INTRODUZIONE

ALL' INCLITA CITTA DI BOLOGNA

QUESTA OPERA

TESTIMONIA DELL'ANTICA SUA GRANDEZZA

E DEGLI OSSERVABILI STUDJ

D'UN SUO MODERNO ED ILLUSTRE PATRIZIO

INTITOLA ED OFFRE CANDIDAMENTE

L' EDITORE TIPOGRAFO

NICOLA ZANICHELLI MODENESE

LIETO DI CONTRIBUIRE COLL' ARTE PROPRIA

ALLA GLORIA DELLA NUOVA E DILETTA SUA PATRIA

Le torri gentilizie che superando secolari vicende s' ergono tuttavia baldanzose in Bologna, son proprie segnatamente d'un' epoca e materialmente la rappresentano meglio d' ogni altro edificio. È l' epoca che comprende i secoli XII e XIII, nella quale si compiè un grande rivolgimento delle sorti d' Italia. Imperocchè Bologna e cento città sorelle si sottrassero al giogo, già scosso, di coloro che avevan razzolato i frantumi dell' impero romano e si costituirono autonomicamente in comuni o repubbliche. Quindi proprie leggi, proprii maestrati elettivi, proprie milizie; ed alleanze, e guerre, e paci come a' liberi stati s' addice.

Si diè sviluppo alle industrie, al commercio, all'agricoltura, si esplorarono regioni ignote. Sorse per la scoltura e per la pittura un' aurora novella; più elette forme rivestì l' architettura, non mai scaduta come le arti compagne mercè la scintilla lombarda, ed ingemmò chiese e pretorii. Le scienze dopo lungo torpore dieder segno di ridestarsi; il laicato riacquistò l'egemonìa del sapere; si armonizzò in idioma il parlar vario degl' Italiani, cominciò in mille guise un' era di risorgimento.

Bologna venuta a libertà e presane a insegna la magica parola, si diè statuti e progressivamente riformolli secondo le esigenze de' tempi. Battè sua moneta, proclamandovisi poi mater studiorum. Consolidò e rafforzò la. propria indipendenza col privarne e col richiamare in città i conti e nobili rurali, ammettendoli al governo dello stato, non che coll' assimilarsi le castella del territorio, retribuite di concessioni e di patrocinio. Prima nella penisola ad avere uno studio, o come poi si disse una università, diventò la sede principale e più celebre in Europa del diritto civile e canonico. La medicina v'ebbe maestri che traendola dal fango dell'empirismo, l' avviarono pel calle della scienza. V'ebbe principio l' insegnamento dell' anatomia e delle matematiche ed a ra gione Bologna acquistò nome di dotta e di grassa (1).

Lunga serie vi si noverò di professori famosi, ed una grande popolazione di scolari, molti dei quali alla volta loro famosi: e basti ricordare Dante Alighieri. Onde quest'è l'epoca dei nostri Irnerio, Azzone, Odofredo, Accursio, ristauratori della romana giurisprudenza, del Guinicelli primario poeta del suo tempo, di Mondino institutore dell' anatomia umana, del Crescenzio il Columella del medio evo e di Franco che al dir di Dante più d' ogni altro pennelleggiatore soavemente alluminava le carte; ognun de' quali, per tacer d'altri, basterebbe a dar rinomanza a' suoi tempi. È l'epoca in cui Bologna sradicando un avanzo di antica barbarie, restituì la libertà ai servi della gleba; glorioso contrasto con quei popoli, che, vantandosi civilissimi, sei secoli dopo combatterono a oltranza per ribadire i ceppi della schiavitù.

La città antica non bastando più all' aumentata popol zione, alla civiltà, all' opulenza progressive, disalveò come fiume rigonfio e si stese ov' eran borghi e campagne. Diventò un centro al quale convergevano le altre repubbliche dell' Emilia, come quelle della Lombardia a Milano. Insieme con gli altri comuni di lega lombarda fiaccò a Legnano, se non la possanza, l' orgoglio di Federico Barbarossa, poi da sola nella giornata di Fossalta vinse un esercito di Alemanni e di collegati, e fé' prigioniere il figlio di Federico II, Enzo re di Sardegna. Ma i Bolognesi furono ancor più grandi per ardimento e per costanza di quello che per prodezza, imperocchè alle minacce dell' adirato imperatore, il quale esigeva la liberazione del figlio, risposero col tenerlo prigione ventiquattr' anni e col renderlo solo alla terra di sepolcro italiano. Ma la prigionia fu quale si conveniva ad un re vinto e sventurato, e mentirono per la gola il Malispini e il Villani (2) dicendo che i Bolognesi "lui misono in una gabbia di ferro e in quella finì sua vita con grande dolore".

Pare dunque a me che le torri urbane gentilizie, le quali rammentano e materialmente raffigurano un' epoca memoranda, meritino d' esser pregiate e tenute in conto di ragguardevoli monumenti; meritino d'esser difese dalle ingiurie del tempo e soprattutto dall' abbietta avidità degli uomini, che potrebbe giungere a tale da cercare, da trovar forse no, un lucro nella distruzione di quelle moli superbe, se i magistrati o il paese tollerassero così grande vergogna. Ed io spero che allignerà sempre in loro un po' di quell' amore risoluto, col quale i Sangimignanesi preservarono tredici loro torri che fanno tuttavia assai bella mostra. Avvegnachè « nel gennaio del 1602 .(narra il Pecori (3) ) essendo stato riferito nel Consiglio ( di Sangimignano ) come alcuni avevano guasta la torre ed altri intendevano di demolire le proprie, deliberarono, senza tema di ledere il diritto di proprietà, di ordinare a questi di conservare le torri, a quelli di rifarle, e la ragione che se ne adduceva era per la grandezza della terra ».

Io vorrei anzi che il comune provvedesse stabilmente alla conservazione di queste altrettanto interessanti quanto arditissime moli, costituendole monumenti pubblici com' è già la torre Asinelli. Sta bene che gli avanzi della prisca Felsina sian custoditi ne' musei, ma non starebbe men bene che fossero curati per le vie i monumenti più singolari e più caratteristici della dotta città medioevale; poichè questa, anzichè Felsina, irraggia quel po' di luce crepuscolare che illumina l' odierna Bologna. Tutèli dunque il comune le torri principali, ossia almeno la Garisendi, la Prendiparte, l' Azzoguidi, la Galluzzi e l' Uguzzoni.

Ma se le torri ricordano le glorie de' nostri maggiori, ne ricordano anche, e meglio, le colpe d' immenso danno ai nipoti. Sorte insieme con le civili discordie, e strumento per sbramar meglio la rabbia di quelle fazioni che tennero aperta la via alle irruzioni, all' oppressione, alla rapina degli stranieri; e smembrata, e misera, e inonorata la nazione; io vorrei, anche per questo solo, conservarle, additarle a' miei concittadini ed ai connazionali, affinchè, ogni qual volta ad esse volgan lo sguardo, considerino le secolari calamità e vergogne patite dall' Italia pel parteggiar furibondo, e come il rinnovare le cause potrebbe, che Dio nol voglia, rinnovarne gli effetti.

I nostri raccoglitori di patrie memorie poco ci han detto, e troppo confusamente, delle torri; chè il maggior complesso d' indicazioni l' abbiamo da fra Leandro Alberti (4), da un raro libretto anonimo del 1582 (5) ch' io chiamerò Indicatore e dall' Alidosi (6). Il primo dei quali enumera trentaquattro torri, il secondo quarantacinque, il terzo sessantadue. Ma oltre il nome del proprietario, che talvolta altro non è se non quello d' un recente ed oscuro compratore, oltre l' indicazione delle strade, piuttosto che dei luoghi, ove sorgevan le torri (e le strade non serbarono sempre il nome antico), quei raccoglitori poco o nulla ci dicon di più. Il Savioli aveva bensì divisato dj darne una descrizione accurata (7), ma ce ne lasciò il desiderio che non fu soddisfatto nè pure in verun' altra città d' Italia. Mi fu d' uopo pertanto di raggranellare più abbondanti ma assai sparse notizie, e di attingerle specialmente al fonte copioso e puro dei documenti. E qui ancora mi si pararono innanzi le difficoltà sopraccennate, ed eziandio più gravi, negli atti pubblici antichi, in quanto che l' indicazione locale non è per istrade, ma per parocchie poscia dismesse, la cui circoscrizione si può dire ignorata.

Le ricerche negli atti pubblici furono fatte più largamente nei libri memorialium in cui per disposizione dei dittatori Loderingo e Catalano, frati godenti, s' incominciarono a registrare gli atti notarili nel 1265. Da principio affidai l' investigazione di questi libri al sig. prof. G. B. Sezanne paleografo, che la condusse a tutto il volume decimoquinto, poi la assunsi io stesso e la protrassi fino al volume centesimo, ossia all'anno 1300. E non è per vanità di fatica, ma affinchè si conosca l' estensione delle ricerche, che faccio noto come ciascuno di questi volumi in foglio, tranne i primi, consti in circa di ottocento pagine. Il profitto diretto che ne trassi fu da dugentoquaranta documenti relativi alle torri ; l' indiretto una serie copiosa e pregevole di rime del secolo XIII, parte inedite parte con varianti, intercalate nella trascrizione degli atti pubblici da' notai ne' momenti d' ozio. Le quali rime misi a disposizione dell' illustre sig. prof. Giosuè Carducci, che ne ha fatto soggetto di studii e di una pubblicazione. Perchè poi fosse vie più accertata la lezione di tutti i sopraddetti documenti procacciai venisse riscontrata dal valente paleografo sig. dott. Enrico Frati.

Radunati sufficienti materiali, mi rimaneva quindi da vincere alquante malagevolezze : di non moltiplicare cioè, come altri fece, il numero delle torri, riputando non fosse una sola quella che sotto parecchi nomi gentilizii e in vari tempi ricordata; di raggruppare invece questi nomi attorno alla propria torre, di sceverare a quale famiglia ne spetti l'erezione o la priorità conosciuta tra le diverse proprietarie; di assegnare a ciascuna torre, per quanto fosse possibile, la propria sede, e di conoscere in fine di quali torri rimangono avanzi. Ma, per superare più facilmente e più completamente queste due ultime non lievi difficoltà, pregai più volte per mezzo dei diarii cittadini i proprietarii e gl' inquilini delle case contenenti qualche avanzo di antiche torri di volermene dar contezza, per continuare i miei studii sulla topografia di Bologna. Se non che, o la mia preghiera fosse fraintesa, o che ognuno dei pregati supponesse mi fossero già noti quegli avanzi ch' esso poteva additarmi, avvenne che, tolte rarissime eccezioni, il mio spediente fallì. Mi convenne perciò visitare non dirò quante case, molte inutilmente per incerte indicazioni, ed ogni resto di torre rinvenuto misurai da cima a fondo. Ma se, in questa parte, il mio lavoro non fosse riuscito compiuto come avrebbe potuto essere, certo non è difetto mio, non avendo ommesso nulla di quanto per me si poteva. Sono pervenuto però, mediante tutte queste sollecitudini, a triplicare il numero delle torri bolognesi conosciute.

Stimai eziandio opportuno di dar conto delle famiglie che da prima possedettero coteste torri, affinchè si vedesse quanta parte le une e le altre ebbero nelle discordie cittadine e nella storia di Bologna. Ed in ciò m' ebbi provvido aiuto da mia moglie, la quale, raccogliendo gli opportuni materiali, mi sollevò d' un ingrato e faticoso lavoro, cui forse non avrei saputo sopportare.

