Tra Repole e Mancuso, Paolo Ricca e le ragazze del ‘95
di Stefano Sodaro
Paolo Ricca. anno 2011 - foto tratta da commons.wikimedia.org
La notizia della morte del teologo e pastore valdese Paolo Ricca, avvenuta lo scorso 14 agosto, ha increspato la quiete soporifera del dibattito teologico italiano che non è stata scalfita neppure dal dotto confronto ferragostano, a distanza, tra le parole dell’arcivescovo di Torino, già Presidente dell’ATI (Associazione Teologica Italiana), Roberto Repole ed il celebre autore Vito Mancuso. I termini del dibattito sono recuperabili qui. In sostanza il contenuto della querelle, di natura strettamente teologica, verte tutto sul concetto di salvezza e redenzione, che, per Repole, non può prescindere da Cristo, altrimenti decretandosi il suicidio dell’intera teologia cristiana (“extra Christum nulla salus”, dopo millenni di “extra Ecclesiam nulla salus”, convinzione superata solo con il Vaticano II), mentre per Mancuso un superamento ed un affrancamento dalla fede nel Cristo non solo risultano necessari ed evidenti nei fatti della vita quotidiana, ma anche auspicabili e financo doverosi, non si capisce bene, però, se in un contesto teologico o più decisamente filosofico.
Questo dibattito, tuttavia, rimane esclusivamente interno, bisogna riconoscerlo, al solo circolo cattolico, mentre la testimonianza del protestantesimo, anche italiano, segnala altri percorsi ed altre direzioni. Paolo Ricca è stato un maestro che, peraltro, ha portato le istanze del protestantesimo mondiale in Italia e, correlativamente, quelle del protestantesimo italiano, nella sua specifica e autoctona declinazione valdese, nell’agorà del protestantesimo mondiale, con umiltà, ma senza timori reverenziali.
Un tratto, tra gli infiniti suoi contributi che andrebbero, e andranno, ancora valorizzati e approfonditi, riguarda la fiducia nelle possibilità di riscatto del nostro tempo. Non credo di avere mai sentito dalla sua bocca, né letto nei suoi scritti, alcuna anche solo minima nostalgia passatista verso presunte meraviglie di ciò che fu. Appena uscito dalla rianimazione, pochi giorni purtroppo prima di lasciarci - racconta la figlia Laura in un post su Facebook -, aveva in mente il titolo per un suo nuovo libro. E non è facile incontrare ottantenni innamorati e innamorate del presente. Ma la constatazione si fa tristissima quando simile difficoltà riguarda pure quarantenni, e cinquantenni, e sessantenni. Tutti, e tutte, a piangere sui tempi andati, su ciò che fu (o che, magari, anche non fu ma si crede che fosse…). Il presente viene spento, il futuro neanche ipotizzato. Come se la morte abitasse ogni spazio di interrogazione attuale, contemporanea, verso il senso dell’esistenza, come se l’unico colore adatto a dipingere le nostre ore, le nostre giornate, sia il nero pece. Ci sono, invece, ottantenni che sono più giovani dei nostri giovani e adulti, e giovani, magari neppure trentenni, che sono più sapienti dei nostri ottantenni e quarantenni e cinquantenni e sessantenni.
Colpiscono – e più ci si pensa, più davvero colpiscono – l’intraprendenza e la lungimiranza delle giovani donne che oggi hanno ventinove anni, che sono nate nel 1995 e che progressivamente avanzano nella loro visibilità professionale, intellettuale, sociale, politica. Ne abbiamo già provato a scrivere domenica scorsa. Tra esse Paola Franchina, curatrice della nostra nuova rubrica Aprire spazi, che inizia con questo numero del nostro settimanale.
Il loro modo di vedere il mondo e il tempo differisce molto sia dalle attitudini adolescenziali, sia dalle compassate imperturbabilità (o dalle saccenti sdegnosità) adulte, sia dalle arcigne senili avversioni verso qualunque luce di gioia illumini la notte delle nostre giornate, spesso prive di felicità e speranza. Pure nei confronti delle nuove generazioni il teologo Paolo Ricca aveva grande fiducia. Una fiducia non soltanto “caratteriale”, ma proprio “teologica”, quale capacità, cioè, di mettere a fuoco ciò che davvero merita considerare e ritenere fondamentale. Al di là delle dogmatizzazioni (altro sono i dogmi) elaborate nei secoli e che ora diventano improponibili – basti, ad esempio, pensare al concetto, ed alla stessa parola, di “transustanziazione” -, importa infatti capire che cosa decida oggi, adesso, di una vita compiuta. Le ventinovenni odierne sono “teologhe esistenziali” - diciamo così, a proposito di un lessico, addirittura papale, che ha coniato il concetto di “periferie esistenziali” -, perché colgono in quale direzione proseguire dando concretezza al futuro.
Proviamo ad esprimere meglio.
Da una considerazione assolutamente periferica di quanto sentono, credono e vivono le nostre giovani ventinovenni, si sta muovendo, verso il centro, una visione teologica inedita, nuova e alternativa, dove anche le polarizzazioni indicate all’inizio - tra Repole e Mancuso - tramontano, per lasciare che spunti l’alba di una fede diversa. Essa chiede all’oggi come e cosa chiedere alla Tradizione e non il contrario. Ed è la gioia a fare la differenza.
Paolo Ricca è stato, senza dubbio, teologo della gioia. Una gioia “a caro prezzo”, per ricorrere al linguaggio di Bonhoeffer, di cui Ricca ha annunciato l’evangelica possibilità. E di questo siamo a lui debitori, infinitamente.
Una gioia che sa coniugare sogno e realtà, come avviene nel giorno di festa settimanale.
Davanti a noi c’è luce sì, anzi: oggi stesso. Luce che non acceca e soffoca, ma che accarezza e rischiara.
Come la luce della Trasfigurazione, di cui parla, sempre in questo numero del nostro settimanale, la teologa Emanuela Buccioni inaugurando la sua nuova rubrica Modo infinito, tempo presente.
Buona domenica.