata, dal di che furon fatti prigioni, fino alla loro liberazione, ci tenemmo in armi spendendo il nostro senza riserva di sorta, esponendoci a gravissimi pericoli per la nostra vita,e sicurezza personale, siccome può assicurarne tutto il popolo Bolognese. Perciò non è a meravigliare se il sopra citato Zanese si palesò a me senza ritegno, recandomi i saluti di Annibale, e raccomandandomelo caldamente. Nè ignorava al certo quanto per lui ci eravamo adoperati di continuo, sebbene ne fossimo poi indegnamente rimunerati, siccome a suo tempo proveremo.

Dopo aver mangiato, facendo assegnamento sopra detto Zanese, mi venne in pensiero addimandarlo sul conto di quel paese ed in particolar modo sulla rocca e suo presidio, e se fosse di parere unirsi a me per trarre Annibale di prigione, onde e tutto il giorno, che era di domenica, e tutta. la notte non potei che vieppiù rinfrancarmi in questo preconcetto divisamento. Spuntato il dì appresso deliberai di tutto confidargli. Trovato il Zanese, pian piano ci traemmo alla chiesa di S. Giacomo, quindi nel chiostro dove si fa il capitolo. Quivi ordinatamente feci farmi l' esatta descrizione del paese, e come fosse guardata la fortezza, e per qual modo vi ci si potesse entrare. Finalmente conosciuta la lealtà e franchezza dell‘animo suo, deliberai richiederlo di quanto poi animosamente e fedelmente assieme agli altri fece siccome qui appresso verrò a narrare. E così incominciai.

Fratello mio, dacchè ti conosco per amico tanto compenetrato pel caso di Annibale, io mi risolvo comunicarti un mio divisamento. Egli è pur vero, siccome di persona puoi essertene assicurato, che il caso fu sconcio, e disonesto, ed increscevole in particolar guisa alla mia famiglia e sopra tutto a me, che nulla. ometterei per trarlo di prigione. E quando tu fosti disposto assecondarmi, certo che a parer mio non troverei di te persona più adatta all‘uopo, per più ragioni, si per la conoscenza del paese che hai in particolar modo,‘si per la dimestichezza in cui tienti il capellano permettendo a tuo talento l‘entrata e uscita della Rocca. Di più sei povero, e questa impresa, oltre un largo compenso, ti apporterà onore e fama. Mi avrai per compagno qualora acconsenti essere della partita, adoperandoti in quella guisa che sarò per indicarti, non mancando valenti compagni che ardimentosi ne seguiranno.

Costui inteso che n‘ebbe il mio ragionare e tutto quanto in proposito gli aveva confidato, deliberò seguirmi senz‘ altro. Ricercato quindi Taddeo, Marescotto, amantissimo mio fratello, parlatogli su tal subietto, e come ed in qual modo tutto ne fosse succeduto, gli palesai e dissigli che per mezzo di una scalata ne bastava l‘animo di entrare in Varano, Rocca fortissima, deludendone le guardie, e con bel modo trarre Annibale di prigione. Informato cosi del mio progetto, si offrì essere uno dei compagni.

Il mattino susseguente ritrovammo il detto Zanese, e da lui di bel nuovo avuta esatta descrizione ed indizi dettagliati dell‘altezza e della condizione della Rocca, femmo giuramento tutti uniti di porre ad effetto la nostre imprese mediante scalata siccome dippoi si fece.

Dato adunque tal ordine, e posposta ogni altra cura, quantunque per due volte ci mettessimo in via, non potemmo riuscire nell'intento per ritrosia di un nostro compagno, il quale soverchiamante esigente, e timoroso de‘ pericoli cui s'andava incontro, non volle assentire al primo scalamento; di costui ci tratteremo denunziarne il nome per quella reverenza che a lui ci lega e per essermi compare. Cosi adunque ci fu mestieri ritornare in patria desolati pel fallito tentativo.

Vedendomi maleviso a tutti quelli che erano al governo della nostra città. sotto gli ordini di Nicolò Picinino, non mi stavano contento nè sicuro. Ma però intendeva risolutamente, o ritentare la cominciata impresa, o del tutto scongiurare la sorte mettendo in armi i nostri per cacciarne i nemici Bracceschi,e qualunque altro avesse voluto opporci resistenza. Ne eravi a dubitarsi che contraria fortuna ne avesse contristati, per essere general mente odiati, e malevisi gli stranieri, benché parecchi soldati, e uomini d‘ armi, e cittadini fossero del loro partito. Per cui standomi parecchi giorni in Bologna a malincuore, mi fu dato rivedere lo Zanese che quivi era rimasto la prima volta che ci eravamo avviati per lo scalamento, e a me chiamatelo in disparte, cominciai a dolermi con esso lui della. codardia e viltà del mio compare, ed egli cosi risposemi: O Galeazzo, dappoichè non fu voler di Dio che noi riuscissimo nel nostro proposito, diamoci pace, né ritentiamo la sorte in si perigliosa impresa; dal canto mio vi ci rinunzio. Ma io che tutto aveva di già predisposto, volendo a qualunque costo sortirne, benché egli cosi mi parlasse, cercai di rassicurarlo e risolverlo a nuovo tentativo, promettendogli riunire nuovi e strenui compagni e maggiori compensi.

Cedette alla perfine, e così chiamato il valoroso e prode mio fratello Taddeo Marescotto e lo strenuo altro mio compare Michele de Marino, altrimenti chiamato da Pisa, e Iacopo Malavolta pur da Bologna, tutti cinque a mie proprie spese se ne partimmo di qui alli 3 del mese di giugno del 1443, avviandoci verso la Rocca di Varano.

E come piacque all’ Altissimo Iddio, dal quale vengono tutte le grazie, il giorno terzo giungemmo sani e salvi al luogo destinato, sull‘ ora tredicesima incirca, travagliati ed oppressi dalle fatiche e dalle angoscia. Giunti quivi supra un foltissimo bosco di castagni io incominciai ad osservare attentamente la località, che lo si poteva a meraviglia sul punto altissimo in cui ci eravamo condotti. Sopravvenuta la notte, chiamai il mio caro fratello ed i fidi miei compagni che dormivano a ciel scoperto, ed invocato il nome di nostro Signor Gesù Cristo, discendemmo dal monte facendo voto non solo di non molestare alcuno se non sforzativi per la nostra salute e difesa, ma salvare tutti quanti ne fosse dato, e rendergliene, dopo la riportata vittoria, nella casa di messer San Giacomo, le ben dovute grazie mediante un pellegrino colà speditovi a tutte nostre spese, che effettivamente ne costò L. 28, siccome risulta dagli atti di fede che il medesimo ci trasmise.

Demmo di piglio alla scalata con grandissimo affanno e timore, e fu tanta la misericordia dell‘ Altissimo Iddio, e la buona fortuna nostra, che dopo molti travagli potemmo liberamente entrare nella Rocca allo spuntar del dì. Il primo io ne fui, e poscia il valoroso fratel mio Taddeo, quindi il Zanese ed il compare mio Michele, e per ultimo Michele Malavolta. Che se volessi fare la descrizione di questo prodigioso scalamento, troppo ne vorrebbe, per cui riserbo la mia penna a più lunga descrizione sull‘entrata nella Rocca, siccome qui appresso. Sappiate però, per vostro governo, che portammo con noi le scale di corda. fatte di mia propria mano, che poste sopra una lancia, con l‘ aiuto di una scala di legno che trovammo in prossimità di un pagliaio, sotto la. Rocca, con grandissimo affanno e pericolo di me Galeazzo fu posto il falcone ai merli della medesima, sopra i quali ne fui seguito arditamente dai miei compagni.