L' orgoglio e un malvagio spirito d' individuale indipendenza ersero e sublimarono dentro la cerchia le torri gentilizie. I magnati urbani, i conti rurali astretti a dimorare parte almeno dell' anno in città, vollero avervi una specie di rócca a ostentazione di dovizie e di potenza, a loro schermo e a offesa de' nemici privati, a ostacolo delle leggi vendicatrici. E come le anguste città medioevali non comportavano ampii fabbricati, così quanto meno questi potevano dilatarsi, tanto più ergevansi le torri accanto alle case, o casatorri ch' erano di tal guisa da resistere a un primo assalto e dar tempo a ritirarsi nella torre, ove armi e provvigioni si custodivano, ove potevasi sostenere una specie di assedio, che per riuscire efficace richiedeva macchine guerresche, delle quali non poteva disporre se non il comune. Perciò vedremo che nel 1274 i guelfi di Bologna, o geremei, avrebbero voluto che il comune desse loro le macchine opportune ad espugnare le torri dei loro avversarii. Ed era dalla cima delle torri che all'occorrenza i potenti « con manganelle insieme si combattevano e con altri dificii dì e notte » siccome racconta Giovanni Villani (8) de' Fiorentini nel 1248, siccome più o meno narrano le cronache d' altre città, siccome risulta dai provvedimenti repressivi conservati negli statuti.

Ai soli nobili era concesso e solo essi avevano mezzo di costruire le torri. Prima furono quelli delle schiatte più illustri, poscia pressochè tutte le famiglie patrizie e pressochè ogni branca, quando infuriò la peste delle fazioni. Le ebbero anche delle famiglie dette popolane, non perchè appartenenti al popolo, ma perchè frammiste al popolo, o ascritte alle arti, al fine di partecipare a' governi democratici.

Da ciò il gran numero di siffatti edificii in molte città, alcune delle quali per ciò appunto trovansi chiamate torrite. Onde la torrita Pavia, la torrita Cremona, la torrita Ascoli nel Piceno, la torrita Pisa; e per fin la terra di Sangimignano detta delle torri. Non veggo che tale epiteto fosse dato a Bologna, ma parmi che lo meritasse e che lo meriterebbe tuttavia.

I più doviziosi e ragguardevoli Padovani, che alla fine del secolo XI avevano ancora in gran parte le case di legno, cominciarono a fabbricarle di pietra e ad erigervi presso alte torri (9). Così i nobili vicentini, prese ad afforzare le case loro a guisa di castelli, innalzarono in breve tempo più di cento torri (10). Ascoli nel Piceno si vuole che avesse centocinquantanove torri (11). Ne contava quarantaquattro un solo borgo di Roma a' tempi di Martino V (12). Nel secolo XVI ne conservava ancora venticinque la terra di Sangimignano (13). Firenze al dire di Ricordano Malispini « ebbe in poco tempo più di centocinquanta torri di cittadini, di più d' altezza di braccia 100 (met. 58 1/2) l' una, e l'altezza di molte torri, si dice, ch' ella si mostrava da lunge » (14). Anche in Siena « ve n'erano tante e sì alte che si vedevano molto di lontano, e facevano ai riguardanti bellissima vista » (15). Alcune, e specialmente quelle dei Gallerani, Bandinella Cinelli, Sansedoni, Ugurgieri, voglionsi costrutte con le ricchezze divotamente accumulate in Terra Santa dai crociati, al principio del secolo XIII (16); ed è molto singolare che la torre degl' Incontrati, parimente in Siena, si ritiene decretata dalla repubblica per onorare e premiare alcuni di quel casato, i quali nel 1082 furono de' primi e de' più valorosi che a Lecceto rintuzzaron l' esercito de' Fiorentini. Anzi un' origine simigliante si attribuisce ancora alle torri dei Malavolti e di altri Senesi (17). Di Pavia scriveva l' aulico Ticinese, circa il 1300 « Quasi omnes ecclesiae habent turres excelsas propter campanas. Ceterarum autem turrium super laicorum domibus excelsarum mirabiliter maximum est numerus » (18). Lucca avrebbe contato settecento torri per chi vuol crederlo (19): ma altro è l' enunciare di belle cifre rotonde, altro è il comprovarle con documenti. Fazio degli Uberti (20) scrisse però d' aver veduto « Torreggiar Lucca a guisa d' un boschetto ». Beniamino Tudelense nell' itinerario del 1159 (21) dice di Pisa, ma certo con grosso svarione « ingens Civitas in cujus domibus fere decem mille turres numerantur ad pugnandum aptae et instructae ».

Ma per avere un' idea sufficientemente esatta del numero delle torri nelle principali città e poterne formare un quadro comparativo, converrebbe che altri si sobbarcasse alla soma che spensieratamente mi sono imposta, e non credo probabile vi siano altri sì incauti somieri.

In Bologna è rimasta memoria determinata di centottanta torri, e più altre ve ne dovettero essere. Sì gran copia, qui e altrove sorgeva tutta, o quasi, nella parte vetusta e ristretta della città (in Bologna solo tre o quattro torri e non accertate eran fuori dell'antica cinta) onde gli spazii intermedii eran brevi e talvolta minimi. In fatti le due nostre torri più note sono discoste soltanto undici metri, ed altre lo furon meno. Poichè sulla via Marchesana due erano separate da intervallo non maggiore d' un metro e mezzo, e Firenze ne ha alcune così vicine da non esser divise che da una linea (22). Quindi può ben dirsi che le torri formavano una selva, e può immaginarsi in qual singolare e fantastico aspetto si saranno mostrate a chi le osservava da un luogo ove se ne dominasse il complesso. Anzi se ne può avere un' immagine, povera in vero e languidissima, salendo appena l' erta fuori porta san Mammolo, d' onde veggonsi raccolte le cinque torri principali e qualche antico campanile. Ma un' immagine assai meno imperfetta può aversene nel gruppo singolarissimo delle torri di Sangimignano.

L' altezza delle torri era varia secondo l' ardire, le gare, le facoltà dei committenti; sembra però che nessuna abbia mai superato nè qui nè altrove i 97 metri dell' Asinella. Quelle di Firenze, a detta di Ricordano Malispini e di Giovanni Villani (23) « erano alte quali 100, quali 120 ed una 130 braccia » ossia da 58 1/2 a 70 e fino a 76 metri. La larghezza delle nostre rimaste varia da metri 10,91 a 4,39, non compreso l' allargamento della ,scarpa che suol essere di metri 0,60 incirca per ogni lato. Taluna fu eccezionalmente non rettangolare, e n' avemmo una della quale è fama si vedessero a un tratto i quattro angoli, il che porterebbe a credere la torre di figura trapezoide. Forme più strane si videro altrove, dacchè Pavia ebbe una torre a piramide capovolta, detta dal pizzo in giù (24). È però erronea la credenza che fosse costrutta pendente la nostra Garisenda.

Per dare la necessaria saldezza a' cotali sperticate moli se ne facevano le mura di grossezza meravigliosa, e tale da sorpassare, qualche volta la misura del vuoto interno nella parte infima della torre. Nell' innalzarle venivano tratto tratto digrossandole mediante riseghe interne, ed una sola al di fuori, rastremando anche un poco dal basso all'alto il loro complesso. Ed in tale giusto equilibrio di peso e di resistenza, non che nel preparare acconce fondamenta, le quali non potevansi di molto allargare stante la vicinanza di altre torri, spiccava l' acume degli architetti.

Le più grosse mura fra quelle che ci sono rimaste rag giungono met. 3,16 (25), e siccome stavano in proporzione con la elevatezza della torre, così digradatamente si trovano mura di soli met. 0,60, onde da qualche avanzo si può de durre se molto o poco alta sia stata una torre.

La costruzione di tali mura, invero stupenda, è una massicciata di ciottoli e calce tra due pareti di mattoni ad uno o più filari; quella così tenace da vincere i conglomerati, queste sì bene collegate e di materiali sì perfetti che nè geli, nè tempeste, nè molti secoli han potuto intaccarne le commessure o gli spigoli. Anche le torri di Firenze sono formate di un massello di ghiaie e di rottame di pietre, ma attorniato da muraglie di pietre rozzamente riquadrate (26).

Le basi delle nostre torri sono quasi tutte formate a scarpa per un' altezza di met. 2,30, a 3,65 rivestite regolarmente di lunghi parallelepipedi di quella povera roccia che lucica nei nostri colli come l'orpello sulle scene; cioè di gesso, il quale però ha fatto qui ottima prova di durata e dà maestoso e vago aspetto alla base. La è quella pietra speculare bolognese che, sminuzzata, dai Romani era sparsa per vaghezza nelle arene gladiatorie, al dir di Plinio (27) quella che calcinata ci somministra un repentino e assai comune cemento.

Coteste costruzioni, che han la guisa ma non la grandiosità delle mura ciclopee, indussero il Savioli a seguire con troppa leggerezza e con poca critica le orme del Lami (28), onde suppose che si potessero ravvisare degli avanzi etruschi in cosi fatte costruzioni. Quasi che poi coloro, i quali nel medio evo vollero costruire torri, scegliessero archeologicamente questi avanzi per fabbricarvi sopra, e gli architetti avessero avuto sì cieca fiducia di sovrapporre l' enorme gravitazione di un' alta torre, com' è pur l' Asinella, a ruderi di cui non potevano conoscere nè calcolare la resistenza. D' altronde chi vorrà dire etruschi gli archi che sono nelle basi di queste torri, o chi vorrà giudicarli non sincroni di tali basi ? Tanto è vero che anche agli uomini di gran mente ne sfuggono talvolta di quelle che sono alquanto marchiane.

Le porte delle nostre torri, situate nella base, sono angustissime, poco elevate (29), al fine di facilmente asserragliarle e impedire l'entrata. Esternamente hanno tutte un architrave di gesso posato sopra due raccostati modiglioni della stessa pietra, che danno un carattere tutt' affatto speciale. Sull' architrave gira un arco cieco per lo più ogivale, tal volta slanciato, costrutto accuratamente con mattoni, contornato da fasce e listelli pur di mattoni, con qualche semplice ornato (fig. 1) oppure l'arco è formato da cunei di macigno (fig.2 e 3).

Fig. 1

Fig. 2

Fig. 3

Questa foggia di porta è triplicata nella torre Garisendi, imperciocchè nella grossezza del suo muro sono formate tre coppie di pilastrate sporgenti, ognuna delle quali ha l'architrave e i modiglioni: l'esterna e l'interna hanno l'arco. Se non chè nel lato interiore tutto ciò è più grandioso e per vero imponente, e meritevole d'esser veduto (30). Ma chi mai vorrà entrare quel luogo tenebroso, attraversando la bottega d'un ramaio? Perciò sarà opportuno il disegno che offro, tolto appunto da dentro la torre (fig. 4).

Fig. 4

L'arco semicircolare sopra la porta al di fuori, si trova in tre torri, ma in quella de' Catalani vi si trova due volte, poichè questa ha due porte in due dei lati contigui. Il quale arco ha un po' di curva bisantina, per la fascia leggemente rastremata dove nasce (fìg. 5). Un altro arco semicircolare è nella torre Lambertini che aveva anch'essa due porte; quella con l'arco semicircolare sulla via chiusa Tosapecore, l'altra con l'arco ogivale in un cortile nell' interno della casa; la quale distribuzione di porte all' interno e all' esterno può dar ragione di siffatta duplicità, che altrimenti sembrerebbe molto strana. Ho veduto pochi anni fa questa porta con arco ogivale molto sviluppato e contornato d'ornamenti in terra cotta; ma quando tornai là per farla disegnare, vi trovai in vece con rammarico una prospettiva pitturata sopra intonaco recente.

Fig. 5

La gemina entrata nelle torri non è però addimostrata soltanto da due porte a pian terreno, chè a certa altezza, la quale potev' essere quella del primo o secondo piano della casa attigua, le torri ci mostrano un'apertura diversa affatto dalle finestre e simile per contro, dove più dove meno, alle porte da basso.

Cominciando dalla torre Garisendi, addito nel lato settentrionale un' apertura all' altezza di 6 metri, la quale è presso che la ripetizione della porta da basso situata a occidente. La sola differenza è che vi son due invece di tre architravi appoggiati a modiglioni, e che l' arco, tanto al di dentro quanto al di fuori, è a pieno centro anzichè ogivale; è di mattoni anzichè di macigno (31). Il disegno che ne do è tolto anch'esso dall'interno (fig. 6).

Fig. 6

Ora io credo che siffatte entrate, o porte superiori, dovessero avere comunicazione., forse mediante alcun che movibile, con la casa contigua, siccome la aveva certo la torre dei Bentivogli, e che di là si tenessero in relazione coll' esterno coloro i quali riparavano nella torre, asserragliandone la porta inferiore, quando il fiotto delle fazioni ingrossava. Si è appunto da quest' entrata superiore che da molto tempo si sale sulla Garisenda, impedito da un vólto il montare dalla porta da basso.

