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Architettura del Credo della Messa in si minore BWV 232 di J.S. Bach- immagine tratta da commons.wikimedia.org




Credo in un solo Dio

di Dario Culot

Credo in Dio significa dare per scontato che Dio esiste, e anche se il punto non è affatto scontato[1] oggi lo darò per presupposto. Perciò, quando dico “Credo in un solo Dio” intendo un affidarsi a quest’unico Dio, un accogliere la Verità che emerge dall’esperienza, un tendere a Lui perché ci affascina. Non significa di certo ‘Credo nella dottrina su Dio che mi è stata insegnata al catechismo’[2]. Invece la maggior parte della gente, quando recita il Credo, si riferisce proprio alla dottrina[3] e ritiene che recitandolo spesso possa imprimere meglio nella propria testa “le verità della fede”[4]. Questo perché è convinta che credere significa ritenere per vero, e non affidarsi.

Don Lorenzo Milani, in una delle sue lettere, scriveva: “Se dicessi che credo in Dio direi troppo poco, perché gli voglio bene. E capirai che voler bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza”.

Ma a quale Dio dovremmo credere e voler bene? Stando al Credo, noi dovremmo credere in un:

- Dio Padre,

- onnipotente,

- creatore del cielo e della terra e di tutte le cose visibili e invisibili[5].

Come vedete, si rileva subito che nel Credo non si parla affatto di un Dio-Amore, su cui oggi si insiste molto. Allora, se mi domandassero se credo in Dio, non avendo la fede di don Milani, risponderei subito: “cosa intendi per Dio?” Ovvero, qual è il Dio in cui dici di credere? Aggiungo che, come ha detto papa Benedetto XVI, quando pensiamo a Dio non siamo davanti alla realtà in sé, ma alla realtà in quanto oggetto del nostro pensiero[6]. Insomma, quando pensiamo che stiamo parlando del trascendente (perché Dio non fa parte dell’immanenza), in realtà non usciamo dall’immanente[7]. Dovremmo pertanto abituarci all’idea che Dio non corrisponde mai a quanto recitato nel Credo o spiegato in dottrine o dogmi modellati con parole umane. Nessuna dottrina umana capterà mai l’essenza di Dio[8].

Detto questo, ecco che è indispensabile chiarire per prima cosa a quale Dio ci si affida, perché lo stesso cristianesimo ci ha fin dall’inizio prospettato due immagini di Dio talmente diverse da essere incompatibili[9] fra di loro: il Dio delle lettere di Paolo e il Dio dei vangeli di Gesù. Infatti, il punto centrale nella teologia di Paolo è la fede che lotta e vince contro il peccato che offende Dio; il punto centrale nel messaggio di Gesù[10] è la fede che lotta e vince contro la sofferenza che fa male all’essere umano. Per questo, la teologia di Paolo mira ad assicurare la vita futura in cielo, mentre il messaggio di Gesù cerca e assicura la vita attuale sulla terra. Ecco perché ciò che caratterizza la teologia di Paolo è la religione (sottomissione al sacro), mentre ciò che caratterizza il messaggio di Gesù è il Vangelo (libertà restando nell’ambito del profano, necessità di conversione e di operare per accelerare l’imminente arrivo del regno di Dio qui, sulla terra)[11].

Lo stesso Gesù aveva poi fatto intendere che non esiste l’ateo come lo intendiamo noi, perché ognuno vive secondo il dio in cui crede. Ad esempio, chi crede in mammona, nel denaro, sarà probabilmente incline alla corruzione, o all’avarizia; comunque vive avendo personificato il denaro come fosse un dio (Mt 6, 24; Lc 16, 13), e il denaro diventa la sua stessa identità[12]. Quindi non è ateo chi dice fermamente di non credere che Dio esista. La vera domanda da fargli è: «Qual è il dio del tuo mondo? Qual è la cosa che, nella tua vita, tu poni a principio direttore e divinizzi?». In questo caso, anche chi si dichiara ateo non riesce più a sbarazzarsi tanto facilmente della domanda con una semplice negazione. Inoltre, non è del tutto razionale dire: “Non esiste alcun Dio,” perché per poter dire questo ci sarebbe bisogno di avere una conoscenza assoluta dell’intero universo, dall’inizio alla fine, cosa che ovviamente non hanno neanche gli scienziati[13]. La verità dell’ateismo obbliga l’ateo a non divinizzare neanche l’ateismo; ma se non deve divinizzare niente, tanto meno sé stesso e la sua opinione, deve necessariamente accettare di non avere l’ultima parola.