Fatto lo scalamento, ed entrato sopra il muro, dubitando che guardie alcune fossero in un toresotto a noi vicino, subito vi corsi per prenderle ed acquietarle, ma Iddio volle che non ve ne fosse alcuna. Ritornato così al muro per sollecitare i compagni a montar sopra, trovai di un subito il mio fratello alle spalle, che per mala mia ventura avea posto il calcio, o meglio il piè ferrato della sua partesana avanti, per cui, non avendolo veduto, vi ci urtai contro l‘occhio mio sinistro, e pel dolore acutissimo mi svenni e caddi tramortito fuori affatto di conoscenza al punto di non udire il fratel mio che a piena gola mi chiamava. Però mi rinvenni fra non molto, e paventando maggior pericolo, siccome più poteva sopportai lo spasimo arrecatomi da tal percosse.

Discendemmo poi nel cortile, e quivi ci proponemmo attendere il chiaro giorno, che di già spuntava apparendone la stella Diana. Pur non sembrandoci prudente il rimaner cosi scoperti, cominciammo ad osservar le porte tutte onde assicurarci se alcuna di esse per buona. ventura nostra. fosse aperta onde trovare un nascondiglio ed ivi attendere il buon punto da mettere a termine il nostro ardito progetto. Trovato quindi l’uscio della torre aperto, ove nessuno dormiva, deliberammo quivi nasconderci, e cosi facemmo, confortandoci a vicenda,e consigliandoci di bene oprare, prima per la comune salvezza, poi per la riescita di tanta gloriosa impresa, dalla quale ne ritraremmo per noi, per la patria e per Annibale sempiterna fama. E perché il coraggio non venisse meno traemmo le scale di legno e di corda al di là del muro e segretamente le nascondemmo in una stalla della Rocca, con fermo proposito di valorosamente vincere, o morire.

Già il sole bellissimo sorgeva ed i raggi suoi penetravano da una finestrella, quando noi intrepidi ed esultanti per la imminente battaglia, udimmo una voce, alla quale, guardandoci l'un l‘altro, non rispondemmo. Ma ripetutasi, credemmo essere quella del castellano che chiamasse nella sopradetta torre su di una volta, sotto la quale, siccome dicemmo, noi eravamo nascosti.

Alla chiamata del Castellano rispose un tale per nome Marchese, che di subito recatosi ove noi eravamo, non potendosi passare per altra porta, senza darsi pensiero se l‘uscio fosse stato aperto o forzato, entrò onde giungere nella camera. dove dormiva il Castellano con Annibale, che ogni notte faceva rinchiudersi da suoi famigli al di fuori, e lui nell‘interno. Giunto cosi fra noi lo sventurato, io Galeazzo (Iddio mel perdoni) mi gli gettai al collo e tanto lo strinsi che quasi terminò sua vita fra le mie mani. Ma poi lasciatolo e rassicuratolo, credei che si tacesse per la paura, ma così non fu, che anzi ad alta voce cominciò a gridare e dire: "o Castellano, tu sei tradito". Al qual rumore gli altri famigli richiesero che fosse. Allora quel franco e valoroso mio fratello lanciatosi fuori dell‘uscio, salì le scale che conducevano alla torre; io lo seguii, lasciando nelle mani di Michele e dei compagni il povero Marchese, che per non voler tacere, gli fu d‘ un colpo recisa la testa con un mio pistorese, pel quale questo disgraziato morì, non già per colpa nostra, ma di sua disobbedienza, Iddio glie lo perdoni.

Ne cosi tosto il fratel mio giunse allo sportello della torre, che un altro famiglie chiamato Antonio vi giunse pur esso per volerlo chiudere, ma. datogli una spinta lo fece ritrarre, perciò a marcio suo dispetto entrammo nella torre. Allora Antonio si diè alla fuga per le scale, ed io ad inseguirlo acciochè non desse di piglio alla campana per nostro danno. Taddeo corse a tutti quelli che ancora giacevano in letto, e quanti ne trovò prese e legò come tante pecore. Io ne inseguiva tuttavia Antonio, chiamandolo e promettendogli la vita in dono ed elargizioni senza misura, ma nulla valse, che anzi veloce e sollecito sali l'ultimo solaio della torre, e già s‘accingeva ad iscagliarmi una bombardella dal pianerottolo della scala, che mi avrebbe malconcio, se io più sollecito di lui non l'avessi colpito colla mia spada che tutto fece riversarlo a terra, e poco mancò che per lo sdegno da cui era io compreso non lo mettessi morto. Ma ricordata la promessa che io aveva fatta a Dio ed a messer S. Giacomo, lo sostenni e fecilo discendere a me dinanzi giù per le scale, ore trovai il prode Taddeo che aveva legati tutti i prigioni che erano in numero di sette, dei quali cinque grandi e due piccoli, secondato però nella bisogna dallo Zanese e Giacomo Malavolta. Michele era occupato a tenere per forza tirato a se un uscio perché non ne sortissero certe donne che erano in una camera vicina, dalla quale sortite, avrebbero potuto dar l‘allarme. Padroni noi quindi della terre, e legati tutti i prigionieri, discendemmo nel cortile e li rinchiudemmo dove noi dapprima ci eravamo nascosti, ed ivi trovammo il corpo dello sciagurato Marchese che giaceva senza la testa, con tale spargi mento di sangue da farne raccapriccio non solo ai prigionieri, ma a noi stessi.

Udendo che il Castellano assai si dibatteva e chiamava la sua famiglia, io Galeazzo deliberai portarmi a lui, e lasciati i prigionieri sotto la sorveglianza di mio fratello e dei compagni, corsi all‘uscio della camera sua, di dove a voce sommessa, siccome se ne parlasse a‘ suoi, fece stridere forte il suo catenaccio attendendo che del tutto fosse tolto per poi tirarne quello al di fuori. Esso credette che io mi fossi Antonio suo servo, e così mi addimandò quali novelle correvano, ed io rispondeva confusamente, in guisa che si risolse aprire del tutto. Io che era sicuro del fatto mio, sapendolo ivi solo, sentito l‘ uscio cedente per esservici tolto il catenaccio, mi avventai addosso al castellano, che aveva nome Guglielmo, e senza ritegno alcuno urtatolo, lo presi incutendogli tale uno spavento, che una sola parola non fu capace di proferire, per cui condottolo alla presenza di Annibale, che sedeva nel letto per non essersi ancora alzato, glie lo assegnai per prigioniero, dicendogli: prendi Annibale, io ti dò costui per prigioniero, confortati perché sei salvo, e libero da tuoi nemici che ti tenean prigione. lo Galeazzo con mio fratello e certi compagni, che fra non molto vedrai, ti abbiamo soccorso e tratto da questa miseria nella quale malauguratamente eri caduto, e Iddio non ti abbandonerà. Se fosse lieto di tal ventura non è certo da meravigliare, per cui balzato dal letto coi ferri che gli tenevano avvinte le gambe, se ne andò alla finestra. Io per dar termine alla gloriosa impresa, tolto a braccetto il Castellano, gli dissi: "Vien meco, e andiamo alla camera dove trovansi le tue donne, che tu rassicurerai acciocchè non facciano schiamazzo". E poi che vi fummo, dissi al mio compare Michele, che ancora teneva l‘ uscio tirato a sè: rallenta, o mio valoroso quest' uscio, ed ormai sollevati da tal fatica, dacchè per la Dio mercè siam giunti al compimento de' nostri giusti e tanto desiderati voti, per cui dato di calcio all‘ uscio entrammo io ed il Castellano nella camera delle donne, avendo però introdotti i prigionieri coi nostri compagni nell‘altra dove prima trovavasi Annibale.