Un' entrata o seconda porta con simile a questa con due coppie di modiglioni e di pilastrate, meno l' arco nella parte interna, è nella torre Asinelli, all'altezza di metri 7,22, cioè quasi a livello della terrazza costrutta un quattro secoli dopo. È volta a ponente, mentre che la porta principale è a mezzo giorno (fig. 7). Altro simile adito, architravato di un grosso parallelepipedo di gesso sormontato da arco a sesto acuto di mattoni cuneiformi, vedesi nella torre Ligapasseri all' altezza di met. 10, ed altro ingresso arcuato, a tutto sesto, con soglia formata da un parallelogramma di gesso, sta nella torre Uguzzoni all'altezza di sette metri e mezzo.

Fig. 7

Anche la torre dei Galluzzi ha un'apertura simigliante che dà sulla corte, all' altezza di met. 14, con architrave e modiglioni, e con arco acuto laterizio a due fasce rastremate in fondo, d' un complesso armonico ed elegante (fig. 8). E benchè quest'apertura sia ad un'altezza maggiore dell'ordinaria, credo nondimeno sia una porta, tanto più quanto che è munita di soglia di gesso logora in mezzo, com' è quella della porta inferiore della torre Catalani. La maggiore altezza a mio avviso non indicherebbe altro se non che si accedeva a quest'entrata da un luogo elevato della casa contigua. E risulta infatti da un documento (32) che contigua a quella torre era una casatorre, cioè uno di quegli edificii fortificati così alti, che gli statuti del 1252 vietarono fossero abitati dai quindici ponti ossia tutt'al più da ventun metro in su. A tutto ciò si aggiunge che nessun indizio d'altra porta antica è nella torre dei Galluzzi, d'altronde ben conservata; poichè l' apertura otturata, che scorgesi nella base, si manifesta un' irregolare fattura posteriore alla fabbrica della torre. Di guisa che sembra non vi sia stata costrutta la porta da basso, come certo non fu nella torre de' Bentivogli descritta minutamente dal suo artefice Gaspare Nadi.

Fig. 8

Ed è altresì da notare che nel patto d' erigere una torre, che sto per riferire, trovasi convenuto di fare una porta da basso (in turrim de subtus débet esse hostium), giacchè se in questa sorta d'edificii si fosse praticato di costruir la porta costantemente e solamente a terra, è presumibile che si sarebbe detto di far la porta senza aggiungere da basso.

In quanto poi alle finestre (33), propriamente tali perchè architettate col solo scopo di lasciar penetrare un po' di luce nell' interno delle torri diviso da volti o solai menzionati negli statuti, le sono tutte queste finestre ad un modo. Cioè lunghe, strette, arcuate a pieno centro, senza soglia, con attorno un listello incavato a guisa d'incastro. Onde non si può trarre nessun argomento cronologico dalla diversa foggia dell' arco, trovandosi l' acuto unito col tondo in alcune torri. Avvegnachè quelle la cui porta è ogivale han le finestre girate a semicerchio, ma, e più, poichè la torre Garisendi ha una porta ad arco acuto ed una ad arco tondo, quantunque la costruzione di ambedue sia del resto uguale e contemporanea ; e meglio ancora poichè la porta della torre Prendiparte ha di fuori l' arco acuto e di dentro l' arco semicircolare.

Ne consegue soltanto che gli archi ogivali eran qui già introdotti quando fu fabbricata la torre Garisendi, ossia circa il 1110, benchè siasi creduto che fosser primi quelli della basilica d'Assisi eretta nel 1228, fino a che il D'Agincourt (34) non additò gli archi acuti del Sagro Speco di Subiaco scavati nella roccia forse quattro secoli prima.

Nelle nostre torri non essendo stati otturati i fori che contennero i travicelli su cui posarono i ponti di mano in mano che l'edificio era innalzato, questi fori formano una regolare punteggiatura che ha bensì del rozzo, ma che modera la monotonia delle pareti delle torri, solo interrotta da una o due finestre, dalla risega talvolta a piramidette, o merlata, e dalla corona, ov' è rimasta, di arconcelli e di merli, per le cui intercapedini e caditoie, stando sul te razzo, si scagliavano armi e pietre sugli avversarii. Tali fori, o ponti, come furon detti, essendo approssimativamente equidistanti, erano la misura d' unità per le torri usata anticamente negli atti notarili, nelle condannagioni e dai cronisti, e valgono a determinare materialmente l' altezza dei tronconi privi di scale.

Le torri costruivano talvolta collettivamente ed a comune schermo dalle diverse branche d' una famiglia, o dai consorti, che giuravan difendere torri e case comuni, come fecero nel 1196 i potenti e prepotenti Carbonesi. Nove dei quali vediamo adunati, ma otto soltanto dar giuramento con atto pubblico, di stare all' arbitrio di due eletti fra loro per la costruzione d' una torre, i quali due dovranno far ciò che tornerà meglio ad onore del parentado. Si presteranno tutti scambievole aiuto, e si varranno della torre e della casa in comune; ma se ad alcun di loro individualmente sarà necessaria la torre, gli altri dovranno dargliene l' uso e non far nulla in contrario.

Niuno farà acquisto presso la torre senza che vi concorrano gli altri; chiunque sarà richiesto di far compere richieda gli altri; chi vorrà avervi parte l'abbia, chi non vorrà possa farne di meno. Nessuna parentela, nessuna amicizia, nessun giuramento abbiano a fare con i figli di Uberto di Armanno (35), nè con i figli di Rolandino di Pietro di Guglielmo ( de' Galluzzi ), se pur non fosse col consentimento de' reggitori e della maggior parte de' giuranti che fabbricarono la torre. Qualunque di loro sarà eletto reggitore dovrà non ricusare il governo, e tenerlo dal primo di Maggio a tutt' un anno, finito il quale altri sarà eletto.

Se i reggitori chiederanno di consiglio gli altri giuranti, questi dovranno darglielo in buona fede, e tutti i giuranti obbediran loro in ogni precetto risguardante l' onore e l' utilità del parentado. Se i giuranti fossero turbati da discordia, dovranno essere richiamati in buona fede a unione fra trenta giorni da quelli che saranno a tempo reggitori, ed ai costoro precetti dovranno ottemperare. Dovranno rinnovare il patto al compiersi d' ogni lustro e farlo giurare ai proprii figli prima che abbiano quindici anni (36).

Anche tra fratelli formavansi di tali colleganze, siccome avvenne tra Ugolino Papazzone e Cavazza, i quali nel 1194 pattuirono sotto pena di 100 lire imperiali d' aiutare e difender sè stessi, le proprie case e le torri contro ciascuno, obbligandosi vicendevolmente a non vendere nè case nè torri senza reciproco consentimento, e se uno contravenisse, potesse l' altro rivendicare il venduto come cosa propria. Affinchè poi questo patto si perpetuasse, costrinsero gli eredi a rinnovarlo entro quaranta giorni, da quando ne fossero richiesti (37).

Talora per render salda e vincolata la pace stabilita tra due famiglie, di schiatta diversa, si patteggiava di erigere una torre a spese ed uso comuni, come ci è dimostrato da una concordia e convenzione del 1177 (38), con la quale Marchesello di Rolando da Vetrana dà spontaneamente a Pietro Lovello e ad altri de' Carbonesi la propria tubata (39) in Porta di s. Procolo, presso Rodolfo da Vetrana, affinchè ne prendano tanto quanto ne vogliono per fabbricare una torre, ch' essi dovranno edificare alta venti ponti.

Marchesello concorrerà alla spesa con 30 lire imperiali, in modo tale che i Carbonesi hanno da costruire la torre fino a cinque ponti, poi nell' alzarla d' altri cinque Marchesello deve dare 15 lire. Quando la torre sarà protratta a dieci ponti, i Carbonesi ne aggiungeranno cinque a proprie spese, e poichè la torre verrà condotta a quindici ponti, Marchesello dovrà dare altre 15 lire per elevarla a venti ponti. Poscia i Carbonesi abbiano facoltà d' aggrandirla finchè vorranno, senza spesa di Marchesello, e vi sia fatto la porta da basso verso la piazza.

Marchesello, i suoi figli e nipoti maschi abbiano l' uso della torre: i Carbonesi possano valersene in qualunque ora del giorno e della notte occorra loro, o per offendere i nemici o per difesa propria e degli aderenti, contro ogni uomo ed ogni donna, eccetto Marchesello, suoi figli e nipoti. A niuna delle due parti contraenti nè a' loro discendenti sia lecito vendere, donare, o in modo qualunque alienare la torre, se non all' altra parte, escluse le femmine in infinito. I Carbonesi non avranno facoltà di vendere le proprie quote di torre se non fra di loro, nè in questa proprietà succederanno le femmine. E se ad una figlia superstite, o ad un discendente per linea femminile d' alcuno de' patteggianti, qualcun di loro concedesse la consorteria nella proprietà della torre, incorrerà nella pena di 100 lire imperiali e nella perdita della sua comproprietà. Non potranno esser contratte parentele dannose ad una delle parti.

Promisero di far giurare questa convenzione ai proprii figli e nipoti, allorchè avessero quindici anni, e se accadesse che un padre non facesse giurare il figlio od il nipote, ovvero che un figlio o un nipote ricusasse di giurare un mese dopo d'esserne richiesto, perderà ogni diritto sulla torre. Tutto ciò si obbligarono e giurarono di osservare in perpetuo sotto pena di 100 marche d' argento (40) e della perdita di comproprietà della torre. Giurarono ancora di rinnovare il giuramento ogni dieci anni, di darsi scambievole aiuto, di elevare la torre a venti ponti dal giorno di questo patto in fino al giorno di s. Martino.

L' intervallo era pertanto di soli due mesi, sì che a me pare un enimma l' essere stato stabilito un termine così sproporzionatamente breve, per un edificio di tal fatta. Ma questo prezioso documento ci dà un saggio approssimativo del costo d'una torre di primarii ottimati quali erano i Carbonesi. Venti ponti, secondo che pare si possa dedurre da quanto ho narrato, costavano 60 lire imperiali, il che equivale a dire 180 lire di bolognini, poichè è certo che la lira imperiale era tripla della bolognese (41): conseguentemente ogni ponte che costava 3 lire imperiali ne costava 9 bolognesi. Ciò in quanto al valore assoluto ; chè se si volesse cercare di ragguagliarlo col valore della moneta moderna, si sarebbe tratti dall'autorità del Zanetti a considerare ch'egli ragguagliò la lira di bolognini della fine del secolo XII con 7 lire romane del secolo scorso, il che porterebbe ad attribuire ad ogni ponte della torre il costo di 63 lire romane, o lire 67,03 italiane e a tutta la torre la spesa di lire ital. 1340,60. Ma questa somma, aggiuntovi eziandio quel tanto che può portare la differenza dei prezzi dal secolo passato ad oggi, basterebbe soltanto a fabbricare adesso una torre da piccioni. Per la qual cosa non credo che si possa prender per base in questa ricerca che lascio ad altri di esaurire, il ragguaglio stabilito dal Zanetti.

Il Savioli (42) congettura che venti ponti corrispondano a circa 150 piedi bolognesi, ovvero a metri 58: vale a dire che ogni ponte sia di piedi bolognesi 7 e mezzo, cioè di metri 2,85; ma questo è il caso non di congetturare bensì di misurare. Ed ho misurato; ma in vero senza poter ricavare un risultato preciso da molte misure, imperocchè fra ponte e ponte non è sempre la stessa quantità di filari di mattoni, onde necessariamente la distanza è un po' varia. Si può però dire che nelle diverse torri la distanza minima media dei ponti è di metri 1,18, la massima media di 1,40 (43) e perciò se si volesse prendere la media di questi risultati, sarebbe di metri 1,29, il che basta a dimostrare come mal si apponesse il Savioli affidandosi a non so quali congetture. Giacchè i 20 ponti della torre Carbonesi corrisponderebbero tutt' al più a metri 28, anzichè a 58, come suppose il Savioli.

