Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano
La laicità dei martiri gesuiti di San Salvador, ovvero “The Rabbi is in UCA”
di Stefano Sodaro
No. “Our Rabbi” Miriam Camerini non è, questa domenica, presso l’Universidad Centroamericana “José Simeón Cañas” di San Salvador, capitale di El Salvador.
Ma andiamo per gradi.
16 novembre 1989, 33 anni fa, età convenzionale della morte di Qualcuno molto famoso.
A San Salvador, presso la citata università, quando ormai è notte (“Llegaron de noche”, https://es.wikipedia.org/wiki/Llegaron_de_noche), un gruppo di militari dell’esercito nazionale, salvadoregno appunto, massacra i padri gesuiti Ignacio Ellacuría, Ignacio Martín-Baró, Juan Ramón Moreno, Amando López, Segundo Montes, Joaquín López y López, e con loro anche la cuoca Elba Julia Ramos assieme alla figlia sedicenne Celina Ramos.
La notizia si diffuse anche in Italia. Speciale Tg1 subito in onda. Sconcerto, imbarazzo, molto più che incredulità. Negli italici anni Ottanta, a meno di due anni dall’inizio della Presidenza CEI del Card. Ruini per più di tre lustri, non era cosa mettere in luce un martirio di massa di esimi esponenti della vituperatissima teologia della liberazione, pressoché innominabile in qualunque parrocchia del cattolicissimo Stivale. Non era proprio il caso. E perché? Semplicemente perché gli autori – si sapeva benissimo chi fossero, fin da quel 16 novembre – non erano comunisti, anzi pensavano di aver messo a tacere i preti comunisti in nome di una specie di obbligo morale. “Li ammazziamo noi”, dal momento che nessuno fa nulla. Ragionamento che oggi, 33 anni dopo, ci fa rabbrividire di orrore, ma che al tempo si inseriva in una narrazione di un martirologio latinoamericano di cui era – non ufficialmente, ma effettivamente – vietata e condannata qualunque celebrazione. Ricordo benissimo il titolo di un articolo di una rivista missionaria italiana a proposito di chi combatteva i contras: “Ti ammazzo, indio, perché non sei comunista”. Il clima era questo.
E tuttavia era decisamente preferibile far passare l’idea che si fosse trattato di un delitto politico e per nulla al mondo “dottrinale”, ci sarebbe mancato altro. Ma la politica è sporca, dunque nessuna beatificazione e men che mai canonizzazione. Almeno fino all’avvento al soglio pontificio, il 13 marzo dell’anno 2013 di un tale gesuita argentino, ahi ahi, confratello dei massacrati. Ma è storia troppo recente.
E rimaniamo allora sul terreno politico, non su quello propriamente ecclesiale, ma aggiungiamoci l’aggettivo “culturale”.
La strage della UCA è stata una operazione di precisa, precisissima, politica culturale; un’opzione di ortopedia culturale di estrema destra, che voleva smascherare le presunte sembianze marxistoidi, guerrigliere, persino bombarole, di quei falsi preti. E gesuiti, sempre loro. Fin dall’epopea delle “Reducciones” paraguayane, sempre loro. E quel padre Rutilio Grande, gesuita pure lui, che con la sua morte, sempre a causa di omicidio premeditato, s’era permesso di convertire addirittura mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo della capitale, che doveva essere garanzia sicura di conservatorismo e tradizionalismo filogovernativa. Ecco cosa combinano i gesuiti!
Eravamo qui.
Benché la nostra (o “il nostro”? la domanda è ancora aperta…) Rabbi Miriam Camerini non sia quest’oggi presso il prato antistante la residenza dei padri professori, dove furono massacrati, per noi è come se fosse passata di lì già da alcuni anni e ne avesse raccolto il testimone di impegno culturale, di alta divulgazione volta a scoprire che l’Altro e l’Altra hanno universi, anzi pluriversi, da rivelarci. Da svelarci come possibili luci per la nostra vita quotidiana. Che vuol dire? Consigliamo vivamente la lettura di un articolo del gennaio di quest’anno, intitolato “Il tempo, le regole, il resto”, a firma di Stefano Boring, che dà il senso reale di che cosa può voler dire incontrare Miriam e che può essere rinvenuto qui: https://www.ctrlmagazine.it/miriam-camerina-rabbina/.
Le diverse confessioni religiose – non nel senso di “molte”, bensì nel senso di una “diversità” irriducibile alle pretese dei nostri canoni immutabili – aprono quella strada verso le voci di chi è stato/a schiacciato/a dal potere che i martiri della UCA, così come tutti i, e le, rappresentanti della teologia della liberazione, hanno indicato, sino a morirci.
Vi è anche un altro aspetto, imprescindibile. Mi è capitato di ricevere quest’obiezione: “Che c’entra l’ebraismo con la teologia della liberazione?”. Domanda un pochino bizzarra, come va di moda aggettivare da una settimana.
Cosa c’entra l’ebraismo con la teologia della liberazione? Urca, urca. Per capirlo, ma per capirlo davvero, il consiglio questa volta - in tutta modestia - è di rivolgersi all’ascolto di un originale radiofonico che fu fortemente avversato dalle gerarchie ecclesiastiche schierate con i potenti ed ebbe, invece, un enorme successo popolare. A questo link - https://radialistas.net/serie-un-tal-jesus/ - è possibile godere dell’audizione di tutta la serie di “Un tal Jesús”, opera di José Ignacio López Vigil e María López Vigil, un classico assoluto di quella “teologia della liberazione” peraltro ben accademicamente articolata, da Gustavo Gutiérrez in poi.
Del resto John Paul Meier, da poco mancato – lo scorso 18 ottobre –, ha firmato 5 corposissimi volumi, davvero fondamentali, intitolati Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, pubblicati in Italia da Queriniana.
Potrebbe qualcun altro meglio della nostra Rabbi (scegliamo il femminile, oh yeah…) attualizzare, non duemila anni fa ma ora, adesso, l’ebraicità di quell’ebreo marginale, di quel tale Yeshua? Francamente, pensiamo di no. Perché la cultura si appoggia ai libri, ma deve essere intessuta di vita d’ogni giorno, di liturgia del quotidiano, eccoci qui.
Insomma, quanto accadde 33 anni fa a San Salvador è scuola, ancor oggi benché poco frequentata, di laicità – e non di laicismo -, intesa come passione viscerale per le nostre vite, di tutte e tutti. Le – e i – rabbi se ne intendono. I gesuiti pure.
Tornare alla scuola della vita significa essere ad un tempo a San Salvador e agli spettacoli ed alle lezioni di Miriam Camerini, trentatre anni fa e oggi.
Buona domenica.
Ignacio Martín-Baró, uno dei gesuiti assassinati a San Salvador il 16 novembre 1989 - disegno di Suzanne Ouellette, tratto da commons.wikimedia.org
Foto di Gianni Passante