Le donne cominciarono ad implorar pietà e misericordia mostrando voler gridare, ma il savio Castellano, fatto più accorto per quanto ne era toccato al povero Marchese che avea veduto esangue passando dalla sua alla camera delle donne, impose silenzio a se e a loro.

Venimmo poi tutti dalla detta camera ad Annibale, e quivi adunati meravigliavasi siccome con si poca gente, e cioè con soli cinque compagni, avessimo potuto vincere e prendere tanta famiglia. Noi che eravamo venuti forniti di quanto ne abbisognava togliemmo dai piedi del magnifico Annibale i ferri, che lo tenevano avvinto, mediante una lima ed uno scalpello. Si noti che sin qui non lo fregiai di tal titolo, ora lo faccio perché da quinci innanzi le Opere sue saranno magnifiche, ma però se gli fu dato oprarle lo dovette, io credo, a noi cinque, del che il Duca Filippo di Milano non mancò farne menzione, augurandosi l'aver potuto esso possedere uomini di tal tempra.

Posto a termine la lunga e pericolosa impresa, siccome ho narrato, sebbene brevemente, noi dimorammo in questa rocca tutto il giorno, e ci ristorammo dalle patite angoscie e fatiche alla meglio che ci fu dato, deliberando partirsene e tornare a Bologna dove lasciati avevamo il generoso e magnanimo fratel mio Giovanni Marescotti, ed il vecchio genitore nonché Antenore fratel minore per ritentare poi la fortuna contro i nostri nemici braccheschi. Di questo nostro divisamento tenutone proposito col magnifico Annibale, egli a malo stento ne conveniva, perché sembravagli impossibil cosa il potersi ottenere ciò che da noi si tramava contro loro, a comprova di quanto ne faceva presente il conte Alvisi trovarsi sul territorio bolognese con 4000 cavalli e 2000 fanti, Nicolò Piccinino essere in Bologna ed occuparne il palazzo con 500 cavalli sotto gli ordini di Pietro da Cassin0 ed altri connestabili, e sopramercato il grande pericolo che ne presentava la rocca, ovvero castello, alla porta di Galliera, fortissimo per uomini e munizioni, ed alla cui guardia eravi collocato il Tartaro da Bellona, uomo di gran sapere e di animo forte, secondato da 500 fanti. Risposi tosto che non dubitasse in veruna guisa, dacchè noi eravamo si ben secondati da valorosi amici e dal favor popolare, che senza tema mi rendeva mallevadore che noi riporteremmo sui nostri nemici segnalata vittoria. Annibale soggiunse esser suo consiglio recarsi a Milano e quivi mettersi sotto la protezione del Duca, partito che mi turbò alquanto, perché incanto e tale, che se avessi potuto prevederlo, né io né i miei compagni avremmo mai determinato di venire a liberarlo da una prigionia per poi darlo ad altra. Dopo vivissimo contrasto, finalmente cedette di tornare con noi in patria affidandosi a ciò che fortuna ne avrebbe risolto. E così a due ore di notte, tattici seguire dal castellano, da un suo nipote e da Antonio, del quale già più sopra parlammo, ingiungemmo al resto ed alle donne di rimanersi al dovere e non zittire, altrimenti ne era pegno la vita del castellano e suoi compagni, che invece ben oprando sarebbero benevolmente trattati, poi rilasciati: E così ne fu, perché giunti al Taro fiume del Parmeggiano, grosso e torbido, passammo al passo di Forno Nuovo e quivi licenziammo i prigionieri. Era l‘aere scurissimo ed il fiume grosso, come già. dissi, che passammo non senza grave pericolo di noi tutti, ma la Dio mercè sani e salvi. Se io volessi descrivere tutte le traversie e molestie provate in quel tragitto sarebbe non lieve incarco, ma perché anche se il volessi non potrei a meno non render palese l‘opera mia che in al di sopra degli altri, cosi mi taccio. Solo, con molto rammarico dirò, che il guiderdone che me n‘ebbi da Annibale stesso nella sua prosperità e grandezza fu ben da poco, che Iddio glie lo perdoni.

Fu vero però, che dopo l‘aver noi valicato il fiume, il magnifico Annibale, sia per l‘ acqua che lo aveva guasto, sia per la prigionia sofferta, cominciò a disperare di poter più oltre proseguire il viaggio, nè valsero a rinfrancarlo i conforti che gli recammo senza riserva, che del tutto estenuato fu mestieri pormelo sulle spalle e cosi portarlo per circa un miglio, fino a che non reggendo a tal fatica, il valoroso e prode mio fratello mosso a pietà, sbarazzommene portandolo per lungo lasso di tempo, e così avvicindandosi noi tutti questa fatica, non eccetto lo Zanese, potemmo trarlo in una villetta distante da Parma circa sei miglia, detta Garfagno, e quivi lo riposammo in casa di un contadino facendogli credere essere nei seguaci di Nicolò Piccinino. Sopraggiunto il di, e governatici alla meglio, ci dipartimmo da questa villa, e giunti ad un castello chiamato Collechio di Parmesana, potemmo procurarci un cavallo pel magnifico Annibale, sul quale tosto montatovi, prendemmo la via dei monti verso Bologna, e quando piacque all’altissimo Iddio, dal quale ne vengono tutte le grazie, giungemmo a salvamento fino allo Spilimberto senz‘ essere da. alcune riconosciuti.

Il magnifico Gherardo Bargoni, uomo di altissima fama, ne accolse con grande onore, facendo liberalissime offerte da rimanere eternamente sculte nel cuore. Ivi prendemmo riposo, e se ne partimmo da lui ad ore ventitre, ed in giorno di giovedì alli 5 giugno 1443 giungemmo al ponte di Reno posto sopra il canale di S. Polo di Ravone ove trovammo un mio carissimo e vecchio amico e compagno d‘ armi chiamato Silvestro di Adam del Gesso. ed altrimenti detto il Mazza, mandato ivi dal fratello mio Giovanni. E come si tosto ne ebbe veduti, venne a noi con gran festa e ci raccontò come ogni persona era raccolta in armi, e come tutto il partito Bentivolesco anelava di vendicare l‘oltraggio sofferto. Ricevuto tale annunzio il magnifico Annibale balzò dalla gioia e dal contento, e sostatoci alquanto, Silvestro ne andò a prevenire segretamente in città. del nostro arrivo, e del pari diè ordine in qual modo dovessimo entrare in essa. Subito dopo il terzo suono della guardia ci partimmo dal detto ponte, volgendo verso un luogo detto Malcantone poco lungi dalla porta di Strada Santo Stefano, dove trovavasi di già il mio fratello predetto con parecchi compagni ed amici, e cosi calate giù alquante funi grosse con rondanelli atti a sostenerci tutti, si sormontò il muro, dal quale discesi, conducemmo per secreto cammino il magnifico Annibale alle case nostre ove rinvenimmo tanti e valorosi compagni d' armi e si ordinati che loro soltanto bastavano ad assicurare una completa vittoria sui nostri nemici.