Uno di questi ponti, ossia da metri 1,18 a 1,40, pare che nel 1177 costasse lire 3 imperiali, o lire 9 di bolognini, e, se non vi fossero altre considerazioni da fare conosceremmo esattamente la spesa positiva di costruzione d' una torre al tempo sopra indicato. Ma le fondamenta, che pur gran dispendio relativo dovevano importare, son comprese o no nella somma totale, e quindi nelle tre lire per ogni ponte? Si dovrebbe supporre di si, se fosse enunciata solo la spesa complessiva; ma nel documento è detto che l' una parte, o il Vetrana, deve sborsare quindici lire pel secondo e pel quarto tratto, ognuno di cinque ponti, che a lui spettavano; ed all' incontro è detto che l' altra parte, ossia quella de' Carbonesi, doveva costruire il primo e il terzo tratto, ognuno parimente di cinque ponti, senza che ne sia indicata la spesa.

Sicchè pare probabile che le fondamenta stessero a carico dei Carbonesi, i quali dal Vetrana avevano ottenuta, forse per corrispettivo, la sua tubata per tale fabbrica, e che quindi le sotterranee costruzioni non entrino nella spesa delle 60 lire.

Abbenchè l' epoca delle torri urbane gentilizie sia propriamente nei secoli XII e XIII, non è perciò che prima o poscia non ne sorgessero. Il Muratori (44) ricercando in qual tempo si cominciassero a fabbricare nel medio evo (45), dichiara, con la schiettezza propria ai grandi uomini, che non lo si può determinare con certezza; ma immagina, secondo ch'egli si esprime, che se ne alzasse qualcuna nel secolo X, se ne crescesse il numero nell' XI, si moltiplicassero poi allorchè le città furono ancelle delle fazioni partite in guelfe e in ghibelline sotto infiniti nomi locali. Quanto alle nostre torri anche il Savioli (46), scostandosi dal Sigonio che assegnò loro l' epoca degli Ottoni, inclina a crederle moltiplicate sullo spirare del secolo XI coi primi moti della libertà: non ne cita però esempii, e solo all'anno 1120 comincia a parlare di nostre torri edificate (47). Chi però si contenta delle asserzioni di fra Leandro Alberti (48) e del Ghirardacci (49), riterrà costrutta nel 975 la torre dei Rodaldi. Parecchie se ne ascrivono al principio del secolo XII, e trenta alla metà del secolo successivo (50). L'ultima sorse nel 1489, ma benchè sia da ann verare fra le gentilizie e ne avesse tutta l' apparenza, non dimeno era d' un carattere affatto proprio, in quanto che costrutta non da cittadini per gareggiare con altri, sì bene dal secondo Bentivoglio signoreggiante, per trovare in essa un asilo nei tumulti degl' insofferenti.

Ma i comuni non tardarono a guarentire o a vendicare la pubblica tranquillità, ognora minacciata e spesse volte manomessa dai possessori riottosi delle torri. Sicchè la legislazione dell' epoca di cui vò discorrendo mostra a un tempo come le torri fossero considerate un grave e continuo pericolo e come si provvedesse gagliardamente con leggi preventive e punitive a renderle innocue e a diminurne il numero.

Gli statuti nostrani più antichi che ci son pervenuti, con provvedimenti riguardanti le torri gentilizie, furono compilati nel 1252. Ma di leggi, e di severe leggi, sullo stesso argomento, si ha indizio fino dal 1193, come appresso narrerò.

In maggior copia e più diffuse ne son recate dagli statuti e provvisioni fatti nel 1265 dai rinomati bolognesi fra Loderingo d' Andalò e fra Catalano di Guido d' Ostia, o de' Catalani, militi di Maria Vergine ossia de' Gaudenti, rilegati con ira ghibellina dall' Alighieri fra gl' ipocriti (51). A' quali due la città, dilaniata dai propri figli, e nelle maggiori distrette, affidò con fiducia corrisposta l' attutir le discordie, il riformar le leggi e il reggere la somma della cosa pubblica pericolante.

Di codesti statuti, che sono pubblicati dalla R. Deputazione di storia patria delle Romagne, a cura solerte del cav. Luigi Frati, recherò quel tanto che risguarda le torri, aggiungendovi, in modo comparativo e a complemento, le provvisioni consimili decretate in altre città.

Or dunque gli statuti bolognesi del 1252 (52), a rendere quasi affatto innocue le torri de' cittadini e gli altri edifizii torreggianti, ordinavano che niuno potesse abitare, nè tener munite di scale, le case e le torri al di sopra dei quindici ponti, il che può valutarsi tutt' al più a 21 metro, secondo che ho enunciato. Solo in caso d' incendio era lecito di apporre scale oltre questo limite, purchè ne fossero rimosse entro tre giorni, puniti i trasgressori in 15 lire.

Non trovo questo divieto in altri statuti, ma ne rinvengo per così dire gli effetti nell' osservazione, fatta dal Lami (53), a proposito delle torri fiorentine « che non v'erano scale fisse » ma non seppe addurne la ragione. Gli statuti di Parma (54) vietavano però di sostituire alle torri atterrate un edificio alto più di otto ponti. E così gli statuti di Verona (55) proibivano di fabbricare sopra le antiche torri ( dovrà intendersi sopra gli avanzi delle antiche torri), non che sopra gli altri edificii fortificati ; e per tali s' avesser quelli i cui muri eran grossi sopra terra più di due piedi e s' innalzavano più di otto ponti.

Gli statuti bolognesi anzidetti (56) prescrivevano che se qualcuno dalla propria torre, o tubata, o casa, ovvero altri con assenso di lui traesse proiettili con mangano (57), con pietriera (58), con mazzafrusto (59), o con altre macchine contro il palazzo, o contro la curia del comune, gli si demolisse fino al suolo la torre, o la tubata, o la casa, e si multasse di 100 lire. Se avesse tratto a mano doveva soltanto pagare le 100 lire.

Chi da tali edificii, malgrado del padrone, traesse con macchine contro il palazzo, o contro la curia, pagasse 300 lire; ne pagasse 100 chi traesse a mano. Se poi da siffatti edificii fosse tratto con macchine dal padrone, o con suo consentimento, ma non contro il palazzo nè contro la curia, gli si abbatta la torre, o la tubata, o la casa e gli si tolgano 15 lire. Se chi traesse in tal guisa non fosse il padrone dell' edificio, nè avesse la costui tolleranza, paghi 50 lire e non sia punito il padrone; se traesse a mano paghi 15 lire.

Gli altri statuti non solo ordinano pene tanto più gravi quanto è più potente il mezzo dell' offesa, ma ancora quanto è più elevato e più munito il luogo dal quale parte l' offesa.

Quelli di Lucca (60), che han fino a tredici rubriche riguardanti le torri, così prescrivevano : L' abitante d' una casa o d' una torre che saettò in tempo di tumulto, o di rissa, se si valse dell' arco sia punito in 300 lire, se della balestra in 500. Si distrugga sino a' fondamenti la casa o la torre da cui fu saettato, non si possa mai riedificarla, e ne siano confiscati i mattoni e il legname a pro del comune. Ma se il padrone della casa o della torre fu quegli che saettò, o fece saettare, o introdusse i saettatori, siano responsabili sì lui che il saettante, ma non l' inquilino. E se qualcuno impossessatosi violentemente d' una casa o d' una torre saettasse di là, ovvero lanciasse pietre sia con la mano sia con mazzafrusto, oppure scagliasse lance o gattarole (61) sia punito in 2000 lire, e più o meno ad arbitrio del podestà; ma in questa contingenza non sia distrutta la casa o la torre. Quegli dalla cui arcicasa (62), bertesca (63), casa, o torre furono gettate pietre, legni, piastre e cose simili, in tempo di tumulto e di rissa sia punito in 100 lire se fu gittato dall' arcicasa, in 50 se fu gittato dalla casa, in 300 se fu gittato dalla torre durante il giorno. Che se ciò fosse avvenuto nottetempo, tutte le multe sopraddette saranno raddoppiate. Dovendosi però intendere che se fu gittato da una torre da altezza minore di trenta braccia, la condanna sia soltanto come se fosse gittato da una casa.

Chi in città, nei borghi e nei sobborghi gittò o fece gittare per offesa di qualcuno con mangano, con bolzoncello (64), o consimile strumento, sia multato di 2000 lire. Se da una Casa furono scagliate pietre con la mano, la punizione sia di 50 lire per la prima pietra, e per ciascun' altra di 25 lire. Ma se vennero scagliate dagli archi in su di una torre, la punizione sia di 200 lire per la prima pietra se fu gittata con la mano, di 1000 lire se fu gittata con mazzafrusto, e di 3000 lire.se fu gittata con trabucco (65). Se poi il trabucco fosse stato costrutto e non adoperato, la condanna sarà di 500 lire.

Vedremo in Bologna delle torri multate fino a 6000 lire.

Anche i più antichi statuti di Siena (66) per tener la pace nella città, infliggevano la pena di 100 lire al padrone, che, per far guerra, gittasse o facesse gittare da un palazzo, o da una casatorre (67), o da casa armata; ma aggiungevano che, se non si poteva esigere la multa, dovevasi distruggere una parte di quell' edificio, pel valore di 100 lire. E così colui, che ad offesa o a principio di guerra, gettasse o facesse gittare dalla sua torre, venisse punito di 200 lire, e se non le avesse e non potesse essere danneggiato di tanto, ne fosse per altrettanto demolita la torre.

Ma coteste pene parvero ai Senesi, pochi anni dopo (68), o troppo miti o inefficaci posciachè duplicarono la multa pel gettito dalle torri e statuirono che, invece di demolire in parte le case, i palazzi, le casatorri e le torri da cui venisse gittato, dovevansi fino ai fondamenti abbattere e dissipare. Nè di ciò contenti, i Senesi trascorsero fino a decretare l' amputazione di una mano per siffatti colpevoli, che nel termine d' un mese non pagassero la multa. Di guisa che nell' impossibilità di confiscare le sostanze, confiscavano le membra umane.

Una pena sì barbara era ammessa con altre di tal fatta nella legislazione di que' tempi feroci, ed anche i Parmigiani (69) la statuirono riservandola però ai guarquanti che avesser tratto da una torre, quasichè costoro, quali ch' ei si fossero, potessero meglio di altri far di meno d' una mano, anzi della mano destra.

Essi Parmigiani statuirono inoltre che fosse distrutta fino a terra, senza remissione, quella torre dalla quale nella città, o nei suburbii, fosse stato gettato per volontà del suo padrone, e che mai nel luogo devastato potess' essére fabbricata o altra torre o qualsivoglia edificio. Ma fosse pur un estraneo che salita una torre di là gittasse, la torre doveva nondimeno essere abbattuta, salvo al padrone l' ammenda del danno.

O si traesse da un bitifredo (70) o da una torre, la pena era uguale. Chi traeva dalla torre e dal palazzo del comune aveva il bando, o doveva pagare 60 lire s'era milite, 30 s'era pedone. S' era un guarquante, ho detto di che moneta doveva pagare.

E di questa moneta, ossia di moncherini, volevano esser pagati i Senesi (71), se altra non potevano averne, da chi avesse saettato o fatto saettare, balestrato o fatto balestrare contro qualche persona in rissa, o da una torre, o da un palazzo, o da terra. Se i colpevoli fuggivano, avevano il bando perpetuo, i possedimenti devastati e demolito l' edificio da cui era stato tratto.

Punivano di 200 lire pisane i Sangimignanesi (72) chi da una torre avesse gittato contro il comune, ossia contro il podestà accompagnato dal vessillo di san Gimignano; di 100 lire chi avesse gittato contro i vicini. La multa era minore per chi aveva tratto da un palazzo; però, se non era pagata, ci andava di mezzo o la torre, o il palazzo.

Multe eguali a queste ultime, per uguali maleficii, furono stabilite dai Veronesi (73). Ma se qualcuno da qual si fosse ediflcio traeva contro il palazzo del comune, o contro chi v'era dentro, dovevasi atterrare quell' edificio, o interamente, o dal duodecimo ponte in su; incamerarne il suolo ed esigere 300 lire. Però, se il colpevole non pagava, era soltanto escluso dal consorzio della città.