Soprattutto, però, possiamo ora capire che quando il cosiddetto “giovane ricco” (del Vangelo) si è reso conto che veramente doveva dare tutto ai poveri e restare senza niente, non è stato in grado di superare l’abisso d’insicurezza verso il quale si vedeva spinto. L’osservanza dei comandamenti della legge di Dio aveva riempito e soddisfatto la sua capacità religiosa. E proprio la fedele osservanza della religione è stata l’impedimento che ha reso impossibile a quell’uomo di diventare cristiano. Se i suoi desideri e le sue ambizioni erano soddisfatti dal possesso di denaro (Mc 10, 17-31; Mt 19, 16-30; Lc 18, 18-30), in quell’uomo non c’era posto per Gesù e il suo Vangelo[14]. Ma se le cose stanno così, chi di noi ha il coraggio di dirsi seguace di Gesù? Spaventa pure noi una chiamata così dura alla sequela, e facilmente anche noi – come il giovane ricco, ci ritiriamo dolenti e rattristati.

Ma torniamo a Paolo, fariseo (At 23, 6; Fil 3, 5) zelante fino al fanatismo (Gal 1, 14) e quindi inizialmente persecutore di cristiani (At 8, 1): è indubbio che dopo la folgorazione sulla via di Damasco ha continuato a credere al Dio in cui credevano tutti i farisei e i suoi conterranei: “il Dio dei nostri Padri” (At 22, 14), e quindi il Dio biblico che preferisce inebriarsi dell’odore del sangue della carne dei sacrifici di Abele piuttosto che delle primizie vegetali offertegli da Caino (Gn 4, 2-5)[15]; il Dio di Abramo, quel Dio che aveva fatto determinate promesse ad Abramo (Gal 3, 16-21: Rm 4, 2-20), ma prima aveva anche chiesto che Abramo gli sacrificasse il proprio figlio Isacco (Gn 22, 2). Peggio se leggiamo Isaia (Is 53, 10): viene fuori l’immagine di un Dio al quale è piaciuto prostrare con dolori il suo servo[16]. Ecco perché Paolo poteva vedere come la cosa più naturale del mondo, perfino come una cosa del tutto necessaria, che Dio avesse bisogno del “sacrificio” e dell’“espiazione” del Crocifisso per redimere l’uomo dal peccato[17].

Sappiamo che Paolo ha ignorato il Gesù terreno (2Cor 5, 16) e anche i vangeli – per l’ovvio motivo che non erano stati ancora scritti quando lui è morto - e non essendosi neanche interessato della vita terrena di Gesù ha conseguentemente ignorato i motivi che, sempre stando ai vangeli, erano stati addotti dalle autorità religiose e politiche per condannare e giustiziare Gesù. Ha interpretato il fatto della crocifissione in modo da renderla accettabile nella sua società (visto che per gli ebrei chi finiva in croce era un maledetto da Dio e per i romani era un terrorista che minava le fondamenta dello Stato, sì che un sovversivo giustiziato sulla croce mai avrebbe potuto essere presentato come Dio, e nessuno l’avrebbe mai potuto ragionevolmente seguire[18]) elaborando una spiegazione religiosa basata sulle antiche pratiche del sacrificio e dell’espiazione, ben note agli ebrei, per placare Dio offeso dai nostri peccati[19]. Ecco allora la convinzione di Paolo che Cristo “morì per noi peccatori” (Rm 5, 8), così che quella morte è stata un “sacrificio” di espiazione che ci ha redento dai nostri peccati (Rm 3, 24-25)[20]. Ecco che “senza effusione di sangue non vi è remissione” (Eb 9, 22). Ecco allora l’immagine drammatica, introitata da molti cristiani, di un Dio che minaccia, impaurisce, punisce; di un Dio che se ha chiesto perfino al figlio un sacrificio tremendo sulla croce, come minimo getta pesanti croci anche sulle nostre spalle; e se anche Gesù ha dovuto sottomettersi e obbedire, a maggior ragione noi dobbiamo sottometterci e obbedire a Dio e in primo luogo al magistero che qui sulla terra lo rappresenta[21].