Annibale pieno di conforto e di speranza diè gli ordini opportuni per l'attacco, poi se ne parti, e così tra noi, quando ne parve tempo, formate tante squadre coi nostri compagni, tranquillamente ne venimmo alla piazza, ove giunti, cominciammo ad alta voce ad annunziare il nostro arrivo, per cui la piazza fu talmente messa a rumore, che Francesco Piccinino, tuttavia. giacente in letto assieme alla famiglia tutta, si svegliò. E cosi a grado a grado l'intera città, venendone il di chiaro, cominciò a. mettersi in moto traendosi alla piazza. cominciandovici un‘ aspra battaglia intorno al palazzo, che vigorosamente era difeso dagli stranieri, con esterminio sì dell‘ una che dell‘altra parte. Sull’ora nona. finalmente furono vinti e fatti prigioni gli stranieri tutti, saccheggiati e malconci, con somma lode e gloria del magnifico Annibale e di noi pure, nonché di tutta la parte bentivolesca. E lui per vero si condusse meravigliosamente, e tanto fece che del suo valore ciascuno ne parlava ed in particolar guisa gl'ltaliani. Essendo egli cittadino privato, si tanto operò, che celebratissimo divenne finché visse, avendone ben poca mercè dalla invida fortuna e dai possenti, consigliandolo promettere in isposa una sua sorella, chiamata Costanza, a Gasparo di Canetolo, donde ne venne la principal cagione di sue sventure e della sua morte, siccome a suo tempo narraremo. Solo voglio,che basti il ricordo che qui lascio a‘ miei fi gliuoli affinché non abbiano mai ad arrossire di essere discendenti della famiglia Marescotti Calvi, la cui memoria è ben remota e risplendente fra i nostri maggiori cittadini bolognesi.

Avendo quindi, siccome già dicemmo, preso la piazza ed il palazzo e vinti gli stranieri, ne fu fatto prigione Francesco Piccinino, che fu condotto a casa di Annibale, che il padre suo per riscattarlo dovette mandare fino a Bologna Gasparo Malvezzo e messer Achille suo figliuolo, i quali, siccome superiormente dicemmo, erano prigionieri in Lombardia. Fu poi subito posto il campo dal popolo Bolognese con tale accordo da non riscontrarsi negli annali nostri, al castello di Galliera, ed ivi tutto il dì andavasi scaramucciando perché tuttavia in" potere del Tartaro che difendevasi a tutta possa, mentre dal canto nostro si faceva modo per assediarlo, e con fossi, con steccati ed altro. A sussidiarne videsi, come vero padre della patria, fra molti dottori e rispettabili cittadini, il vero lume di sapienza, messer Giovanni d‘ Anania dottore antico e celebratissimoin utroque, che non vergognava, deposto il proprio mantello, di prendere la zappa, ed in compagnia degli altri porgere il suo senile braccio alla pietosa e necessaria opera. Vi vennero pure molti venerandi frati maestri in teologia, così cittadini come forestieri, e tutti i preti e frati vi concorsero pure. Questo assedio perdurò dal di 20 di giugno 1443 fino alla fine di agosto del detto anno, tuttavia. campeggiando pel contado l'illustre conte Alvisi dal Verme allora capitano dell' illustrissimo Duca di Milano Filippo Maria Visconti, sotto i cui ordini aveva cavalli quattromila e fanti duemila, nè era molta speranza. nel nostro popolo di poterlo al più presto levare, perchè dal canto nostro non eravamo molto forti di forestieri, avendo al nostro soldo soltanto per capitano quel valoroso e fedelissimo uomo Piero di Navarino con cavalli 400 e 300 fanti appena. Avevamo ancora in nostro aiuto Simonetto con cavalli 300 speditoci dai signori Fiorentini, e Tiberto Brandolino con cavalli 400, il quale per le lodevoli e degne opere sue da non molto militando in Lombardia per la Illustrissima Signoria di Venezia, questa lo mandò in nostro aiuto, diportandosi ver noi in modo, che ne venne sì celebre e valente, da esser fatto poi capitano,e cavaliere per un incontro glorioso avuto sotto le porte di Milano. In progresso di tempo acquistò solennissima fama, e fu chiamato messer Tiberto Brandolino.

Perdurando in tal guisa l’assedio, tutti i soldati stettero stretti l‘ un l‘ altro dal lato di fuori verso il castello per un tratto di bombarda, difesi da fermi steccati ed altri fossi, ed il popolo dentro verso il mercato, davanti al quale eravi una meravigliosa trincea con ottimi e sicuri ripari,e bastioni atti alla difesa del popolo. Un dì sembrando opportuno al magnifico Galeazzo di guastare e rompere il molino di messer Battista da S. Piero posto nel canale di Reno sotto la porta di Galliera, del quale ne usavano per proprio uso quelli del castello, mi chiamò con altri suoi amici, e dissemi: Compare, io ho deliberato di far prova. se noi potessimo ardere e demolire il molino del parente mio, perché è troppo necessario ai nemici nostri, che te ne pare? Risposi affermativamente, per cui dato l'ordine, si chiamò vari Bolognesi valentissimi ed altre brigate, e così ne uscimmo cheti cheti fuori della porta Lamme venendo lunghesso il canale al quale era stata tolta l‘ acqua, guastammo il molino, e poi vi entrammo trovandovi molti fanti che lo custodivano, i quali, principalmente da me con altri compagni, assaliti e combattuti, cacciammo di là per un ponticello verso il castello. E mentre io mi chiedeva del fuoco per abbruciarlo, stando tuttavia sull‘ uscio per tener a bada i nemici, eccoti giungere fra quelli un maledetto da Dio, che sembrava un diavolo, col fuoco in mano, che con uno scoppietto carico ferìscemi nel sinistro braccio con un tale laido e sconcio colpo, da farmi cadere lo scudo di mano, per cui i miei compagni, vedutomi si malconcio, perché quasi tramortito, mi tolsero di là, abbandonando l‘ impresa cominciata, e trasportaronmi alle mie case per medicarvi la ferita. Trovando il medico la palla di piombo non essere sortita. dal braccio perché rimasta nel cubito, gli convenne fare un taglio dal quale con le tenaglia estrasse quel pezzo di piombo, che entrato a mezzo il braccio era salito per di sopra fino a. quella parte della. giuntura. Cosi si acquista fama chi bene opra per la patria, ma poco o nulla ne usufruisce, dacchè mi convenne a proprie spese pagare il medico non solo, ma irmene ai bagni, e cosi il danno fu a tutto mio carico.