I Viterbesi (74) contentavansi di multare di 5 lire o di di struggere due file delle torri, delle case, dei palazzi dai quali fosse tratto senz' ordine del podestà, ma se fosse stato tratto contro l' onore e la proibizione del podestà, la multa saliva a 50 lire e invece di due file s' avevano a distruggere due palaria (75). Se poi era stato tratto contro la città di Viterbo, la multa era di 100 lire, e le torri dovevan esser mozzate di cinque file.

Negli statuti pisani (76) meritan d' esser notate le seguenti particolarità a questo proposito. Era multato di 100 a 200 lire chi dalla cima della propria torre gittò o lasciò gittare pietre, spiedi, lance, gattarole, o altre cose nocive. Della metà era multato chi gittò o lasciò gittare, altresì dalla propria torre ma non dalla cima, e chi gittò da una torre non abitata dal proprietario. Se alcuno gittò o fece gittare cose nocive dal secondo solaio di una torre o di una casa, ovvero se il padrone della torre o della casa acconsentì che si gittasse contro un' altra, s' avesse a condannare ugualmente in 100 fino a 200 lire, oltre l'emenda dei danni. Ma se la casa o la torre colpita fu la prima a trarre, doveva limitarsi la pena alla quarta parte. Essendochè se alcuno riceveva offesa alle proprie case, poteva impunemente respingerla con trar pietre ed altre cose, purchè fosse a difesa di sè medesimo o delle torri e case proprie.

Per le case a più di due solai era prescritto lo stesso che per le torri, eccetto che non si doveva distruggere parte della casa e la multa dovev' esser ridotta alla metà. Chi gettava dal secondo piano d' una casa era punito in 50 lire, chi gettava dal piano inferiore, o da una casa di un solo piano, era multato di 25 lire e di altrettanto fino a dugento, se condo la qualità del delitto e della persona, chi dalla strada scagliasse spiedi, bastoni, lance, ovvero balestrasse o tirasse d' arco contro una casa.

Anche gli statuti di Lucca (77), a tutelare la quiete pubblica e i privati edificii, disponevano che se qualcuno dalla propria casa o da altro luogo guastasse, o permettesse di guastare casa, muro o parete di torre, o d' altro edificio, con bolzone (78), con piccone, con martello, con scure, o con altro istrumento, fosse condannato in 400 lire se aveva adoperato il bolzone, e in 200 lire se si era valuto d' altro strumento. Se poi qualcuno turbasse altrui nel possesso d' una torre, o d' una coscia di torre, avesse a pagare 50 lire; se lo turbasse nel possesso d'una casa 25 lire.

A Brescia (79) spicciatamente si puniva nel capo e con la confisca chi avesse scavato furtivamente il terreno, sì nelle case che altrove, a detrimento altrui, per far cadere o torre, o casatorre, o casa.

Se una torre nella città di Pisa (80) era presa dalla cima d' altra torre si doveva distruggere un terzo di questa, caso che l'assalitore ne possedesse la metà. Appartenendogliene una quantità minore, doveva essere distrutto quel tanto che gli spettava, oltre la multa di 100 lire di denari. Non possedendone parte alcuna, doveva pagare da 100 a 200 lire.

Ma tornando agli statuti di Bologna, traggo da quelli del 1265 (81) cotesto brano.

Ognuno dalla pubblica fama dichiarato colpevole d' omicidio, di pace rotta, di traditi luoghi e fortezze del comune, d' esservi entrato per ragion d' omicidii o di altri misfatti, s' abbia per confesso e siano distrutte sino alle fondamenta le sue case e le sue torri, entro otto giorni. Si recidano in città e fuori i vigneti e gli alberi di lui, della sua famiglia, del suo casato. Diano preciso eseguimento a ciò il podestà, gli anziani, i consoli dei mercanti e banchieri, non ostante qualunque atto di vendita, di donazione, di emancipazione, di cessione di doti o d' altro. Salvo però se le case, torri e poderi appartenessero per ragion propria alla moglie del colpevole, i cui diritti dotali devono essere soddisfatti col rottame, con i mattoni, con le tegole, col legname delle case e torri distrutte per le colpe sopraddette, se a ciò non valessero gli averi del marito condannato. Ma se quegli averi basteranno, siano invece tali avanzi di torri e di case aggiudicati all' erede dell' ucciso.

Vietasi generalmente di riedificare sopra il suolo delle case e delle torri distrutte, e se qualcuno movesse quistione di diritto su gli edificii condannati, sia definita sommariamente affinchè la sentenza si eseguisca dentro otto giorni.

Se il colpevole fosse padrefamiglia ed egli od alcun dei suoi possedessero case e torri, si atterrino totalmente; ma se i figli vi avessero diritto, sia loro riservato sul rottame, i mattoni, le tegole e il legname di siffatti edificii, non che su gli altri beni paterni. Se per contro il colpevole fosse figlio di famiglia, e se le case e le torri condannate fossero possedute o dal padre o dall' avo, se ne faccia la divisióne tra 'l padre, e i figli ed i nipoti, in parti eque per ciascun individuo, e si distrugga affatto la parte del colpevole.

Tra poco dimostrerò come ciò si eseguisse, avendo avuto in sorte di trovare un interessantissimo documento, che riferisce i particolari dell'esecuzione di questa pena.

Anche gli statuti di Viterbo (82) ammettevano la distruzione delle torri e dei palazzi, per causa d' omicidio, e di tradimento verso la città, ma proibivano però al podestà e alla sua curia, sotto pena di perdere il salario, di procedere a tale distruzione per altri motivi.

Per quanto concerne le donne, gli statuti di Siena (83) hanno che, se risulta da qualche disposizione non possa una donna, e chi ha diritto da una donna, succedere nella proprietà nè di una torre, nè d' una casatorre, nè di palazzo connesso con una torre, e che non abbia modo questa donna di potersi agiatamente dotare, venga dotata in modo convenevole da colui cui spetta il dritto di successione negli edificii sopraddetti, e ciò ad arbitrio di tre consanguinei. E se colui rifiutasse, la successione sia devoluta alla donna.

In vece gli statuti di Parma (84) vietavano assolutamente di dare in possesso d' una donna per dote o per legato una casa, una torre, o un castello, nella città e nel contado.

Gli statuti di Bologna, per quanto è noto, non ci han conservato altri precetti che risguardino le torri gentilizie. Ma poichè dai fatti che si trovan narrati, e da ulteriori provvisioni di statuti d' altre città, può dedursi che qui ancora fossero altre leggi sullo stesso subbietto, gioverà riferire quelle ulteriori provvisioni, le quali renderanno meno incompleto questo cenno di legislazione concernente le torri nel secolo XIII e dell' indole di que' tempi turbolenti.

Ora poichè le divisioni delle sostanze ereditarie, non che le vendite, conducevano come sovente si vedrà, alla comproprietà o consorteria nella proprietà delle torri, le relazioni fra consorti richiedevano norme fisse e speciali, rispondenti alla specialità del possedimento. Così gli statuti di Lucca (85), sotto la rubrica deconsortatu turrium, recano la formula del giuramento dovuto tra i diversi consorti relativamente alle torri e le regole da osservarsi in materia di torri indivise tra consorti. Dicono del modo di usarle; del reciproco aiuto da darsi per ricuperarle, quando venissero occupate da altri; dell' assoggettarsi. ad un arbitro nominato dal podestà o dai consoli, in caso di discordia; dell'accesso comune; del ponte fra due torri, a congiungerle; delle ammende da imporre ai consorti che non prestassero il dovuto giuramento. Vietano ai consorti di vendere o di obbligare la propria parte di torre ad estrani, se prima non è offerta pel prezzo di stima al consorte, datigli quattro mesi di tempo a risolvere. La pena di 200 lire, oltre la. rifazione dei danni, impongono a chi facesse ingiuria al consorte nella torre. Non essendo lecito di vender parte di torre di nascosto del consorte, questi può o subentrare nella proprietà della parte venduta furtivamente, o far dichiarare vana e nulla la vendita. Se in causa di maleficio dovess' esser distrutta una parte di torre, i consorti potranno redimerla, pagando un terzo di meno di quello che sarà stimata da due maestri periti. Ma se la parte di torre d' alcun malfattore si dovesse demolire, la demolizione si eseguisca in giro (per rotundum) nella parte superiore e non longitudinalmente.

Anche gli statuti pisani (86) prescrivono che se di due o più consorti, nella proprietà d' una torre o d' una casa, uno commettesse misfatti importanti la distruzione de' suoi averi, sia designata dalla cima tutt' intorno la parte superiore delle torri e delle case da appositi maestri, e sia distrutta a giudizio del comune e d' un agrimensore, portandone le pietre ed il legname che ne risulteranno ad tersanam (87).

Gli statuti più antichi di Siena (88) temperavano una siffatta punizione, ordinando che per malefizii non si danneggino torri comuni a consorti, se si può in altro modo danneggiare il malfattore. Ma gli statuti susseguenti (89) recisamente ordinano che se un consorte avrà fatto gettare dalla torre per far guerra, sia multato di 400 lire e ne sia distrutta e dissipata la parte di torre, senza veruna diminuzione.

Quelli di Lucca (90) impongono che se per colpa o per fatto d' alcun consorte fosse avvenuta la distruzione d' una casa o d' una torre debbano i reggitori di Lucca far amendare agli altri consorti il danno ricevuto nella casa o nella torre.

Questi stessi statuti (91) dichiarano che a fine di non deformare l' aspetto della città, non si dovranno distruggere case o torri per imposizioni non pagate. Si carcererà il debitore, e le parti di case e di torri condannate o saranno redente dai consorti, o verranno poste all' incanto e date al miglior offerente.

Nessun cittadino di Siena (92) poteva esser costretto dal podestà o da altro ufficiale a cedere in uso del comune casa, palazzo o torre; ma il podestà poteva far custodire pel comune le torri de' cittadini, secondochè stimava opportuno. E se una torre fatta da lui custodire fosse stata tolta o forzata, si dovesse punirne il padrone, in qualche guisa colpevole, con la multa di 200 lire, e, se non la pagava, gli si doveva distruggere la torre pel tratto di venti braccia, salvo che fosse stata tolta da un suo manifesto nemico, nel qual caso incorrerebbe costui nella pena di 200 lire.

A Viterbo (93) il podestà era parimente autorizzato a far custodire le torri de' cittadini venutigli in sospetto, ma le spese della custodia dovevano stare a carico del sospettato.

In alcune città, non tolleravansi le torri gentilizie presso la piazza ed il palazzo del comune, per tener liberi da soggezione luoghi così importanti. Onde a Brescia (94) era vietato di fabbricare edificii più alti dei balconi del palazzo del comune, e quindi massimamente le torri, a minor distanza di dugento braccia da esso palazzo, dal broletto e dalla piazza. A Verona (95) il podestà doveva impedire l' erezione di nuove torri, casatorri, belfredi, bertesche, o altri edificii fortificati, entro i limiti designati attorno al palazzo del comune. A Parma (96) fu decretata la demolizione fino a' fondamenti della torre degl' Ildigoni, affinchè gli uomini di Portanova potessero recarsi in piazza a servigio dei reggitori, senz' essere molestati dai nemici del comune e della parte della chiesa.

Altrove imponevasi un limite all' innalzamento delle torri : a tal che non era permesso a Lucca (97) di fabbricarne di più alte di quelle dei figli di Paganello, dei figli di Baratella e dei figli di Boccella, minacciando i trasgressori di demolire il di più a loro spese. A Viterbo (98) non si poteva oltrepassare la torre di Braimando, sotto pena di 50 lire. A Sangimignano (99) il limite insuperabile era la torre rognosa alta 86 braccia (met. 50,92), proibito d'innalzar questa ulteriormente. A Pistoia (100) il podestà doveva giurare di non permettere la costruzione di torri che sopravanzassero quella dei figli d' Ildiprando di Vandino.