Ma stando ai vangeli, Gesù non ha mai insegnato niente di tutto questo; ci ha dato un’immagine totalmente diversa di Dio: se Dio è amore, se Dio è vita, possiamo credere a certi suoi nomi, ma dobbiamo dimenticarne altri (ad es. Dio non è un giudice inflessibile, non vuole sacrifici: Is 1,11-17; Mt 9, 13; 12, 7). Gesù ci ha fornito l’immagine di un Dio che si comprende a partire dall’amore, dalla bontà e dalla misericordia. Infatti così emerge chiaramente nella parabola del figliol prodigo (Lc 15, 11-32), dove il padre accoglie, perdona e fa festa col figlio ritrovato, senza chiedergli nessun sacrificio, nessuna giustificazione, nessuna penitenza, e senza neanche rimproverarlo. Il Dio di Gesù è quello che “fa sorgere il sole sui cattivi come sui buoni, che fa piovere sui giusti come sugli ingiusti” (Mt 5, 45), per cui non ha senso l’affermazione di Paolo secondo cui Gesù è morto per gli uomini ingiusti (Rom 5, 6), per gli empi peccatori (e siamo tutti peccatori). Il Dio di Gesù esclude che l’uomo vincente sia colui che è capace di esercitare il maggior potere per il proprio tornaconto. L’uomo vincente nel regno di Dio è colui che non si serve degli altri, ma serve gli altri (Mc 10, 35-45), dove servire significa mettere l’essere umano sempre al primo posto; significa offrire agli altri che incontriamo ciò che noi siamo; perciò vincente non è chi arriva per primo e più in alto, ma chi rende più felice o almeno più serena la vita di qualcun altro, perché solo così, con il nostro servizio, possiamo cercare di mettere in pratica le parole del Vangelo. Come aveva detto il metropolita di Bari Magrassi Mariano (in un commento a Mc 10, 35-45) la vita cristiana è animata da un amore per gli altri che non si arrende davanti a nessun sacrificio, se solo crediamo al vangelo.

Al Dio di Gesù poco interessa se abbiamo peccato[22] o meno, perché non è tanto importante ciò che facciamo, ma ciò che diventiamo (padroni egoisti o uomini al servizio degli altri?). Ognuno ha la sua propria identità che deve progressivamente costruire[23]. L’importante è sviluppare le proprie caratteristiche, e crescere spiritualmente nel tempo. E il tempo non è solo lo spazio del nostro operare, ma è l’ambito del nostro divenire. In passato era l’ambito in cui si manifestava la nostra realtà, un impegno morale ad operare secondo quello che già eravamo. Oggi sappiamo che dobbiamo operare per diventare quello che ancora non siamo,[24] sfruttando quel costante flusso di vita che, frammento dopo frammento, ci permette di migliorare e crescere. Dio, come la pioggia che cade su tutti, buoni e cattivi, offre a tutti sempre nuove possibilità senza imporre nulla a nessuno. Ma per crescere occorre lasciarsi investire da questa forza della vita e consentire che in noi si esprima: per questo Gesù stesso aveva detto “non faccio nulla da me stesso … ma è il Padre che compie in me le sue opere” (Gv 8, 28 e 14, 10). In altre parole, non siamo noi a volere il bene ma è il Bene, che preesiste esternamente a noi, che poi in noi vuole esprimersi: amore è perciò l’accoglienza dell’azione di Dio che in noi fiorisce come amore. E Gesù ha reso credibile questa immagine di Padre misericordioso e amorevole avendo lui stesso vissuto per primo secondo questa sua definizione di Dio.