Mentre io attendeva a guarire e riprendere le perdute forze, Annibale se ne venne un giorno a me, e sotto pretesto di visitarmi, cosi prese a parlarmi: Compare mio, io veggio la patria nostra. versare in grave pericolo, ma in pari tempo conosco questo popolo molto animato contro i nemici, e però sarei quasi del tutto deliberato, tentare con loro la mia fortuna. Perciò con bel modo io gli ho posto sott‘occhi Come si governa il campo de‘ nemici, sapendo io di certo che molti se ne stanno alla larga per l‘ingordigia dei grani, che tuttavia trovansi nelle campagne, il campo rimaner vuoto d‘ uomini e d‘ armi, per cui m‘ avrei speranza di trarli a mal partito. Vorrei sapere che te ne pare e ciò che volgi nella tua mente desiderando averti al mio fianco in tanta e tale bisogna. Io ne lo ringraziai di sì grande cortesia, e gli rieposi: "Magnifico compare voi siete più saggio di me, e di me molto più esperto in fatto d'armi, ma però vi ricordo che le sorti d‘una battaglia son ben incerte, e tanto più lo saranno in quanto che fa mestieri combattere contro soldati ed uomini ben aggueriti, mentre i nostri cittadini, sebbene ardimentosi in città, rion so quanto lo saranno in aperta campagna; vi consiglio, se a ciò vi determinate, di non essere anzitutto sì pigri e lenti nell'assalto lasciando troppa lena al nemico, poi non permettere saccheggi e prigioni senza esservi prima assicurati della vittoria. Questo facendo, ed essendo loro sprovvisti, siccome mi dite, mediante la divina giustizia potremo sperare che Iddio vi accorderà felici risultati ed intera vittoria. In fine, cosi pienamente concordi, mi lasciò raccomandandomi all‘ Altissimo.

Dato ordine a Piero di Navarino, Tiberto, e Simonetto di mettersi in pronto, la notte precedente alla vigilia della Madonna delli 15 agosto di detto anno, si partirono da Bologna per andare ad assalire il campo, ed in questa circostanza ebbe Annibale ad accertarsi in quanto conto lo tenesse il popolo Bolognese, dappoichè, oltre i suoi più intimi amici e partigiani, che furono seimila, lo seguirono sì a piedi che a cavallo più che quattromila uomini.

D‘ altra parte Pietro di Navarino, Simonetto e messer Tiberto, chiamato a raccolta i suoi, andarono di conserva in aiuto del popolo, e di Annibale, lasciando ai loro alloggiamenti sufficiente presidio.

Quanto ne rimaneva di popolo attese all‘assedio del castello ed alla salute della città. Mentre Annibale cavalcava acceso d'irresistibile ardore onde venire alle mani co‘ suoi nemici, ecco (siccome poi mi disse) giungere le spie e dargli avviso che il campo de‘ nemici era stato levato, e fuori dell‘usato mosso sollecitamente verso il castello di S. Giorgio senza conoscerne la cagione. Annibale allora si persuase che per certo costoro non teneansi sicuri nel paese, e che forse a mezzo di qualche spia erano stati avvisati di tutto quanto esso Annibale era per fare, onde avendone tenuto parola coi soprannominati capitani, tutti convennero ad inseguirli siccome fecero. Volto quindi l‘esercito verso S. Giorgio, e traversate il canale di Reno al passo di Santa Lucia, fecero capo al detto castello, e trovati gli uomini di buona voglia, dopo averli rinfrescati e invocato il nome di Dio, si misero animosi e lieti ad inseguire i nemici che stavano valicando il ponte della Pergola.

I due eserciti adunque incontraronsi fra S. Giorgio e S. Pietro in Casale, nel quale scontro il rumore fu grande da ambe le parti, e, come per lo più accade, rimasero morti e feriti uomini e cavalli così agli uni come agli altri. Secondo ne riferì la fama. e gli strenui miei tre fratelli, che sempre seguirono il magnifico Annibale, si diportò questi con tal valore da ottenerne gloria imperitura, essendo opinione in tutti invalsa che egli per la . sua virtù e gagliardia fosse principal causa che il conte Alvisi ed altri signori condottieri o valentissimi uomini fossero rotti e fugati siccome avvenne. La mischia durò dalle ore prime del mattino fino ad ora tarda, e la rotta toccata all‘inimico fu si completa da non ricordarsi negli annali della nostra storia, imperocchè tutti i carri e uomini di seguito furon presi, molti essendo morti per la sete come pure un numero sterminato di cavalli, perché dove ebbe luogo l‘assalto non eravi nè fiume, nè fonti, né pozzi, ed il caldo oltremodo molesto essendo alla metà di agosto. Annibale sopportò gravi fatiche avendo avuto morti due destrieri. Fra i prigioni che fece in questa tremenda mischia furonvi i valentissimi e rinomati capitani Paolo da Romano, e Giovanni Villani da Pisa, che io vidi in casa di Annibale, ai quali prodigò ogni sorta d‘ onori, rendendogli poi le armi e cavalli, e lasciandoli in piena libertà.

Tornatosi cosi Annibale glorioso di tanta vittoria, ne riscosse il plauso di tutti indistintamente, narrandosi in molte guise le gesta di lui. E tanta fu la fama che ne ritrasse, che, più che mortale, venne creduto divino, anche perché, al valore, accoppiava anima generosa e pia, ed a buon dritto potevaglisi apporre quel gran verso Virgiliano composto per Enea: Nec pietate fuit bello, neo major et armis quem si facta virum servent: - ma voglio dire servassent.

Viveva Annibale tranquillamente fra suoi dopo tale vittoria senza punto esserne insuperbito, e come se nulla avesse operato, ma però procurava co‘ suoi amici trovar modo di riavere il castello, al qual uopo fu tentato di risolvere il Tartaro a cederlo, promettendogli salva la vita. per se e suoi, e cinquemila ducati in dono; al qual patto finalmente cedette. Il castello fu tosto distrutto e spiantato sì come oggi si vede.

Vinti cosi e fugati i nemici, preso Francesco Piccinino, ricuperato il castello di Galliera, ciascuno cominciò a ristorarsi delle sofferte fatiche e darsi buon tempo, ed in particolar modo i Malvezzi che riebbero il padre ed il fratello, unitamente a Battista di Canetolo e messer Galeotto suo germano, ricambiati con Francesco Piccinino, per cui in breve scorcio di tempo tutti furon restituiti alle case loro, e ciò precisamente nel mese di settembre.

Io, che per lunga pezza travagliato dalla mortal ferita, fui salvo per le cure dei medici, n'andai ai bagni di Lucca, ove per grazia di Dio mi riebbi del tutto affatto. Al mio ritorno trovai che il Consiglio dei seicento in seduta solenne aveva consegnato al magnifico Annibale, in premio delle sue fatiche, il dazio delle Corticelle per anni cinque, dal quale poteva integralmente ritrarne lire venticinquemila, senza fare punto menzione di noi cinque, pel cui concorso si può ben dire che lui, e suoi, e la patria furon salvi. Oh ingrata patria, che nè il detto Annibale, nè i Malvezzi si presero pensiero alcuno di noi, tenendoci in conto di cinque stranieri, o schiavi, e nulla più. Non è quindi a, meravigliare se poi l' uomo si dispera!!

E però, tornato che fui dai bagni, portai lagnanze e ad Annibale, ed ai Malvezzi ed ai Canetoli, che tutti se ne scusarono. Finalmente, radunatosi il detto Consiglio, fu da esso deliberato di consegnarci e donarci lire mille di bolognini per ciascheduno di noi, e così passò. Io colla mia parte pagai i debiti da me incontrati nel lasso di tempo che Annibale fu in prigione per mantenere i compagni nostri, e col rimanente ne feci alcuni vestiti, del resto ben poco restommi a reintegro delle bisogna e noie incontrate per la guerra. Il mio amatissimo e valoroso fratello Taddeo spese la sua quota parte in cortesia. parte nelle sue occorrenze ed in vestiti, e parte ne donò al nostro maggior fratello Giovanni, e cioè trecento libbre, a rifazione dei danni da lui sofiferti nel molino di S. Dalmaso.