Oggi abborriremmo molte di queste leggi, perchè nellh' attuale civiltà le troviamo, barbariche: ciò non ostante la comune di Parigi, nel 1870, decretò e fece devastazioni più vituperose e più selvagge di quelle che si commettevano nel secolo XIII, il quale, non ancora interamente francato dalla seconda barbarie, era dilacerato da mali estremi e spinto quindi ad estremi rimedii. Condizione di cose in vero tanto più deplorabile, quanto che quelle distruggitrici condanne essendo pronunciate sommariamente dal podestà, mancavano le guarentigie di giustizia. Nell' ordine dei fatti coteste condanne sono da considerare come una delle principali cagioni che fecer quasi scomparire le torri e che, vietando di rifabbricare sui luoghi ov' erano state abbattute le case e le torri, ne fecero durare per lunga età le rovine o guasti, squallidi monumenti de' guai causati dalle fazioni. Fino a dugentocinquanta guasti di case, appartenute agli espulsi di parte lam-bertazza, furono enumerate dal Toselli, investigando le carte antiche dell' archivio criminale (101).

Le nostre cronache riboccano di tumulti e di lotte parziali tra i primarii, di zuffe e di vere battaglie tra fazione e fazione, di vendette, di ferimenti, di omicidii; quindi di leggi incrudelite, di più largo arbitrio al pretore, di multe enormi, di confische, di demolizioni, di devastamenti, di amputazioni, di uccisioni legali, di bandi d' intere famiglie e per fino dell' intera parte lambertazza o ghibellina, in ben dodicimila persone, i cui nomi leggonsi tuttavia nelle tavole di sì mostruosa proscrizione. Ma io non dirò qui se non di due documenti inediti relativi a sì gran cumulo di mali che ci mostrano come si applicasse ed effettuasse la pena del diroccare le torri e le case.

Nel libro dei banditi fatto nel 1289 sotto la podestaria di Giacone Giaconi da Perugia (102), ossia quindici anni dopo la prima ed otto dopo la seconda cacciata dei lambertazzi, sono notati i nomi di trentotto individui, alcuni dei quali di gran casato, dichiarati per misfatti lupi rapaci (103) e proscritti nel 1283 dal podestà Corso Donati di Firenze, che fu poi

« ... a coda d'una bestia tratto

Verso la valle ove mai non si scolpa ». (104)

Il podestà Giaconi aveva intimato ripetutamente a costoro di mettersi a disposizione del comune, per dar promessa e sigurtà di comparire ogni volta che loro fosse ordinato; di stare nelle proprie case, corti e chicse, ma di non ricettarvi nessun bandito o ribelle di parte lambertazza, nè assassino e infamato; di non offendere alcuno nella persona e negli averi; di osservare tutto ciò che si contiene negli ordinamenti emanati al tempo del podestà Matteo da Correggio, ( 1282); i quali cominciano così: volendo che i lupi rapaci ecc. Ma poichè essi non comparvero, nè diedero cauzione, nè produssero difesa alcuna, il banditore del comune per ordine del podestà gridò e proclamò al cospetto del consiglio degli ottocento, per ciò radunati a suono di campana, essere quei trentotto in perpetuo banditi dal comune di Bologna per grave colpa, così che ognuno poteva offenderli nella persona e negli averi. Tutte le loro proprietà doversi per sempre incamerare al comune, le lore torri, fortezze e abitazioni abbattere e devastare. Non potessero venir richiamati dal bando e se cadessero in poter del comune, rigettata qualsivoglia difesa ed eccezione, fossero puniti nel capo il giorno di loro cattura, o'I seguente, a tenore degli ordinamenti fatti dal podestà Tebaldo de Brurati. E questo bando fu sanzionato dal podestà, affinchè avesse vigore (105).

L' altro documento (106) ci trasporta presso la casa di un vecchio patrizio de' Prendiparte, correndo l'anno 1272, in cui ben due volte le fazioni arrovellate insanguinarono la città. È vi troviamo Guglielmo di Rodofredo, giudice e assessore del podestà Lucchetto dei Gattaluzzi da Genova, il quale richiede il vecchio Guidottino Prendiparte (107) che assegni la dovuta porzione delle case da lui possedute in città al proprio figlio Guizzardino, uccisore di Ugolino del già Bonacosa Asinelli (108), affinchè il podestà possa far distruggere quel tanto che ne spetta ad esso Guizzardino, a manifesta giustizia e punizione di sì gran delitto. Alla quale intimazione il vecchio Prendiparte (o con stoicismo o con soffocato dolore) spontaneamente e di moto proprio risponde che gli attalenta ed è sua volontà che il podestà possa fare tale giustizia, vendetta e distruzione. Quindi assegna al figlio Guizzardino metà d' una casa e d' una torre al di là della chiesa di s. Maria degli Oselletti, abitata da esso Guidottino al tempo del commesso omicidio; la qual casa aveva avuta in comune con i figli ed erèdi di Iacopino Picciolo de' Prendiparte (109). Così pure assegna ad esso figlio la terza parte d' una casa in parocchia di s. Nicolò degli Albari, vicina alla torre abitata da Azzolino del già Guidottino Prendiparte. Le quali porzioni sono attribuite e date dal padre al figlio assente, affinchè' abbia eseguimento la legge secondo il volere del podestà. Di che si fece atto pubblico dal notaio d' ufficio, alla presenza di testimonii.

Consecutivamente l' anzidetto giudice Guglielmo di Rodofredo ed Opizone di Goduzio, cavaliere (110) e compagno del podestà, recaronsi difilati alle case sopraindicate per determinarne le porzioni da distruggere assegnate a Guizzardino, e dividerle da quelle che dovevan essere conservate. Chiamarono perciò alla presenza loro cinque maestri legnaiuoli (111), i cui nomi già sopravvissero per ciò solo sei secoli a ludibrio di molta brava gente presto dimenticata, i quali giurarono di videre tali case nelle prescritte porzioni, in buona fede, senza frode e legalmente. Quindi insieme e d' accordo dichiararono d' avere con diligenza osservata e stimata la casa sopraddetta nella parocchia di s. Nicolò degli Albari, dicendo e stimando che per la terza parte e valore della terza parte assegnata a Guizzardino, debba distruggersi tutto il muro anteriore di essa casa, secondo che se ne protende l' aula o la sala da un muro all' altro da mezzodì a settentrione, col tetto e con ogni edificio da cima a fondo della detta sala o caminata. Si atterri tutto fino alla colonna ch' è in mezzo a detta caminata, tanto nella parte superiore quanto nell' inferiore, sì come le dette colonne superiormente ed inferiormente volgono da mezzodì a settentrione. Di guisa che esse colonne, col rimanente dell'aula e con tutte le altre parti della casa che ne sono al di là verso oriente, rimangano integre e salve, e vi si abbia sempre accesso dal suolo delle parti distrutte, senza contradizione del comune, nè del suddetto Guizzardino nè d' altri. Il tetto del restante edificio poss' esser prolungato per la larghezza di tre piedi, a riparare le anzidette colonne e la porzione di caminata che non deve esser demolita.

Per tal modo i prefati maestri con giuramento affermarono che la porzione designata allo sfacimento è un terzo della casa colpita dalla condanna, considerando che la parte anteriore di quella casa, per qualità e per prezzo, vale e deve valutarsi assai più della posteriore e delle laterali. Laonde i suddetti giudice e cavaliere, seguìto il consiglio e il giudizio dei maestri periti, ordinarono che l' indicata porzione di casa si dovesse atterrare, in danno del colpevole Guizzardino.

In quanto poi alla casa situata nella parocchia di s. Maria degli Oseletti, quei maestri dissero la metà da demolirsi esser quella dal lato della torre contigua. Di modo che la parte spettante ai figli ed eredi di Iacopino Picciolo rimanga loro verso settentrione, e l' altra ch' è fra questa e la torre sia totalmente distrutta. Perciò la casa di Guizzardino si atterrasse fino all' inferiore e alla superiore colonna di mezzo sostenenti l' edificio, secondo che son volte da un muro all' altro ad oriente e ad occidente, senza nuocere nè distruggere esse colonne, le quali devono rimanere nella loro integrità per reggere la porzione di casa che ha da sussistere. E qui pure pel suolo che resterà vacuo, in causa della demolizione, sia per i padroni e per gli abitatori del rimanente edificio, ognora libero l' accesso alla parte di torre dei figli ed eredi del fu Iacopino, senza opposizione di Guizzardino, o del comune, o d' altri. Dietro i quali concordi consiglio e giudizio dei maestri d' arte, il giudice e il cavaliere anzidetti ordinarono di seguirne le norme, e di procedere alla demolizione di quelle parti di case: poscia se ne scrisse l' atto pubblico.

Furono dunque le leggi sterminatrici causa principale del mozzamento e del diradamento delle torri; altra causa fu l' erezione di vaste chiese e monasteri, di palazzi pubblici e privati che richiedette l' atterramento di anteriori edificii. Altra i casua li precipizii delle torri cominciati nel 1201, e la conseguente trepidazione, onde molte torri furono diroccate. Ne fu altra grande cagione lo spavento incusso da vio lenti tremuoti, e soprattutto da quelli del 1505 che imperversarono anche a Ferrara ed a Venezia (112), e fu spavento sì grande che risparmiò poche torri. Per ciò, e per le rovine direttamente cagionate, quel tremuoto diede ampio e lamentoso argomento alle penne de' nostri cronisti, ed a quella eziandio dell' illustre letterato Filippo Beroaldo seniore, il quale da tale calamità fu colpito nelle sostanze, nella salute e negli affetti. Egli ne pubblicò pochi mesi dopo la patetica descrizione, ossia l' « Opusculum Philippi Beroaldi de terraemotu et pestilentia cum annotamentis Galeni. Impressum Bononiae per Benedictum bibliopolam bononiensem, anno Domini MDV. Idibus Martii ». E non parrà fuor di luogo se da tale descrizione trarrò qualche ricordo, perchè quella sciagura strettamente si collega con la sorte delle nostre torri.

Le prime scosse avvennero a profonda notte nel primo dell' anno 1505; altre annunziate da formidabili boati, le susseguirono durante parecchie settimane. Tutte le case furono guaste; rovinò il palazzo Bentivoglio, uno dei più cospicui d' Italia; le chiese e più di tutte s. Giacomo, s. Francesco e la cattedrale si spaccarono; molte torri crollarono, e il Beroaldo narra che sotto i suoi occhi precipitò con fracasso tutto il prospetto della sua bella casa (situata in principio del Borgo paglia) recentemente con eleganza ristaurata. E quando per una sosta pareva cessato il pericolo e gli animi si tranquillavano, ecco che nell' alto della notte tutta la città fu scossa con sì orrendo fragore, che ognuno, trabalzando dal letto, errando trasognato nelle tenebre e credendo giunta l' ora suprema, invocava la misericordia divina con le preci estreme.

Poscia in tutte le fucine dei fabbri fu una gara di lavorar giorno e notte chiavi di ferro, fin che ferro vi fu, per rattenere le case pericolanti, dalle quali ognuno trepidando era fuggito preferendo di serenare nel più crudo del verno. Quindi febbri e pneumoniti più mortifere del tremuoto, per le quali soggiacque Camilla Paleotti moglie del Beroaldo, e poco dopo egli stesso. Allora, come notò il Beroaldo, e poi « turres aliquot, quae in urbe nostra plurimae sunt altitudine spectabiles, dirui a possessoribus cepere », E ben dovevan esser salde quelle che sussistettero.

Così presso a poco per le diverse cagioni accennate vennero meno le torri altrove, di che recherò qualche esempio.

Nel 1145 i Romani, galvanizzati da Arnaldo da Brescia e inalberatisi, scrivevano al re Corrado II d'aver prese le fortezze, ossia le torri e case, dei potenti della città, i quali con Ruggieri re di Sicilia e col papa si apparecchiavano a resistere a lui e di averle in parte tenute in sua fedeltà, in parte rovinate e gettate a terra (113).

Nel 1258 il bolognese Brancaleone Andalò, senatore di Roma, fece mozzare centoquaranta torri per domar l' orgoglio de' magnati romani (114).