Come invece spiega l’Apocalisse, se falliamo in questa crescita, la morte fisica può coincidere con la morte seconda,[25] nel senso che si esaurisce definitivamente il tentativo che la vita – offerta da Dio,- ha fatto in ciascuno di noi per indirizzarci a vivere in un modo diverso, diventando sempre più umani e per suscitare un’immagine nuova e definitiva di Dio in noi[26].

Non c’è dubbio che, nel cristianesimo e nella Chiesa, il Dio di Paolo è stato (e continua ad essere) più presente di quello di Gesù; ma Paolo, interpretando la morte di Gesù come il sacrificio espiatorio per eccellenza ha confuso il sacrificio esistenziale di Gesù col sacrificio rituale del Redentore[27]. Paolo non ha capito, non avendo conosciuto il Gesù terreno, che Gesù ha operato uno stacco netto dall’ebraismo, con i suoi riti e i suoi sacrifici. L’unico sacrificio che allora si può ravvisare in Gesù non è un sacrificio rituale ma esistenziale[28]. Il sacrificio rituale è quello al quale siamo (purtroppo) ancora abituati: spessissimo i sacramenti e la stessa messa sono solo cerimonia e ricerca della solennità, un ripetere di riti che si considerano efficaci per ottenere la grazia di Dio. Il sacrificio esistenziale è, all’opposto, la negazione del rituale, ed è mettere tutto nella propria vita quotidiana.

Allora possiamo anche continuare a dire che l’azione di Gesù è stata un sacrificio, ma solo nel senso che ha compiuto un gesto sacro, perché ha reso presente Dio con tutta la sua vita quando ha parlato, quando ha perdonato, quando è morto in croce[29]. Basta pensare – come già detto in altra occasione - che Gesù ha chiamato amico il suo traditore Giuda, ha regalato salvezza all’ultimo secondo della sua vita al ladrone inchiodato accanto a lui, ha abbracciato Pietro sulle rive del lago facendolo risorgere con lui…tutto sempre con amore, e gratuitamente. Se ne deduce che così è Dio, che Dio non si merita, si accoglie[30]. Noi invece siamo abituati a pensare che solo la morte in croce è stata il sacrificio di Gesù, quando invece tutta la sua vita è stata un aprirsi all’azione di Dio, dedizione a Dio e rivelazione di Dio[31].

Ma, come ha avvertito più volte il prof. Castillo, dobbiamo sfatare l’idea che il Dio di Paolo sia crudele, duro ed esigente, mentre il Dio di Gesù sarebbe un bonaccione sempre pronto al perdono, per cui possiamo anche prenderlo sottogamba. In realtà, per soddisfare il Dio di Paolo basta sostanzialmente seguire il culto. Il suo Dio si accontenta quando vede che seguiamo i riti, per cui ci chiede di ripetere il “sacrificio rituale” della messa che rievoca ed attualizza il sacrificio di Cristo sulla croce. Non è proprio in base a quest’idea che molti vanno a messa di domenica, e poi si sentono perfettamente a posto con Dio? La messa festiva e i sacramenti non sono il momento in cui troviamo la sicurezza delle abitudini? L’aver seguito il rito lascia la gente con la coscienza tranquilla. Se mi sono confessato e ho fatto la comunione sono a posto con Dio, e poi la mia vita rimane esattamente quella di prima.