Stante adunque l‘amorevole concordia che regnava fra il magnifico Annibale, Battista e suoi, dalla maggior parte credevasi che mai più dovesse venir meno, anche perché ciascuna delle parti ritenevasi offesa tanto dal Duca di Milano come da Papa Eugenio; ma non così fu, che governati purtroppo da malaugurata invidia, questa bastò ad isconvolgere tutto quanto di bene sì fortunati eventi avevano procurato alla infelice nostra patria, che già pel suo buon governo cominciava a goderne fama onoranda e nome venerato, dovutosi particolarmente alla intemerata virtù di Annibale, che tutti i signori e potenti d‘ Italia non mancarono riconoscere con lettere e ambasciate ufficiali a lui dirette. Da ciò ne nacque nell'animo dei Canetoli e suoi. odio sì tanto, che dimenticando ogni proposito di amichevole concordia, determinarono di attentare alla vita di Annibale, riannodando pratiche col Duca di Milano, che segretamente mandò il Tulian Furlano nel Bolognese per assecondarli nei loro propositi, il quale ben di buona voglia vi ci si recò lusingato dalle larghe promesse di denaro che gli avevano fatte. E di questo tradimento fu capo e fautore Lodovico e Beltozzo da Canetolo, e suoi seguaci messer Nicolò di Saneto, messer Delfino di Atticone, ed il fratello Saneto, messer Francesco dei Ghisilieri, Andrea dei Ghisilieri e molti altri, che poi furono cacciati in esiglio, come può ciascuno, allor che il voglia, verificare negli atti della Camera. E cosi fra loro convenuti, nel mattino del dì di S. Giovanni, che cadde il 24 giugno del 1445, addimostrando vivo desiderio che Annibale dovesse tenere al sacro fonte il figliuolo di messer Francesco dei Ghisilieri, lo trasser seco a. S. Pietro, di dove partitosi, dopo compiuto il rito, lo pregarono recarsi a visitare la comare per far con essa colazione, al che cortesemente assentì fidandosi di loro. Ma prima che giungesse alle case loro, quel traditore di Beltozzo gli si fece incontro con molti de' suoi ghiottoni, e precisamente sotto il portico di Antonio di Conte, che scortosi da Annibale, volle evitarlo, fatto troppo sicuro della sua perversa fellonia, ma vi si oppose l‘altro non men triste ed infame traditore messer Francesco Ghisilieri, che avendolo a braccio, lo trattenne dicendogli: per questa volta compare ti converrà aver pazienza, per cui lo sventurato Annibale fu costretto e forzato a non poter difendersi né usare quel valore contro i nemici di cui tanto era capace, e cosi Beltozzo con un coltello lo ferì nel petto, e in un co‘ suoi compagni senza misericordia nè pietà lo uccisero, e non contenti di aver lui morto, più crudeli e feroci di pria, trattisi alle case di Battista, e riunite quant‘armi più poterono di ogni genere, corsero alla festa di messer S. Giovanni per ucciderne quanti amici e partigiani del Bentivogli a loro ne fosse dato incontrare, e sopra ogni altro noi fratelli che mortalmente odiavano, si perché ne vedevano saliti in qualche fama, si perché amati dai Bentivoleschi ed atti a tenerli a partito. E siccome piacque all‘Altissimo, per somma nostra sventura ignari del nero tradimento che ci sovrastava, nè conseguentemente riguardandosene, fummo noi quattro fratelli, in unione ad altri amici che ci accompagnavano a casa, assaliti da questi iniqui ed omicida traditori, contro noi gridando: carne, carne, carne, a morte, a morte. E si fa rimpetto alle monache di messer S. Mattia che lo strenuo e prode fratel mio Giovanni, sebbene attorniato da molti, intrepidamente e valorosamente ne morì difendendosi come un leone, senza che a noi fosse dato porgergli soccorso alcuno opponendovicisi il numero esorbitante dei circostanti. Io a gran fatica con pochi compagni riparai nella casa delle monache predette dopo aver avuta qualche percossa, siccome addiviene a chi si difende, benché non fossero tali da recarmi danno rilevante. Turbata così la festa, mi gittai co' miei compagni negli orti dalla parte di dietro, e non essendo informato della morte di Annibale, riuscivami men penosa quella de‘ miei che giurava vendicare al più presto, e cosi tornai alle mie case. Quivi tosto mi affrettai metter sotto le armi quanti uomini potei, per poi far prova contro de' miei nemici, i quali non contenti di quanto avevano operato fino a quell‘ ora, ne vennero più furibondi davanti alla mia porta, la quale per vero era del tutto aperta. Fatto di ciò avvertito presi tosto il mio Tarchione, il prode Piero Maria degli Ubaldini, che mai mi abbandonò, come pure lo Spezza da Vizzano, ed animandoli a tutta possa alla difesa, movemmo contro il nemico, che pel nostro sommo valore e per la Dio mercè, dopo accanita tenzone, fugammo, con grave suo danno e vergogna rimanendone noi salvi ed illesi.

Terminata questa battaglia, un‘ altra mi si apparecchiava, che a descriverla mi riesce ben più dura, aspra e più crudele, e che nel ricordarle sanguina il cuor mio, tanto più perché ne fui infelice testimonio ed attore principale vendicando l'onta ricevuta e la morte dei miei cari fratelli. Fui forse inesorabile troppo, per cui se la misericordia di Dio vien meno dispero della salute eterna, ma pur tale e tanta è la fiducia che in lui ripongo, che spero non lascierà perire il fedel suo servo, il quale pur fu da lui creato; né tralascia di caldamente a lui raccomandarmi, perché. se io violentemente mi trasportai contro i nemici, sembrommi esservi spinto da quella giustizia che Iddio il più delle volte lascia si compia a punizione di coloro che vivono senza freno di sorta alcuno.

Siccome dicemmo adunque, fugati ed iscacciati gli scellerati adulteri omicida e traditori, nemici della patria nostra, da casa mia, determinato di vendicarmi senza confine, eccoti sopragiugnere la mia amatissima consorte tutta singhiozzante e piangente, con fioca voce farmi avvisato della morte de' miei fratelli e del modo inumano con cui fu consumata, poi di aver essa assieme a molt‘altre matrone porti a loro gli ultimi ed estremi conforti in mezzo della via; e disperatamente così esclamare: Ah fratel mio fuggi, provvedi alla tua salvezza, nè voler essere tu pure colto da si mala fortuna, e sia tu ben fatto certo che Annibale e i tuoi fratelli passarono ad altra vita.