I ghibellini pervenuti a signoreggiar Firenze coll' aiuto dell' imperator Federico nel 1248 « si formarono a loro modo e feciono disfare ventiquattro fortezze di guelfi palagi e grandi torri ». Prevalso poi nel 1250 l' elemento democratico « si ordinarono per più fortezza di popolo che tutte le torri di Firenze, che ce n'erano assai, e in grande quantità alte braccia 120, si tagliassono e tornassono alla misura di 50 braccia, e così fu fatto ». Ott' anni dopo i ghibellini tentarono una riscossa ma, soccombendo, dovettero in gran parte esulare « e chi aveva torri e palagi furono disfatti » (115). Poi vittoriosi a Montaperti nel 1260 « disfeciono molti palagi e torri dei guelfi » (116).

L' autore della' cronaca piccola di Ferrara scriveva nel secolo XIV come da fanciullo udisse il padre raccontare che a' suoi tempi erano in Ferrara trentadue alte torri e poi le vide distruggere (117). Ma per contro alcuni ribelli, perdonati da Obizzo marchese di Ferrara, avendo di nuovo macchinato contro di lui, egli ordinò che ne fossero demolite le case e con i materiali resultanti si fabbricasse una torre, che fu poi detta di Rigobello ossia dei ribelli (118).

Nel 1196 Drudo Marcellino podestà di Genova fece o demolire o ridurre all' altezza di ottanta piedi le torri soverchianti, innalzate da' cittadini arbitrariamente contro le costituzioni del comune (119).

Gli annali antichi di Modena ricordano che nel 1225 il pretore marchese Cavalcabò, mise a confine molti sediziosi e fece abbattere tutte le torri dei nobili (120).

Il Tegrimo vorrebbe far credere che Castruccio Antelminelli pervenuto alla signoria di Lucca, (1306) vi facesse uguagliare alle case trecento torri (121), ma la critica moderna le ha ridotte a undici (122).

Onorio III, in lotta coll' imperatore e con i paterini, inviava nel 1225 lettere pontificali al vescovo di Brescia in cui, deplorando che gli eretici fossero in essa città quasi in casa propria armati di torri contro i cattolici ed avessero distrutti templi e scomunicata la chiesa romana, ordinava a lui di fare totalmente diroccare fino alla polvere del suolo le torri dei Gambara, degli Ugoni, degli Oriani e dei figli di Botazzo (ottimati bresciani) e di smantellare per la metà o per un terzo le altre torri dei nobili di dubbia fede (123).

Federico II, espugnata e saccheggiata Ascoli nel 1241, vi diroccò novanta altissime torri (124).

L' altro imperatore Carlo V avendo ordinato a Diego Mendozza d'inceppare Siena con una fortezza (1551), costui cominciò « a sfogare la collera con far gittare a terra tanti magnifici edifizi delle torri che o interamente demolite o sbassate furono » (125).

Tra i precipizii fortuiti ricorderò quelli delle torri dei figli d' Espiafame e dei figli di Caro nel 1186; della torre di Pagano di Bonsino nel 1217 e dell'altra dei figli di Sismondo nel 1230 a Lucca (126); della torre dei Giudici di Gallura in Pisa nel 1335 (127); della torre di Pusterla in Vicenza (128); di quella in piazza s. Stefano a Viterbo nel 1464 (129) e da ultimo indicherò la caduta della torre della vittoria in Siena, veduta dallo storiografo Tommasi che scriveva nel 1510 (130).

Dirò adesso partitamente e con ordine alfabetico delle torri gentilizie di Bologna e delle famiglie da cui si credono edificate, o da cui furono tenute secondo le più antiche memorie. Accennerò eziandio le famiglie sotto il cui nome son designate talvolta le torri nelle nostre cronache, per trasmissione di proprietà.

(1) II Petrarca ricorda ( Epist. de reb. senil. lib. 10, epist. 2 ) che, con denominazione fatta già proverbiale, Bologna era detta la grassa quand'egli vi stette in gioventù (1322-1326).

(2) Malispini Ricordano, Storia fiorentina cap. 140. Villani Giovanni, Cronica lib. 6, cap 37.

(3) Nella sua storia di Sangimignano pag. 533 e citando il libro di Previsioni di lettera G, n. 181.

(4) Histor. di Bol. (anno 1541) lib. 6, deca 1.

(5) Nomi delle strade, delle case, torri ecc. in 32°.

(6) Istruttioue delle cose notabili della città di Bologna (anno 1621) pag. 190 e seguenti.

(7) Annali di Bologna v. 1, p. 193.

(8) Cronica, lib. 6, e. 34.

(9) Orsato, Histor. di Padova, pag. 266, e parte inedita di essa Historia.

(10) Castellini, Stor. di Vicenza v. 3, pag. 115.

(11) Orsini Baldass. Descrizione delle pitture e architetture di Ascoli, pag. VI. Lazzari, Guida d'Ascoli, pag. 167.

(12) Turrigius, de Crypt. Vatican. part. 2, pag. 407. Muratori, Amidi, ital. v. 1, pag. 364.

(13) Pecori, Stor. della terra di Sangimignano, pag. 581.

(14) Istor. fiorent. cap. 45. Al cap. 141 ne viene poi indicando spettanti a settantatrè famiglie. Di molte dà conto il Lami (Antich. tosc. v. 1, p. 151 e seg.).

(15) Malavolti, dell' histor. di Siena, par. 1, pag. 25.

(16) Muratori, nella nota 8 alla Cronaca di Andrea Dei (Script, rer. ital. v. 15, col. SI), riferendo un passo delle cronache del Tizio.

(17) Malavolti, dell' histor. di Siena, par. 1, pag. 26.

(18) Muratori, Antich. ital. v. 1, p. 364.

(19) Fiorentini, De prima Thusciae ehristian, p. 96. Marchiò, Il forest. inform. p. 5.

(20) Dittamondo, lib. 3, c. 6.

(21) Beniamini Tudelensis, Itinerarium, pag. 18.

(22) Lami, Amich. tose. v. 1, pag. 161.

(23) Malispini Ricordano, Storia fiorentina cap. 137, 141. Villani Giovanni, Cronica cap. 33,39.

(24) Ricci. Storia dell'architettura in Italia vol. 1, pag. 580.

(25) Le più grosse mura delle torri di Firenze sono di braccia 3 (met. 1,75) secondo è notato dal Lami (Antich. tose. v. 1, pag. 156).

(26) Lami, Antich. tosc. v. 1, pag. 156.

(27) H. N. lib. 36, e. 46.

(28) Savioli, Ann. v. 1, pag. 193.

(29) Ad esempio quella della torre Uguzzoni ( flg. 3 ) è alta met. 2,49 ed ha sol tanto 70 centim. di larghezza.

(30) Misure della porta della torre Garisendi, tanto dal lato esteriore quanto dall' interno:

esternamente / internamente

larghezza dell'apertura met. 0,77 / met. 1,07

altezza dei modiglioni met. 0,39 / met. 0,30

larghezza dei modiglioni met. 0,46 / met. 0,66

lunghezza dei modiglioni met. 0,68 / met. 0,76

altezza fino all'architrave met. 2,61 / met. 3,02

altezza dell'architrave met. 0,24

altezza dell' arco met. 0,68

altezza massima della fascia met.» 0,70.

Muramenti moderni nascondono queste parti della porta esterna.

(31) Misure della porta superiore della Garisenda, tanto dal lato esteriore quanto dall' interno:

esternamente/internamente

larghezza dell'apertura met. 0,64 / met. 0,59

altezza fino all' architrave met. 1,90 / met. 2,31

altezza dei modiglioni met. 0,31 / met. 0,37

larghezza dei modiglioni met. 1,03 / met. 0,32

lunghezza dei modiglioni met. 0,48 / met. 0,58

lunghezza dell' architrave met. 1,35 / met. 1,28

altezza dell' architrave met. 0,45 / met. 0,34

altezza dell' arco met. 0,26 / met. 0,53

altezza della fascia met. 0,35 / met. 0,29

(32) Docum. n. 137.

(33) Misure delle finestre di torri.

altezza larghezza

del Lino met. 0,86 met. 0,36

Riccadonna » 0,90 » 0,24

Alberici » 1,10 » 0,76

Asinelli ( infer. ) » 1,50 » 0,43

Asinelli (mediana) » 1,53 » 0,47

Asinelli (super.) » 1,64 » 0,65

Oseletti » 1,56 » 0,41

Toschi » 1,62 » 0,48

Scappi » 1,74 » 0,70

Artenisi » 1,76 » 0,47

Garisendi » 1,81 » 0,60

Lambertini » 2,04 » 0,68

(34) Storia dell' arte pag. 92.

(35) II Savioli (Annali di Bologna v. 3, pag. 214) dice essergli ignoto se quei d'Uberto d' Armanno, che poi si spensero in breve, fossero o no consorti con i figli di Rolandino e con gli altri Galluzzi, ma che vi è argomento da sospettarlo.

(36) Docum. n. 3.

(37) Docum. n. 2.

(38) Docum. n. 1.

(39) Vedasi, pel vocabolo tubata, l'articolo Albari.

(40) Ossia di 6720 lire di bolognini, poiché la marca d' argento corrispondeva a lire 67,20 di bolognini (Savioli, Ann. v. 5. pag. 262).

(41) Zanetti, Delle monete di Bologna, pag. 14.

(42) Ann. v. 3, pag. 77.

(43) Negli statuti di Verona (pag. 54) è detto che colà il ponte è di 4 piedi veronesi. Questi corrispondono a metri 1,37.

(44) Antich. ital. v. 1. pag. 364.

(45) Gli antichi usarono anch'essi le torri e Dionigi d' Alicarnasso riferisce l'opinione che i Tirreni o Tyrseni venissero cosi appellati da Turris o tyrseis perché le loro abitazioni erano fortificate di torri (Dionis. lib. 1, e. IT, 19 e Lepsius Die Tyrennischen Pelasger pag. 13, 14).

(46) Ann. v. 3, pag. 193.

(47) Savioli, Ann. v. 1, pag. 191.

(48) Hist. di Bol. lib. 6, deca 1.

(49) Hist. di Bol. v. 1, pag. 429.

(50) Alberti, Hist. di Bol. lib. 2, deca 2.

(51) Inferno, c. 23.

(52) Docum. n. 6, rubr. 26.

(53) Antich. tosc. v. 1, pag. 161.

(54) Statuti di Parma del 1255 pubblicati dalla Commissione parmense di storia patria a cura del ch. sig. prof. A. Ronchini. (Monumenta historica ad provincias parmensem etc. pertinentia, v. 1, lib. 3, pag. 275).

(55) Cap. 90, pag. 54.

(56) Docum. n. 6, rubr. 27.

(57) Nominavansi mangani certe macchine con le quali scagliavansi pietre.

(58) Macchine anch' esse da scagliar pietre.

(59) Anche il mazzafrusto era uno strumento da gettar pietre, formato da una lunga asta alla quale era legata una fionda di cuoio, e adoparavasi con due mani.

(60) Statuti di Lucca del 1308, pubblicati a cura del ch. sig. cav. S. Bongi, nel t. 3, par. 3 delle Memorie e docum. per servire alla storia di Lucca: lib. 3, rubr. 18, pag. 147.

(61) Strumenti per avventura simili a quel graffio tricuspidale ch'era chiamato gatto.

(62) Forse l' arcicasa era uguale o simile alla casatorre, cioè una casa costrutta e fortificata a guisa di rocca (arcis) o di torre. L' arcicasa è menzionata in qualche statuto e la casatorre in qualcun altro, ma non trovansi mai nominate ambedue in un solo statuto.

(63) Le bertesche o baltresche erano torricelle di legno.

(64) Due sorta d'armi intendonsi per bolzoni e bolzoncelli. Cioè una specie di freccia con capocchia in cambio di punta, che si traeva con balestra grossa, ed una macchina come l'ariete da romper muraglie. Ma nello statuto di Lucca il significato di bolzoncello par simile a quello di mangano, cioè di uno strumento da scagliare; e potrebb' esser tolto il nome dall'oggetto che veniva scagliato.

