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The Rabbi is in


Fra qui e Betlemme - 2

La nostra città brucia



di Miriam Camerini


(segue)

Quel che è successo in Israele fra novembre e oggi lo sappiamo tutti: Smotrich è ministro delle finanze, Ben Gvir ha portato la sua faccia accigliata dentro al Parlamento come ministro degli interni e nel frattempo - questo solo a me un po’ consola - la politica è ovunque: dal parrucchiere, per strada, al supermercato, ai concerti.

La riforma giuridica proposta dal governo Netanyahu viene discussa e approvata a tappe forzate mentre fuori le piazze rigurgitano di marce e manifestazioni contrarie, da Haifa a Beer Sheva, con centinaia di migliaia di dimostranti a Tel Aviv e a Gerusalemme.

Ciò che non cessa di stupirmi è la genuinità delle persone, giovani e anziane, che bloccano le strade e occupano le piazze, si riuniscono sera dopo sera e giorno dopo giorno davanti alla Knesset, il Parlamento, fuori dalla casa del Presidente Herzog - voce di mediazione finora inascoltata - e anche di fronte alla casa di Netanyahu, proprio a pochi metri da dove abito io, con tanto di transenne ovunque, strade sbarrate e copertoni bruciati.

Il fatto che il primo ministro non stia certo qui a lasciarsi disturbare dai fumi o dai rumorosi tamburi (ne ho uno anche io, portato da Istanbul, e viene con me a ogni marcia) e dalle trombette di plastica - bensì si goda pacifico la brezza marina dalla casa sul mare di Cesarea, un po’ un nuovo Erode - viene ripetuto in continuazione dalla mia parrucchiera, per esempio, e da altre e altri ammiratori della sua politica liberista, dagli entusiasti del capitalismo ruggente estimatori del premier carismatico che dovrebbe stare sotto processo e invece governa proprio per non andare ancora in galera.

A volte questi giovani e anziani religiosi e laici - sventolanti bandiere di ogni genere, israeliane, palestinesi, arcobaleno, rosse con tanto di falce&martello - mi ricordano certi germanisti compagni di università che avevo quando studiavo qui, di cui ammiravo la capacità di leggere Heinrich Heine come fossero suoi contemporanei e dire la propria opinione come se due secoli di critica letteraria non esistessero.

La disillusione italiana per la politica qui è lontana, le signore si accapigliano sotto casa discutendo la riforma giudiziaria e l’estensione delle colonie e io trovo in questo l’unica consolazione: l’indifferenza del cittadino comune qui non è contemplata e c’è invece, nell’approccio alla politica, qualche cosa di ingenuo, fiducioso e un po’ primordiale.

I cartelli, le canzoni, gli slogan e gli striscioni delle israeliane e degli israeliani sono i più vari: da quelli che esigono “Tre poteri e non uno di meno”, a quelli che avvertono i vari ministri che “Qui non siamo in Polonia né in Ungheria e neppure in Iran”, a quelli che semplicemente scandiscono “Vergogna!” Si passa rapidamente a problemi più antichi: “Basta con l’occupazione”, “Una Nazione che ne opprime un’altra non sarà mai libera”, fino al giovane: “Five, six, seven, eight: Israel apartheid State!”, passando per “Palestinian lives matter” e “L’occupazione è la vergogna più grande”, il clima è teso, violento e scontento, le persone sono stufe e però non mollano, anzi sono ogni giorno di più, nonostante la polizia a cavallo – che non si vedeva da anni – i fumogeni e lacrimogeni, i feriti e gli arrestati a Tel Aviv con la scusa della lotta all’anarchia e della sicurezza, che qui da sempre giustifica tutto, o quasi.

I cartelli che però più mi commuovono e sorprendono sono i due o tre scritti non in ebraico, bensì in yiddish, l’antica lingua germanica della diaspora ebraica centro-europea: una giovane attivista che conosco regge - davanti alla Knesset - questo cartello: "Demokratsye: alemen glaykh, funem yam bizn taykh”: “Democrazia, tutti uguali, dal mare (Mediterraneo) fino al fiume (Giordano)”. Così lo yiddish e l’est Europa tornano prepotenti nel nostro immaginario ribaltato quando, in seguito all’uccisione da parte di terroristi di due ventenni coloni ebrei nel West Bank, dozzine di loro compagni incendiano automobili, distruggono case, perpetrando un vero e proprio pogrom ai danni della popolazione del villaggio arabo di Hawara.

Un uomo arabo che non ha ancora 40 anni resta ucciso nella violenza: qualcuno gli ha sparato alla schiena, non si sa chi e non si saprà, ma intanto è morto un giovane padre. I cartelli a questo punto esplodono di citazioni dalla più struggente poesia yiddish di Mordechai Gebirtig, che – ucciso da un nazista nel ghetto di Cracovia – mai credo avrebbe immaginato un simile contesto per la sua “Unzer shtetl brennt: la nostra città brucia”.

Dopo duemila di anni di nostre città bruciate da altri, l’idea che siamo noi a bruciare città altrui è il mio peggiore incubo che diventa realtà.

La città forse brucia però certo non tace: le proteste sono tante e tali che - a pochi giorni da Pesach, la Pasqua ebraica che ricorda la liberazione e la redenzione del popolo ebraico dalla schiavitù egiziana - la riforma giudiziaria viene messa in pausa.

I giorni seguenti saranno quelli della conta dell’Omer, tradizionalmente un periodo di lutto e sobrietà, in cui non ci si tagliano i capelli e non si celebrano matrimoni, in ricordo di una pestilenza avvenuta a causa della mancanza di rispetto reciproco fra gli allievi di Rabbi Akiva, uno dei maggiori Maestri del Talmud, in seguito martire delle persecuzioni romane per aver continuato a insegnare Torah nonostante il divieto.

Possa questo periodo di riflessione e studio avvicinarci – passo passo – a un nuovo Sinai, rendendoci degni di ricevere anche quest’anno una Torah di giustizia e misericordia.


Le belle bandiere, Teatrino Franco e Franca Basaglia - Trieste, 2 ottobre 2022 - foto di Gianni Passante

Foto, qui, di Stefano Sodaro durante il Concerto Caffè Odessa tenutosi a Matera il 19 maggio 2022 e durante la rappresentazione Le Belle Bandiere, tenutasi al Castello di Casalgrande (RE) il 7 luglio 2022.

Foto di Stefano Sodaro, spettacolo Le Belle Bandiere, Trieste - 2 ottobre 2022