Ora. potrassi ben immaginare come mi restassi per tale notizia, ma pure senza cambiar consiglio, disperatamente disposto a non voler più vivere, deliberai tutto intraprendere per vendicare Annibale ed i miei. Essa adunque da valorosa, e posto in non cale l' animo femminile dando tregua alle lacrime ed ai sospiri, arditamente pronta a tanto bisogno diessi a portare le mie armi che diligentemente posommi, e fatto allestire il mio fortissimo e gagliardo cavallo, accompagnato da quei pochi amici che la nemica stella aveva risparmiati, i quali mostraronsi all‘ uopo pieni di incredibile valore e di coraggio, uscimmo di casa mia. Ed eccoti che tosto c‘ incontrammo in quel modello di giustizia e padre della patria messer Dionisio di Castello, a quei dì degnissimo’nostro gonfaloniere di giustizia, accompagnato da messer Zaccaria Trevisano oratore celebratissimo in Bologna per la illustrissima repubblica di Venezia, e messer Nicolò Donati oratore solennissimo della comunità di Firenze, i quali tutti e tre con alcuni loro famigliari, tornando dalla festa, si erano riparati alla porta del palazzo di Spagna sgominati dallo spaventoso ed abbominevole assalto dato ad Annibale ed ai miei fratelli, quivi venuti, non so per qual via, se ne stavano stupidi ed impauriti. Io fattomi a loro incontro, simulando lieto sembiante, gli dissi: Ah signori miei, non abbiate paura, Iddio e la sua giustizia sarà con noi, siate di buon animo che oggi le vostre signorie vedranno vendicata la malignità e perfidia dei gladiatori ed assassini Caneschi e de‘ suoi seguaci, non esitiamo altrimenti, ma invece provvediamo che la piazza stia per noi ed incamminiamovici arditamente. Confortatisi dal mio dire, entrarono tutti in casa del venerando padre mio Lodovico Marescotto, il quale certamente in tale e tanto infortunio mostrò di avere animo e cuore romano sopportando la sciagura che lo aveva sì colpito colla perdita de‘ suoi valorosi figliuoli e nostri fratelli. Esso non irruppe nè in pianti nè in lamenti, ma come se nulla fosse di cosi sinistro avvenuto, vigorosamente li invitò a prendere le armi che trovavansi in casa nostra, per poi così uniti correre alla piazza e per la città onde difendere il popolo e la sua libertà. Armati tutti i signori e suoi famigli, e seguiti da provvigionati, ne formaron due squadre, arditamente giungendo alla piazza, ove io pure li raggiunsi con alquanti miei nobili e valenti compagni. Trovammo quella all'atto libera e sgombra dai nemici, onde per tutto il dì fu da noi occupata e difesa, nonché da tutti i veri amici della patria e del partito Bentivolesco. Ma siccome a me non s‘addice narrare tutto quanto feci in quel giorno, perché ridonderebbe ad onor mio, cosi delibero tacere in gran parte le sofferte fatiche, sicuro che quando io vado ricordandole le trovo dure ed insopportabili, sì del corpo che dell‘anima, e tali che, sebbene la patria conosce, narrandole e descrivendole non potrian esser credute per vere. Solo intendo descrivere l‘ultimo periodo della rotta e desolazione de‘ nostri nemici,e della. patria, tanto per memoria che per conforto dei nostri posteri, accicchè non abbiano mai a vergognare che rimanesse inulta e invendicata quella tanta calamità. toccata ai miei fratelli, i cui degni e valorosi spiriti potranno gloriarsi della subitanea, e memorabile, anzi suprema vendetta avuta per me Galeazzo Marescotto suo diletto ed amato fratello.

Dirò quindi che perdurando fra noi ed i nostri nemici dura ed accanita guerra, nella quale vi furono morti molti valorosi uomini, anche perché onde giungere alla piazza venivano per diversi viottoli e strade, ad altri parve miglior consiglio venirne a patti che quasi erano conclusi, quando avvisatone nel tornarmi dalla pugna, cosi mi si disse: Galeazzo tu combatti e perderai, imperocchè nelle camere di sotto vi sono i signori con Girolamo Bolognini, e messer Marchionne da Muglio assieme agli ambasciatori che tutti uniti trattano l‘accordo che forse al punto in cui siamo è stipulato e fermo. Appena ciò udito entrai nel palazzo e discesone dal mio cavallo andai alla camera, ove chiesi tosto qual cagione quivi li radunasse; ne ebbi in risposta l‘assicuranza di quanto mi si era avvisato, per cui senz‘altro mi dipartii da loro, e rimontato il mio buon cavallo mi lanciai quasi furibondo fuori del palazzo in sulla piazza, pregando tutti quelli che erano già a me dintorno voler subito esperimentar la fortuna delle armi e non altrimenti soprasiedere, morendo onorati anziché vivere svergognati. E cosi parlando e invocando aiuto da tutto il popolo che quivi trovavasi e da particolari uomini valorosissimi, come piacque all‘ Altissimo Iddio io fui sì esaudito nella preghiera, che quasi ad una sola voce tutti assentirono, per cui rincuorato da tanto conforto deliberai affrontare di bel nuovo l‘inimico che teneva in più località impegnata la pugna co‘ nostri, ed in particolar guisa in Porta di Castello sotto le case di messer Dionisio di Castello. Passammo adunque dalla bocca delle Bollette di piazza, e venimmo per la via di Porta Nuova verso S. Francesco, ove trovammo molte sbarre fortissime fatte dai nostri nemici, che tutte espugnammo, rompemmo e vincemmo. Ed in quello scontro furonvi morti e feriti da ambe le parti, ma ben più da quella dei traditori nostri nemici, i quali a tutta possa resistevano in grosse squadre a piedi ed a cavallo ai nostri sul Trebbo dei Ghisilieri. Or qui fu bisogno di mostrare ogni sua possa e che ciascuno adoperasse del pari sì l'anima virile come la forza corporale, perché in vero da ognuna delle parti si voleva la vittoria, dappoichè l‘arrendersi non ne salvava la vita. Si vedevano uomini e cavalli riversati e morti, e tutta la terra intrisa di sangue, alcuni tornarsene malconci e feriti e senza speranza di salvamento, ma non per questo meno bramosi di combattere, alzando voci e stride da ogni parte. Le saette verettoni, e scoppietti tuttavia volavano e facevano l'ufficio loro; non dirò dei sassi perché fra le altre armi spiacevoli quelli si scagliavano siccome per solazzo. Ciascuno gridava carne, carne, a morte, a morte. Insomma ne pietà nè misericordia fu ivi praticata. Ma quando a Dio piacque che egli è pur sommo capo di giustizia, e trionfo, dopo due ore di tremendo assalto e conflitto la. vittoria fu per noi più presto che de‘ nemici, i quali all‘ultimo non potendo resistere ai nostri violenti e forti assalti furono costretti darsi a repentina e vergognosa fuga con infinito lor danno, ed immensa nostra gloria.

Ora è a figurarsi il furore da cui eran presi i vincitori, e quale si fosse l‘incendio e fuoco messo alle case di Battista di Canetolo e di Francesco Ghisilieri che fu tale e tanto che sembrava Iddio gli avesse lanciati i suoi fulmini. Vedeansi uscir dalle finestre lingue e fiamme di fuoco lunghe più che cento braccia, per cui è a credersi che molti ne rimanessero arsi per la subitanea ed infuocata mina di quelle case. Molti cercavano Battista di Canetolo per vendicarne le orrende ingiurie, e solo dopo molto lasso di tempo finalmente gli fu miracolosamente dato rinvenirlo in una fossa presso la casa di un suo vicino, e perchè quelli che lo trovarono essendo suoi nemici per aver esso a loro in tutti i tempi tolto e padre e fratelli, traendolo dalla buca non sopportavano vederlo più oltre in vita, quivi lo uccisero con replicati colpi, poi cosi trascinaronlo nella pubblica piazza, ove acceso un gran fuoco fu in esso gettato il suo corpo e tutto abbruciato in modo da rimanerne appena le essa che i porci ed i cani divoraronsi la mattina susseguente. Cosi fu vendicata l’ aspra e crudel morte del nobile ed innocente Annibale e de‘ miei valorosi e carissimi fratelli, le cui anime l'altissimo Iddio raccoglierà fra il numero de' suoi beati, ed a me Galeazzo per sua infinita misericordia nell‘altra vita darà eterna pace. Amen.