(65) Cosi era detto una specie di grande mangano da scagliar pietre. Col trabucco i Bolognesi gettarono un asino dentro Modena assediata, dopo la presa del re Enzo (1249); e i Fiorentini, sconfitti gli Aretini « e posto l'assedio ad Arezzo vi manganarono dentro asini colla mitra in capo, per rimproverar loro la morte del loro vescovo » (Muratori, Ann. v. 11, pag. 572). In Ispagna il vocabolo trabuco si è conservato a quello schioppo che noi chiamiamo trombone e che si carica di molti proiettili.

(66) Statuti di Siena del 1272-1282, fol. 123, d'una parte dei quali mi ha favorito il ch. sig. prof. L. Banchi, segretario all' archivio di Stato in Siena.

(67) Il prof. Gloria annotando gli statuti di Padova dice che la casatorre « era una casa forticata con torri » e riporta il passo del n. 365 et fiat solarium et copertura et armatura in casaturri dicte roche. Certamente il vocabolo casatorre appropriavasi non alla casa fornita di torre, ma a un edilìzio speciale; probabilmente a una casa elevata e munita siccome torre. Infatti benché i dugentoquaranta documenti riportati in fine di questa memoria trattino tutti di case torrite, quattro soltanto di tali documenti hanno il vocabolo casatorre, il che non sarebbe avvenuto se ogni casa torrita si fosse chiamata casatorre. Anzi nel documento n. 116 è menzionata unam domum cum turre et casature il che meglio dimostra che la casatorre era un edilizio speciale. Inoltre il seguente passo degli statuti di Verona conferma che la casatorre entrava nella classe degli edificii fortificati « ... ut non fiant turres de novo neque casàturris neque belfredum aut bertesca, neque aliud aediflcium quod ad munitionem pertineat » (Muratori Antich. ita1, v. 1, pag. 365).

Dai Latini si dissero turres i palazzi signorili sia perché muniti di torre, sìa perché alti e saldi come torre. Nella reggia di Priamo era una torre dalla quale il misero padre vide lo strazio dell'ucciso Ettore (Om. II. lib. 22, v. 526) e fu diroccata nella notte finale di Troia ( Virgil. Aen. lib. 2, v. 460). Di Dionigi tiranno di Siracusa si narra che concionari ex turri alta solebat (Cicer. Tuscul. disputat. 5, e. 20) e può intendersi tanto da torrito, quanto da torreggiante edificio, Nel distico di Tibullo (lib. 1, eleg. 7, v. 19-20)

... maris vastum prospectet turribus aequor

Prima ratem ventis credere docta Tyros

pressoché tutti i commentatori riconobbero le case di quella città che Strabone (lib. 16, cap. 23) disse elevate a maggior numero di piani di quelle di Roma. Plinio (H. N. lib. 2, cap. 73) fa menzione in Africa Hispaniaque turrium Hannibalis, e di quella d'Africa Tito Livio (lib. 33, cap. 48) indica la precisa postura, dicendo che Annibale nella sua fuga da Cartagine inter Achollam et Thapsum ad suam turrim pervenit, cioè ad una casa di campagna secondo che ha Giustino (lib. 19, cap. 2) ...rus urbanum quod propter litus maris habebat — contendit. Irzio (Bell. Afric. cap. 40) addita altresì in Africa, vicino a Ruspina, una villa permagna quatuor turribus extructa. Onde il Duker cosi annotava il sopraddetto passo di Livio : Turris ut graece turyos est arx, castellum, palatium, amplum magnificumque aedificium prospectus causa altius extructum in vineis, villis et hortis.

Orazio (lib. 3, ode 29, v. 9, 10) invitava Mecenate a riposarsi nel recesso della villa Sabina donatagli

Fastidiosam desere copiam, et

Molem propinquam nubibus arduis:

cioè l'eccelso palazzo posseduto da Mecenate ne' suoi orti suIl'Esquilino, che alta domo è detto altrove dal poeta ( lib. 5, ode 9, v. 3. ) e altissima illa Mecenatiana turris da Svetonio (Neron. cap. 38), quella stessa dalla cui cima l'imperiale istrione contemplava, cantando, l'incendio di Roma (Oros. lib. 7. cap. 71). Ma per non dilungarmi finirò con una volgare sentenza, resa squisitamente elegante dal Venosino (lib. 1, ode 4, v. 13, 14):

Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas

Regumque turres.

Le quali torri o abitazioni torreggianti dei grandi, non già dei regnanti siccome è chiaro per altri luoghi (lib. 2, ode 3, v. 21-28, ode 18, v. 31-33; lib. 3, ode 1, v. 14-16. Epist. lib. 1, epist. 7, v. 37; epist. 17, v. 43. Satyr. lib. 1, sat. 2, v. 86; lib. 2, sat. 2, v. 46), sono traslatate dal Nauck nella voce tedesca thurmpalast, ossia torrepalazzo che ha corrispondenza con la casatorre e per avventura con l' arcicasa de' nostri statuti.

(68) Statuti di Siena degli ultimi anni del secolo XIII, e. 1, fol. 195.

(69) Statuti di Parma lib. 3, pag. 275.

(70) II bitifredo o butifredo o belfredo era, come la bertesca, una torricella di legno, e ne trasse e ne conserva il nome di Butifré un luogo della pianura bolognese, come altri luoghi sono detti Bastie.

(71) Statuti di Siena degli ultimi anni del sec. XIII, c. 1, fol. 195.

(72) Statuti di Sangimignano del 1255 pubblicati dal Pecori insieme con la storia di Sangimignano: lib. 3, rubr. 25 e 26.

(73) Statuti di Verona pubblicati dal Campagnola cap. 61, pag. 54.

(74) Statuti di Viterbo del 1251 pubblicati dalla R. Deputazione di storia patria per le provincie di Toscana ecc. a cura del ch. cav. Ignazio Ciampi (Documenti di Storia Italiana v. 5) sect. 4, rubr. 36, pag. 565.

(75) Forse due ponti, da palo o travicello.

(76) Statuti di Pisa del XII al XIV secolo, raccolti ed illustrati per cura del ch. prof. Bonaini. Statuti del 1286 lib. 3, rubr. 22, v. 1, pag. 382.

(77) Statuti di Lucca lib. 3, rubr. 52 e 153, pag. 175 e 229.

(78) Qui il bolzone pare più simile all'ariete di quello che ad una freccia a capocchia.

(79) Statuti di Brescia dei sec. XII e XIII pubblicati dal ch. comm. Federico Odorici nelle sue storie bresciane v. 8, pag. 14, (115 e. 45).

(80) Statuti di Pisa lib. 3, rubr. 22; v. 1, pag. 382.

(81) Docum. n. 9.

(82) Statuti di Viterbo sect. 3, rubr. 165, pag. 537.

(83) Statuti di Siena del 1277-1282, fol. 58.

(84) Statuti di Parma lib. 3, pag. 248.

(85) Lib. 4, rubr. 62, pag. 281.

(86) Lib. 3, rubr. 68, v. 1, pag. 456.

(87) Armamentario dove si custodiva ogni sorta di attrezzi militari.

(88) Fol. 123.

(89) Statuti di Siena della fine del secolo XIII, c. 1, fol. 195.

(90) Statuti di Lucca, lib. 3, rubr. 18, pag. 147.

(91) Statuti di Lucca, lib. 5, rubr. 65, pag. 328.

(92) Statuti di Siena del 1277-1282, fol. 10, v.

(93) Statuti di Viterbo, sect. 3, rubr. 124, pag. 529.

(94) Statuti di Brescia, vol. 7, pag. 109.

(95) Statuti di Verona, cap. 63, pag. 54.

(96) Aggiunte agli Statuti di Parma, lib. 3, pag. 475.

(97) Statuti di Lucca, lib. 4, rubr. 68, pag. 287.

(98) Statuti di Viterbo, sect. 3, rubr. 119, pag. 528.

(99) Statuti di Sangimignano, lib. 4. rubr. 12, pag. 582.

(100) Muratori, Antich. ital. v. 1, pag. 365.

(101) Toselli, Spoglio dell' arch. crim. parte 1, fase. 19, pag. 926.

(102 II Gbirardacci (Hist. di Bolog. v. 1, pag. 282) fa di costui due personaggi: cioè Giacopino dei Figli perugino, podestà per i primi sei mesi e Giacone Giaconi, podestà per gli altri sei. Lo sbaglio dev' esser derivato da che la podesteria di lui trovasi indicata negli atti in questo modo: Domini Iaconi de filiis Iaconi de Perusio.

(103) II Ghirardacci (Hist. di Bolog. v. 1, pag. 563) posticipa questa denominazione di alquanti anni, poiché racconta che del 1313 « erano alcuni cittadini et fuori et dentro la città di Bologna divenuti cosi sfrenati et si poco timorosi di Dio, che licentiosamente commettevano molti homicidi et rapine, il perché dal popolo erano chiamati lupi rapaci ». Il Senato ordinò a costoro di presentarsi e dare sigurtà « et se alcuno di essi commettesse maleficio alcuno, oltre le pene imposte fosse chiamato lupo rapace ».

(104) Purg. c. 24, v. 83.

(105) Docum. n. 170.

(106) Docum. n. 79.

(107) Guidottino e Jacopo Prendiparte nel 1265 improntarono, insieme con altri, somme di denaro per fare apparecchi in aiuto della parte guelfa e di Carlo d'Angiò, Tenuto in Italia con un esercito contro Manfredi re di Puglia (Savioli vol. 5, pag. 388).

(108) Il Savioli (Ann. di Bolog. v. 5, pag. 460) dice per isbaglio che l'uccisore fu il vecchio Guidottino e che l' ucciso fu Guizzardino Asinelli.

(109) Jacopino Picciolo era stato nel 1254 a Ravenna ad un parlamento convocato dal conte della Romagna (Savioli, Ann. di Bol. v. 5, pag. 283).

(110) Il Muratori (Antich. ital. v. 3, pag. 61) nota che al podestà « si comandava di condur seco almeno due giudici e due cavalieri nobili. Ufizio dei primi dovea essere di sbrigare le cause criminali e décider le liti civili; incumbenza degli altri avea da essere la guardia del palazzo e del podestà e l' assisterlo coll' armi per l'esercizio della giustizia e pel gastigo de' malviventi ».

(111) Si sceglievano forse dei maestri legnaiuoli perché l'ossatura e la parte principale delle case era di legname, e per ciò stesso i contratti per le costruzioni delle case facevansi con maestri legnaiuoli anziché con muratori.

(112) Muratori, Ann. d' Italia v. 14, pag. 51,

(113) Otto Frisigensis, lib. 1, e. 28, De gestis Friderici.

(114) Muratori, Ann. v. 11, pag. 308.

(115) Ricordano Malispini, Hist. fiorent. cap. 137, 141. 159.

(116) Villani Gio. Cron. e. 79.

(117) Muratori, Antich., ital. v. 1, pag. 366.

(118) Ferranti, Compendio della storia di Ferrara, v. 2, pag. 167. Frizzi, Storia di Ferrara v. 3, pag. 178.

(119) Giustiniani, Annali della repubblica di Genova, v. 1, pag. 280.

(120) Vedriani, Storia di Modena, pag. 165.

(121) Vita di Castruccio Castracani degl' Antelminelli di M. Niccolao Tegrimi pag. 49.

(122) Cianelli, Dissertazione sopra la storia lucchese nel vol. 1, pag. 256 delle Memorie e docum. per la Storia di Lucca.

(123) Raynaldus, Annales ecclesiastici, v. 1, pag. 559.

(124) Compagnoni, Reggia Picena, pag. 106.

(125) Pecci, Memor. stor. crit. di Siena, parte 3, pag. 253. Malavolti, dell' Hist. di Siena, parte 3, pag. 151.

(126) Tolomeo da Lucca negli Annali all'anno 1186 citato dal Muratori, Antich. ital. v. 1, pag. 365.

(127) Tronci, Memorie istor. di Pisa, pag. 341.

(128) Castellini, Storia di Vicenza v. 3, pag. 115.

(129) Della Tuccia, Cronaca di Viterbo, pag. 89.

(130) Thommasi, delle Histor. di Siena, pag. 35.