Invece, stando a Gesù, non c’è un tempo per il rito e un tempo per gli altri. Tant’è vero che il Dio di Gesù non s’interessa affatto dei riti. Gesù non ha dato qualcosa a Dio, ma ha dato agli uomini qualcosa da parte di Dio, comunicando quella forza di vita amando[32]. Anche noi dovremmo diventare così, per cui ci viene chiesto di amare tutti, sette giorni su sette; di rispettare la dignità di tutti, sì che dobbiamo faticosamente lavorare sette giorni su sette per arrivare a una società più giusta, più uguale (magari a quel punto anche più felice); di perdonare sempre non solo chi ci vuol bene (e già questo è abbastanza difficile) ma perfino chi ci vuol male. C’è il male nel mondo? Certo, ma solo l’amore è in grado di redimerlo, introducendo positività. Solo amando trasmettiamo vita, come fa la mamma col suo bimbo appena nato[33]. L’amore non si tira indietro di fronte ai difetti e ai limiti che incontriamo nella vita, e l’azione di Dio, che in noi diventa amore, diventa dono da consegnare a tutti gli altri, che vanno considerati come fratelli. Per tentar di far questo dobbiamo alimentarci di continuo[34] del dono che Dio ci offre incessantemente nel tempo. Non si tratta poi di imitare l’amore di Dio (sarebbe assurdo pensar di poter copiare il divino), ma piuttosto di esprimerlo, di renderlo concreto sulla terra perché l’amore di Dio sulla terra non esiste se non diventa amore di persona umana. Come ha scritto Giovanni, è impossibile pretendere di amare Dio che non si vede e non amare il proprio fratello che si vede, perché amare Dio non vuol dire volere il bene di Dio, ma accogliere il suo amore, così da poterlo poi esprimere facendolo diventare amore per i fratelli (con tutti i limiti che come uomini abbiamo); perciò solo chi ama il proprio fratello accoglie in realtà l’amore di Dio (1Gv 4, 19-21). E quando scopriamo che siamo capaci di gesti gratuiti e altruistici che prima non riuscivamo a fare, vuol dire che abbiamo fatto esperienza di Dio[35].

Alla luce di tutto questo si capisce facilmente perché anche noi preferiamo il Dio di Paolo: siamo ben contenti di seguire l’insegnamento del magistero, perché seguire il Dio di Gesù richiede molta, ma molta più fatica, per cui davanti alle parole di Gesù che ci presenta un Dio molto più difficile da seguire, anche noi preferiamo chiudere la bocca e tapparci le orecchie (Mc 9, 34). Meglio non approfondire, meglio lasciar perdere. E così diventiamo pure noi sordomuti, al pari dei personaggi raccontati proprio da Marco.

Concludendo, quando a messa pronunciamo le prime parole del Credo, ma appena fuori della chiesa cerchiamo subito di evitare lo straniero dalle fattezze diverse dalle nostre che si sta avvicinando a noi, dovremmo porci la domanda: ma a quale Dio crediamo? Già questa domanda, insita nelle prime parole del Credo, dovrebbe metterci in seria difficoltà. Dubito che la maggior parte di noi si ponga questa domanda quando recita il simbolo della cristianità.



NOTE


[1] Cfr. l’articolo Quale prova certa mi dà dell’esistenza di Dio? nell’ultimo numero di ottobre di questo giornale.

[2] Molari, C., Il cammino spirituale del cristiano, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2020, 383.

[3] Catechismo essenziale della Chiesa cattolica di san Pio X: Chi è Dio? Dio è l’Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra (art.2).

[4] “Gli articoli del Credo contengono tutto quello che principalmente si ha da credere di Dio, di Gesù Cristo e della Chiesa sua sposa” (art.20 Catechismo maggiore di san Pio X). “È cosa utilissima recitare spesso il Credo per imprimere sempre più nel cuore le verità di fede” (art.21 Catechismo maggiore di san Pio X).

[5] Fede è parola che si collega a fiducia, fidarsi, ma anche a credere. Mi fido perché credo a quello che mi hai detto. Skred, parola di origine indoeuropea è la ‘nonna’ della parola credere e in origine indicava una potenza superiore sì che mettersi nella mani di quella potenza significava crederle.

[6] Ratzinger J., La teologia morale oggi, conferenza per la Diocesi di Civitavecchia, 7 giugno 1986, pubblicata in più puntate in Avvenire, 2005.

[7] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 184.

[8] Spong J.S., Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo, Massari, Bolsena, (VT), 2010, 108. Cfr. gli articoli sulla Trinità pubblicati ne Il giornale di Rodafà, a cominciare dal n.507, in https://sites.google.com/site/archivionumeri500rodafa/numero-507---2-giugno-2019 e segg.