Sembrava a ciascuno esserne quasi fuori di pericolo per aver vinti e fugati gl‘ inimici, ma non così fu, che dopo breve spazio di tempo, e precisamente quasi sul principio di agosto di quello stesso anno Bartolomeo Colleone fu mandato dal Duca di Milano nel Bolognese con grossissimo e fortissimo esercito tanto di fanti che di cavalli, per la cui venuta quasi tutto il contado si rese ribelle alla città nostra, e così guerreggiando se ne venne avanti ponendosi a Casalecchio sopra il fiume di Reno fuori porta S. Felice, poi avanzò fin verso la città. ove aveano luogo di belle e nobili scaramuccie, nelle quali vi fu modo poter esperimentare da chi si voleva. il proprio valore e coraggio. Tale guerra durò tutto estate e l‘inimico nel verno recossi alle castella avute non per assedio ma. per ribellione degli abitanti, e queste furono S. Giovanni in Persiceto, Castel Franco, Crespellano, Valle di Samoggia, Piumazzo, Cento e la Pieve. Ora noi dal canto nostro siccome difensori della patria e della libertà, creato e fatto l‘ufficio degli otto della guerra, fra quali io pure fui compreso, poi gli altri uffici popolari secondo le costumanze della nostra città, ci adoperammo per la salute della patria, e mercè l‘illustrissima lega formata dalla Signoria di Venezia e di Firenze, nella primavera dell‘ anno seguente fummo mirabilmente aiutati, dappoichè quella di Venezia ne spedì il nobile e savio capitano Taddeo Marchese con cavalli e fanti seicento, lo strenuo e valoroso condottiero Tiberio Brandolino con cavalli quattrocento, Paolo da Venezia con fanti trecento, quella di Firenze il magnifico e prode Simonetto con cavalli quattrocento, e per conto nostro il probo e degno capitano Pietro di Navarino con cavalli ottocento e fanti più di cinquecento, finalmente tutti i forestieri che vi prendean parte senza soldo. I Bolognesi e suoi partigiani erano alla difesa della città, la cui concordia per verità fu meravigliosa. Ma per non essere di troppo prolisso in narrando ogni gesta compiuta dall‘una e dall‘altra parte, mi tacerò per venirne alla fine di tale istoria, e solo dirò che l' anno seguente 1446 essendo Filippo Maria. in grande bisogno di forze in Lombardia, richiamò Bartolomeo Colleone da Bergamo, cui sostituì il signor Guglielmo da Monferrato con cavalli cinquecento, e messer Carlo da Gonzaga con cavalli ottocento circa e buona quantità di fanti, e non essendo quel numero sufficiente per starsene al campo, fu distribuito invece nelle castella, di dove spesso facevano scorrerie nel contado e vicinanza di Bologna. Noi mal sopportando simile molestia ci adoprammo con ogni sforzo possibile per radunare tutto il nostro esercito tanto a piedi che a cavallo giovandoci ancora dei contadini e montanari che al tempo della guerra si erano resi alla città, ed invocato il nome dell' onnipotente Iddio ponemmo il campo a S. Giovanni in Persiceto ove fui eletto commissario dell‘ esercito, ed ove ogni dì seguirono scaramuccie ed assalti meravigliosi. con grave danno del paese in quell‘ estate. Solo quando a Dio piacque con savio ed ordinato temperamento fu tenuta certa pratica fra me e l‘illustre sig. Guglielmo di Monferrato onde rendere favorevole a noi messer Carlo di Gonzaga da Mantova, che allora non lo era troppo, ma che lo fu dietro accordi avuti con Venezia, e con Firenze, cedendo intanto la tenuta e la rocca di Castelfranco nonché S. Giovanni in Persiceto ove io Galeazzo entrai secondato da forte e poderoso esercito sull‘ora nona. Di ciò avvisato messer Carlo che alloggiava nel Castello, subito montò a cavallo raccogliendo la sua gente onde farne resistenza, ma preso miglior consiglio cangiò partito, ed incontanente volte le redini al suo corsiero, se ne partì riparando a Crevalcore, dove giunto, e per la. violenza della corsa e pel caldo ebbe morto il suo destriero, seguendo nonostante le sue genti sebbene da noi vinte e messe in dirotta. Io poi per ordine de’ miei signori accordai perdono ai nostri villani, ed abbastanza munita la rocca, lasciando sicuro il castello, me n'andai il di seguente co’ miei a Castel Franco per avvisare il sig. Guglielmo di quanto da me si era oprato, che non mancò farmi festa ed onore, e con esso ivi dimorato per alquanti dì, ce ne venimmo uniti alla città di Bologna, ove fu venerato non come signore ma come santo chiamandosi da tutti S. Guglielmo per aver col suo intervento e bene oprare liberata la patria nostra da lunga e cruda guerra.

Andò dipoi al servizio dell‘illustrissima. signoria di Venezia con condotta di cavalli ottocento, e con ottima provvigione e soldo, ed io gli presentai un bellissimo cavallo ed una bella spada, e la nostra comunità assieme alla lega moltissimi doni.

Passò tutto quell‘anno senza molta tema di guerra, ed i nostri reggimenti con tutte le proprie forze e la lega attendevano a rivendicare il resto delle castella ribellate, le quali non vedendo scampo alcuno ritornarono all'obbedienza. Noi di giorno in giorno ci apparecchiavamo a nuove imprese pel dubbio che ne faceva nascere Papa Eugenio collegato al Duca di Milano. Ma la morte che niuno risparmia venne in sollievo alle nostre grandi fatiche, perché questa sopraggiunta al Papa, rese il nostro stato assai sicuro, perché creato un nuovo pastore, che fu Nicola quinto, vi si mandarono degni oratori che furono da lui sì tanto clemente e pietoso benignamente accolti, da accordarne la grazia sua che perdura ancora ne’ suoi successori.

Fecemi cavaliere e donommi il castello dell‘0sellino, denari, ed impartimmi grazie molte pei miei amici e benevoli. E beato me se avessi pur voluto rimanere al suo servizio avendomene ricercato con tanto ed indescrivibile amore, ma per rispetto del vecchio padre mio, della mia donna, e de' miei figliuoli ancor bambini, affinché si conservassero virtuosi e dotti nella patria nostra, deliberai rinunziare a un tanto onore, e cosi per la grazia di sua Santità me ne tornai lieto e glorioso alla mia città di Bologna con fermo proposito di vivere e morire fedelissimo ed amantissimo servitore di Santa Chiesa, protettore e difensore della giustizia e della nostra libertà come far debbe ciascun buon cristiano,e gentiluomo a pro della sua patria, Amen.

Questa nuova istoria scritta e composta da me Galeazzo Marescotto de Calvi, non è già narrata soltanto per gloria di me stesso, ma per singolare menzione delle cose fatte per mezzo mio ed ai miei tempi, perché non vada perduta la ricordanza di sì nobili e memorande imprese siccome successero a quei dì nella mia città di Bologna, e finalmente perché i giovani nobili,e valorosi oltre il dilettarsi delle virtù singolari, ed essere utili alla lor patria, sorgano implacabili contro coloro che evidentemente volessero per tirannia violarne la libertà, che prego Iddio a lungo voglia. conservare e mantenere. Amen.