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Il nuovo Vescovo eletto di Trieste mons. Enrico Trevisi oggi nella Cattedrale di San Giusto per il suo ingresso – foto per gentile concessione della Diocesi di Trieste


Il Sol dell’Avvenire (episcopale, di sera

di Stefano Sodaro



Le persone che escono, alle 18 di questa sera, dalla Cattedrale di San Giusto sorridono felici. Anzi, diciamola un po’ meglio: sembrano quasi stordite da troppa emozione.

Emozione di cosa? Di aver visto ed ascoltato, semplicemente, un uomo che crede in Gesù di Nazaret.

Può sembrare un’assurdità, una provocazione insostenibile ed inaccettabile, eppure incontrare un vescovo che crede in Gesù di Nazaret, in quel rabbi vissuto duemila anni fa, che insegnava nel Tempio di Gerusalemme – da lui amato a tal punto da scacciarne i venditori stabilitisi nei suoi pressi -, beh non è cosa scontata.

Mons. Enrico Trevisi è diventato questo pomeriggio, nella Cattedrale di San Giusto, Vescovo di Trieste, a tutti gli effetti, “nessuno escluso”, come usano precisare i giuristi.

Cita per tre volte, all’omelia, don Primo Mazzolari. Non ci sono più reprimende moralistiche sui “valori non negoziabili”, sparite.

Afferma, il nuovo Vescovo di Trieste: «Un annunciatore è pronto a partire, e sa che il Signore passa in modo sorprendente; deve quindi essere libero da schemi e predisposto ad un’azione inaspettata e nuova: preparato per le sorprese. Chi annuncia il Vangelo non può essere fossilizzato in gabbie di plausibilità o nel “si è sempre fatto così”, ma è pronto a seguire una sapienza che non è di questo mondo.»

Parla addirittura della complicità che è propria dell’intimità familiare: «La Cattedrale non riesce a contenere tutti. È stato bello poco fa incontrare le famiglie e i bambini al Santuario di Monte Grisa: abbiamo pregato perché la nostra Chiesa diventasse una “famiglia di famiglie” lasciandoci contagiare dal quel sano stile familiare che trasuda di complicità, di pazienza, di reciproco ascolto, di corresponsabilità, pur dentro le fatiche, le stanchezze, le inadempienze che tutti ci portiamo appresso.» Mai udito un vescovo evocare la “complicità” degli affetti, mai.

La gente è emozionata, quasi non crede ai propri occhi ed alle proprie orecchie. 

C’è un vescovo che crede in Gesù di Nazaret. O è un pazzo, o vale la pena prenderlo sul serio. 

Può mai essere motivo di divisione la fede nell’amore di Qualcuno?

Abbiamo capito che mons. Trevisi è particolarmente affezionato al prete “tromba dello Spirito Santo in terra mantovana” – come chiamò don Primo Mazzolari Giovanni XXIII -. Lo cita ancora: «Don Primo Mazzolari con espressione chiara e concisa afferma: “Ci interessa Cristo, più che gli scritti che parlano di lui (…)”.».

Gli interessano, dunque - anzi ci interessano -, le persone, i loro volti, le loro storie, le loro attese, le loro sofferenze, i loro sogni.

In giro si vedono mantelli, mantelline, curiosi copricapi e distintivi di autorità varie, ma quasi fa sorridere la comparazione con la semplicità, la forza, l’intensità, l’umiltà di quel vescovo che crede in Yeshua-Ha-Nosri.

Per una singolare coincidenza domani, 24 aprile 2023, ricorrono esattamente duecento anni dalla nascita di Elia Benamozegh, straordinaria figura di rabbino, che ha rilanciato la dottrina noachide come riconoscimento dei non ebrei nel piano di salvezza del Popolo d’elezione.

Quale Dio pregava Gesù di Nazaret? La questione è tutta qui.

Proviamo a vederla sotto un angolo visuale ancora diverso. Un vescovo che centra tutto su quel giovane rabbi di un antichissimo tempo, ritenendolo ancora vivo - non perché rianimatosi da cadavere, ma perché divenuto tutto amore e basta -, un simile vescovo in qualche modo rimette pure al centro la laicità della vita. Il non esservi zone sacre di separazione dal mondo che tutte e tutti ci accomuna. Tutte e tutti, infatti, possono occuparsi di una figura storica, anche solo per prenderne le distanze, per respingerla, o per criticarla o per lasciarsi interrogare. Mettere al centro la storia è mettere al centro ciò che noi siamo.

Casule, mitrie, stole, pastorali, bolle, candele, incensi, croci astili, canti solennissimi, vesti talari, tutto sembrava ricondursi alla ferialità delle nostre vite, alla loro ordinarietà. Ma soprattutto: e se si provasse a sostituire il riferimento personale, storico – salvifico o no ovviamente dipende dalle convinzioni di ciascuno e ciascuna -, a Gesù di Nazaret con la sola parola “amore”? Ma sì, abusiamone pure, esageriamo. “Amore”. Nient’altro. Cosa accadrebbe se facessimo tale sostituzione? Ne deriverebbe, appunto, quella piena laicità del cristianesimo che solo Francesco vescovo di Roma è stato capace di sottolineare dopo le involuzioni postconciliari. Chi è che non si gioca la vita sull’amore?

A Trieste oggi è successo qualcosa di troppo imprevisto ed imprevedibile. Non eravamo pronti, riconosciamolo.

Mi raggiunge un messaggio, poco fa: «Olà, finalmente si inizia a respirare… omelia bella, inclusiva, incoraggiante, di una bella teologia biblica fresca, al contrario del grigiore fatto di moralismo e di soli richiami al magistero di Ratzinger!»

Siamo storditi e stordite, perché siamo troppo felici.

Preferisco la sera – permetta chi legge simile confidenza personale -, il mattino è troppo arrogante.

Ed è una dolcissima sera domenicale, questa.