[9] Correttamente il filosofo Nietzsche aveva concluso che il dio creato da Paolo - contrapposto nettamente al Dio-amore dei vangeli e a un Gesù ammazzato dalle persone piissime di allora, - è la negazione di Dio: deus, qualem Paulus creavit, dei negatio (Nietzsche F., L’Anticristo, ed. Adelphi, Milano, 1987,66). Avendo difficoltà a confutare logicamente l'obiezione seria di Nietzsche, il magistero lo ha colpito con l'anatema, mettendo i suoi libri all'Indice e impedendo ai fedeli di leggerlo.

[10] Non parlo di teologia di Gesù, perché Gesù è un profeta non un teologo posto che non espone nulla circa la realtà e la natura divina; quando Gesù parla di Dio spiega come si comporta il Padre, non chi è il Padre. Paolo, invece, è riuscito a dare una griglia sistematica al cristianesimo, subito, sul suo nascere, quando di solito questo si riesce a fare solo in retrospettiva, a distanza di tempo, dopo aver a lungo masticato e ben digerito la materia.

[11] Castillo J.M., El Evangelio marginado, Descléè De Brouwer, Bilbao (E), 2019, 36.

[12] Pensiamo al racconto del giovane ricco angosciato (Mc 10, 17ss.): non ha nome, proprio perché la ricchezza è la sua identità.

[13] L'astronoma Margherita Hack, che si proclamava atea, diceva di sapere che la scienza e la ragione non sono in grado di dimostrare scientificamente con certezza né che Dio esiste, né che non esiste (Di Piazza P., Compagni di strada, ed. Laterza, Roma-Bari, 2014, 8). E Giorgio Parisi, recente premio Nobel per la fisica, ha detto che “a volte si pensa che gli scienziati siano più esperti di altri sull’esistenza di Dio, ma io non credo che noi abbiamo questa esperienza” (intervista in “Famiglia Cristiana, n.42/2021, 22).

In altre parole, il mistero si può rifiutare o accogliere, ma senza motivazioni razionali, perché non esistono risposte decisive né per l’una (affermativa), né per l’altra (negativa).

[14] Così crudamente Castillo J.M., El Evangelio marginado, Descléè De Brouwer, Bilbao (E), 2019, 94. Temo che l’osservazione sia corretta e spiazzi noi tutti, perché noi tutti viviamo nel benessere. Per i tempi di allora, siamo tutti ricchi. Infatti il giornalista Pearce Fred, il quale a lungo si è occupato di distruzione ambientali e ingiustizie nel mondo, ha concluso che ogni “casalinga occidentale possiede una tale varietà di cibo, vestiti ed elettrodomestici che al tempo dei romani, per riprodurre lo stesso stile di vita, sarebbero stati necessari 6 mila schiavi. “Oggi questi schiavi sono sparsi per il mondo a coltivare per noi, costruire macchinari e cucire i nostri vestiti. La nostra impronta è gigantesca, ma non ne sappiamo nulla” (Pearce F., Peccati verdi, “Espresso,” n. 37/2009, 157).

[15] Dunque ci viene fornita dalla Genesi un'immagine di questo Elohin Yhwh non molto diversa da quella del sanguinario Elohim Moloch: Caino sacrifica i frutti del campo, Abele fa sacrifici di sangue, le primizie del gregge, e Yhwh gradisce solo il sacrificio di Abele, per cui si rallegra solo del sangue (Bloch E., Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano, 1971, 122s.), come il Moloch cui si bruciavano in sacrificio i propri figli (Ger 7, 29-32).

[16] In altre edizioni più vecchie, si legge che il Signore ha voluto castigarlo e lo ha fatto soffrire (ad es. La Bibbia interconfessionale, LDC Leumann, Torino, 2000).

[17] Castillo J.M., El Evangelio marginado, Descléè De Brouwer, Bilbao (E), 2019, 25.

[18] Del resto, chi di noi oggi seguirebbe un condannato delle Brigate rosse o dell’Isis, anche se qualcuno dicesse che in realtà era stato mandato da Dio? Neanche il cristianesimo poteva all’inizio pretendere di insegnare qualcosa che andava contro natura: era cioè assurdo pensar di convincere la gente che, alla fin fine, la vittoria sta nel fallimento di un condannato a morte sulla croce, o che nella morte si trova la vita.

