Srebrenica, trent’anni fa
di Stefano Sodaro
La memoria deve sopravvivere (trad. dal bosniaco) - logo originale per questo numero del nostro settimanale
Campagna intorno a Potočari, vicino a Srebrenica, in Bosnia ed Erzegovina. Luglio 2007. La costruzione in lontananza è la fabbrica in cui uomini musulmani furono arrestati, torturati e uccisi durante il massacro di Srebrenica del luglio 1995 - Foto e didascalia tratte da commons.wikimedia.org
Srebrenica dista da Trieste 640 chilometri, appena un po’ più di Torino.
Eppure di cosa accadde lì dal 9 all’11 luglio del 1995 nessuno parla più. I genocidi, ormai, sono altri. E i fatti, altrettanto realmente genocidari, di trent’anni fa possono venire archiviati.
Nel 2020, in piena pandemia, il nostro settimanale propose due riflessioni per tentare di far memoria del Massacro di Srebrenica, avvenuto venticinque anni prima: se ne parlò qui e qui.
Il 25° anniversario fu, per noi che scriviamo e leggiamo le righe di Rodafà, soprattutto riflessione sugli eventi, sui fatti, le cronache, oggetto – fra l’altro – di giudizio penale di un Tribunale Internazionale, anzi di due.
Ma oggi la memoria si fa, per così dire e se possibile, ancora più intensa. Guarda – vorrebbe guardare -, cioè, dentro al baratro di assenza totale e nefasta di qualunque barlume culturale che condusse a quell’esito di crimine puro. Le vittime musulmane dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina furono 8.132. Maschi dai 12 ai 77 anni. Il film Quo vadis, Aida? di Jasmila Žbanić, comparso nelle sale proprio nel 2020, pure sembra essere stato dimenticato.
La guerra dei Balcani, la dissoluzione della Jugoslavia, il martirio di Sarajevo escono ormai da qualsiasi perimetrazione di memoria, eventi confinati quasi a storia localistica poco rilevante, faide oscure di popoli sconosciuti.
Eppure le parole andrebbero adoprate quando necessario, e dopo trent’anni è necessario usarle senza falsi pudori: quel massacro, quell’eccidio, fu un genocidio fascista in piena regola. Regola perversa e abominevole, certo, ma “regola” la cui lucidità, per quanto folle, non può essere attribuita ad una irrazionalità giudizialmente irresponsabile. Ed infatti così, per fortuna, non fu: l’apposito Tribunale Penale Internazionale condannò, tra gli altri, a 40 anni di reclusione, nel marzo 2016, Radovan Karadžić per genocidio, crimini contro l’umanità e violazione del diritto bellico, e all’ergastolo Ratko Mladić, nel novembre 2017, per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
La Corte Internazionale di Giustizia, a sua volta, già nel 2007 (“già”, si fa per dire, erano trascorsi 12 anni…) aveva concluso, con sentenza accertativa, essersi trattato di vero e proprio genocidio.
I Tribunali, peraltro, assolsero le entità statali di Serbia e Montenegro, le due Repubbliche, dalle accuse di responsabilità diretta e/o di complicità nel massacro.
Torniamo, però, un istante a meditare sulla caratterizzazione fascista di quei fatti.
La cosiddetta “cultura fascista” in effetti non esiste, né è mai esistita. Merita, sicuramente, approfondire il substrato ideologico di quella fabbrica delinquenziale di pseudo-verità che fu il fascismo, ma la violenza, che è componente unica e decisiva di qualsiasi pretesa di “cultura fascista”, fa sprofondare qualunque suo derivato – anche oggi, adesso, anche in Italia, oltre che nel Mondo (i nomi vengono alla mente da sé) – nel buio dell’assenza più completa di istruzione, sapere, analisi, elaborazione critica, slancio ideale, entusiasmo creativo. Gli ideali del fascismo sono contro-ideali. L’antimateria della cultura, che abbisogna della democrazia come dell’ossigeno per vivere e crescere.
Tentiamo un passo in avanti ulteriore nella condanna di quella intenzione genocidaria fascista che, purtroppo, trovò piena, paurosa, realizzazione a Srebrenica trent’anni fa. Il fascismo odia le donne. Capiamoci bene: ne promuove l’immagine, le rende protagoniste, come che sia, del trittico “Dio, Patria e Famiglia”, ma è un protagonismo cosificante, oggettuale, negatore di qualunque trasformazione culturale che sia promossa e teorizzata dalle donne. Dalle singole donne, con nome e cognome.
Quante furono le amanti di Mussolini?
Qualcuno/a ha mai sentito parlare di Ida Dalser? E di Magherita Sarfatti? Si cerchino pure notizie su di loro in rete.
Le donne non furono trucidate a Srebrenica perché – fa orrore e ribrezzo anche solo doverlo annotare – ritenute “indegne” di essere considerate nemiche da sterminare. Le donne, semplicemente, non esistono per il fascismo, se non come oggetto di piacere e fabbrica di vite umane da irregimentare negli eserciti. Per le donne – e subentrano ancora orrore e ribrezzo – gli stupri etnici furono, e sono oggi, il contenuto criminale delle campagne di guerra. I più piccoli, bambine e bambini, sono poi sterminati senza neppure essere presi in considerazione, danni collaterali inevitabili.
Questa spirale mortifera ci avvolge ancora adesso, in queste ore, in questi giorni. Ed è il motivo per cui si preferisce non fare memoria di Srebrenica.
Ma noi lo diciamo a voce alta: memorija mora preživjeti. MMP. “La memoria deve sopravvivere”.
Srebrenica ci ammonisce per sempre.
Buona domenica.
Memoriale del massacro di Srebrenica - foto tratta da commons.wikimedia.org