AD-DIO ad un’amica

di Paola Franchina

L’epopea di Gilgamesh è uno dei più straordinari capolavori letterari che l’umanità ci abbia consegnato.

Questa raccolta, appartenente alla cultura mesopotamica, narra delle vicende di Gilgamesh, re dispotico della città di Uruk, e delle sue avventure.

In questo racconto senza tempo è impossibile non lasciarsi coinvolgere dal dolore e dalla rabbia vissuti dal protagonista dinnanzi alla morte dell’amico Enkidu, compagno fedele di mille peripezie.

Nei versetti sotto riportati, prende voce il grido potente del protagonista. A testimonianza del suo dolore sono chiamati i giovani e gli anziani.

Il merisma intende coinvolgere l’intera umanità, nessuno può estraniarsi, la sofferenza della morte tocca tutti.

Ascoltatemi, o giovani uomini, ascoltatemi!

Ascoltatemi, o anziani di Uruk, ascoltatemi!

Io piangerò per Enkidu, lamico mio,

emetterò amari lamenti come una lamentatrice.


Lascia del mio fianco, larma del mio braccio,

la spada della mia guaina, lo scudo del mio petto,

i miei vestiti festivi, la mia cintura regale,

uno spirito cattivo è venuto e me li ha portati via.

Amico mio, mulo imbizzarrito, asino selvatico

delle montagne, leopardo della steppa,

Enkidu, amico mio, mulo imbizzarrito, asino selvatico

delle montagne, leopardo della steppa,

noi, dopo esserci incontrati, abbiamo scalato assieme la montagna,

abbiamo catturato il Toro Celeste e lo abbiamo ucciso,

abbiamo abbattuto Khubaba, leroe della Foresta dei Cedri,

ed ora qual è il sonno che si è impadronito di te?


La morte di una persona cara non può lasciare indifferenti. Il vangelo di Giovanni racconta che persino Gesù, dinnanzi alla morte dell’amico Lazzaro, fremette nello spirito, embrimáomai, espressione che rimanda allo sbuffare di un cavallo imbizzarrito.

Le parole di Gilgamesh portano alla mente e al cuore immagini di volti e ricordi di storie che non possono essere lasciati andare.

Il mio Enkidu aveva un nome: Joshepine.

I nostri itinerari personali si sono incrociati nella portineria della Facoltà Teologica di Milano, dove la piccola Jo, così la chiamavo, lavorava.

Ogni mattina, al mio buongiorno festoso, faceva eco il suo: «buongiorno il cazzo».

Poco convenzionale per una Facoltà di Teologia, eppure, nessuno come lei sapeva incoraggiare e legittimare le persone ad essere loro stesse.

Jo Jo non aveva certo letto Solo l’amore è credibile di Balthasar e neppure Il corso fondamentale sulla fede di Rahner, eppur sapeva amare.

Ancora oggi risuona in me un verso del Le passanti di De Andrè, oggetto di una delle nostre ultime telefonate: «non c’era tempo e valeva la pena di perderci un secolo in più».

Il dolore per la perdita di un amico non può cadere nell’oblio, ma rivendica giustizia al cospetto di Dio.

La piccola Jo, prima di morire, aveva avuto l’ardire di chiedere al prete: «Questa è l’ultima volta in cui ci vediamo?!».

In questa vita sì, ma ci rivedremo tra le braccia del Padre, dove sono sicura che, nella portineria celeste, mi accoglierai con un tuo: “Buongiorno il cazzo”.