[19] E Dio, offeso dai peccati umani, arrivava fino a uccidere. Nella Torah c’è scritto di non uccidere (5° comandamento), eppure anche il fariseo Paolo uccideva per osservare la legge. In passato nessuno rilevava queste contraddizioni che oggi non passano inosservate.

[20] Castillo J.M., El Evangelio marginado, Descléè De Brouwer, Bilbao (E), 2019, 24.

[21] Purtroppo, ancora buona parte del magistero associa Dio al dolore, alla sofferenza, la penitenza. Ma questo è un Dio che non ha nulla a che vedere con il Padre di Gesù. Come diceva Alberto Maggi, se certi teologi vengono privati della sofferenza, del dolore, della penitenza si sentono in cassa integrazione, non sanno più cosa scrivere, perché per loro l’immagine di Dio è legata a questa espressione.

[22] Perché il peccato semplicemente dissolve la nostra energia interiore e la disperde in direzioni negative, anziché positive (Molari C., Il cammino spirituale del cristiano, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2020, 445). Vedi anche nota 23.

[23] Il rabbino Sussja esclamò, in punto di morte: «Nel mondo futuro non mi si chiederà “Perché non sei stato Mosè?”; mi si chiederà invece: “Perché non sei stato Sussja?”» (riportato in Buber M., Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Magnago (BI), 1990, 27s.).

[24] Molari C., Il cammino spirituale del cristiano, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2020, 422s., 432, 435.

[25] Se uno non ha scelto su questa terra di aderire al progetto di vita del Padre, se uno non è entrato nella dimensione del servizio verso chi ha od è meno di noi, nella dimensione del condividere, se uno ha soffocato in sé ogni gesto di vita verso l’esterno, se non si è aperto all’altro, sopravviene la morte seconda, cioè l’annientamento totale; la morte non sarà cioè accompagnata dalla risurrezione. Ma c’è da dire in questo caso che la morte seconda, a poco a poco, aveva già preso la prevalenza nel corso della vita terrena di quell’individuo il quale, rinchiuso nel suo egoistico bozzolo, aveva vissuto imbucandosi in un vicolo cieco. Se in questa vita non c’è stata questa modalità di crescita interiore, quest’apertura verso gli altri, la morte biologica non trova niente in quell’uomo egoista; se invece l’uomo ha imparato a darsi, la morte biologica non intacca quella vita piena che si è costruita nel tempo (Culot D., E se Dio fosse contrario alla religione?, vol. I, Vertigo, Roma, 2014, 191).

[26] Molari C., Il cammino spirituale del cristiano, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2020, 427.

[27] Castillo J.M., El Evangelio marginado, Descléè De Brouwer, Bilbao (E), 2019, 25.

[28] Castillo J.M., La laicità del Vangelo, La Meridiana, Molfetta (BA), 2016, 36, 150.

[29] Molari C., Il cammino spirituale del cristiano, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2020, 510.

[30] Bonati G., Buon giorno, infinito, Romena accoglienza, Pratovecchio Stia (AR), 2021,106.

[31] Molari C., Il cammino spirituale del cristiano, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2020, 511.

[32] Ibidem.

[33] È interessante ricordare l’esperimento che fece Federico di Svevia: alcuni neonati vennero affidati a delle donne che dovevano dar loro da mangiare e bere, ma non dovevano assolutamente coccolarli, parlare con loro, amarli. In pochissimo tempo tutti questi bambini erano morti.

[34] Quest’accoglienza non è dunque limitata al momento dell’eucaristia. E se il peccato è semplicemente una diminuzione per l’uomo che gl’impedisce di conseguire la propria pienezza (Costituzione pastorale della Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes, n.13, del 7.12.1965), impedendogli di amare, solo il lavoro continuo che facciamo nel tempo accogliendo in noi la forza di vita consente di camminare sulla via di quella pienezza alla quale siamo chiamati (Molari C., Il cammino spirituale del cristiano, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2020, 444).

[35] Idem, 424-443.