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Giulia, Sancia, Oscar Romero e la giosefologia

Presunto ritratto di Sancia d’Aragona raffigurato nella Nascita di Maria (1486-1490) di Domenico Ghirlandaio, Firenze, Basilica di Santa Maria Novella - immagine tratta da commons.wikimedia.org

di Stefano Sodaro


Donna con unicorno (possibile ritratto di Giulia Farnese) - Raffaello, ca 1505, Roma Galleria Borghese - immagine tratta da commons.wikimedia.org

Cinquecento anni fa, come ieri, moriva Giulia Farnese, “la Bella”, amante ufficiale di Papa Alessandro VI.

Oggi, 44 anni fa, moriva a San Salvador l’Arcivescovo Oscar Arnulfo Romero, assassinato da una regia paramilitare e filogovernativa, di estrema destra dichiarata. E ci sono voluti 38 anni per vederlo canonizzato dalla Chiesa Cattolica quale Santo cui tributare gli onori degli altari.

Giulia Farnese, in pieno Rinascimento, aveva tessuto una serie di amicizie non ecclesiastiche, ma tutte femminili, che non si restringevano alle frequentazioni della potente Lucrezia Borgia, figlia del Papa, bensì videro protagonista anche un’altra donna, non molto conosciuta: Sancia d’Aragona, moglie di Goffredo Borgia – altro figlio, piuttosto imbelle, del Papa – e figlia del Re di Napoli Alfonso II. Del resto proprio Lucrezia fu data in moglie – giacché il consenso delle donne al tempo non incontrava la benché minima considerazione – ad un altro Alfonso, sempre figlio del menzionato monarca ma fratello, da lei prediletto, di Sancia. Un intrico, insomma, di alleanze matrimoniali, in cui compare non solo il trionfo solenne del patriarcato ma anche del “fratriarcato”, secondo un’espressione assai azzeccata tratta dal recente volume intitolato «Smaschilizzare la Chiesa». Confronto critico sui “principi” di H.U. von Balthasar, di Linda Pocher, Luca Castiglioni e Lucia Vantini, edito da San Paolo ed uscito poche settimane fa.

L’appellativo di Sponsa Christi affibbiato a “La Bella” Farnese è inquietante, se si considera poi – lateralmente, ma non senza un aumento di inquietudine – che è il vescovo a ricevere tutt’oggi, nella sua liturgia di ordinazione, un anello nuziale, in quanto “sposo” della Chiesa locale, la diocesi, cui viene inviato (come accadde un anno fa esatto nella Cattedrale di Cremona per il nuovo vescovo di Trieste, mons. Enrico Trevisi) e nuziali sono gli anelli di monache e vergini consacrate. Ciò che, senza dubbio, non riguardava affatto la nostra Sponsa, né vescova, né monaca, né vergine consacrata.

Forse, registrano alcuni autori – ed alcune autrici -, Sancia fu più bella della Bella e, pare, attirò anche lei le attenzioni, non prive di morbosità, di Papa Alessandro, grande amatore, che addirittura ordì un apparato di denunce diffamatorie sulla condotta riprovevole della bramata Principessa al solo fine di poterla costringere a raggiungerlo (con il marito, certo, ma era suo figlio) a Roma. Suocero invaghito di nuora. Ma suocero Papa. Altri tempi.

Paolo VI e Oscar Romero - foto tratta da commons.wikimedia.org

Oggi brulicano le discussioni, i dibattiti, le polemiche, le diatribe, i confronti su presunti ruoli paterni e materni, ben distinti e disciplinati.

Il vescovo, appunto, è un padre, non una madre. E le amanti storiche sono madri solo per evenienza biologica, non altrimenti evitabile da parte dei padri amanti, ecclesiastici o laici, poco interessati alla cosa ed invero comunque disponibili, almeno per quanto riguarda i nostri personaggi, a farsene “carico”, come si trattasse, per appunto, di soma da trainare. Dunque, in fondo, adempienti al mandato paterno, bravi o cattivi che fossero. L’etica non c’entra, importante – lo si annotava – è il ruolo.

Dentro il quadro di stretto riferimento teologico, prescindendo dal dogma trinitario – diversamente non ne usciamo più -, la madre per eccellenza è la Vergine Maria, sbalorditivamente allo stesso tempo donna sposata, donna illibata e generatrice di Dio nella concretezza di un parto, ed il padre per eccellenza è Giuseppe, ritratto come anziano sorvegliante, con cui contrasse valido matrimonio, ma da cui, si insegna ed ammonisce, non ebbe alcun figlio e meno che mai figlia.

Solo ipotizzare che Maria possa chiamarsi, per dire, “Mario”, o che Giuseppe possa essere una “Josephine” mette orrore in un assetto composto, devoto e, diciamolo, bempensante. di riferimento religioso. Nessuna deriva queer è ammissibile.

San Giuseppe e Cristo bambino - gruppo scultoreo attribuito a Nicolaas van der Veken, XVII secolo, Machelen (Belgio), Museo Metropolitano d’Arte - immagine tratta da commons.wikimedia.org 

E tuttavia, se non si esce dalla maglia di ferro di ruoli indistruttibili dopo più di un secolo e mezzo di femminismo, poche sono le speranze di approdare ad un futuro diverso rispetto a violenza, potere, forza, schiacciamento di chi sia più debole ed indifeso, primato della sopraffazione rispetto alla cura ed alla prossimità.

La paternità di Giuseppe fu molto materna – se dobbiamo proprio inseguire gli schemi inveterati – e la maternità di Maria fu molto paterna. Potremmo anche specificare: paternità molto femminile e maternità molto maschile.

Come sorta di sottoinsieme del più ampio perimetro teologico, esiste una sconosciutissima disciplina, teologica appunto, che si chiama “giosefologia” e che, pochissimo elaborata, dovrebbe investigare ed approfondire proprio la figura di Giuseppe di Nazaret. Perché – ma lo si può dire soltanto sottovoce – le cose non tornano. Nei piani di Dio il Magnificat è canto di donna ed il silenzio assoluto prerogativa del suo uomo.

Il coraggio del vescovo Romero è del tutto sovrapponibile, in effetti, al coraggio di Giuseppe che sfida Erode e si preoccupa di salvare una donna ed il suo bambino. Romero molto più madre che padre, per parafrasare un po’ il linguaggio di Leonardo Boff.

Che cosa accadde o era già accaduto di Giuseppe nei giorni di Pesach di duemila anni fa? Non lo sappiamo. Non ne sappiamo davvero nulla di nulla.

Ma forse molto maschili sono anche le donne di cinquecento anni fa, che nel bel mezzo di guerre rigorosamente decise e condotte da maschi e di passioni erotiche decise, così come i matrimoni, sempre da soli maschi, cercarono di sabotare, con i mezzi e le sensibilità loro possibili al tempo, quel patriarcato e fratriarcato che ancora ipotecano la nostra cultura e società.

Buona Domenica delle Palme.