Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Interno della Chiesa Monastica di Bose, foto tratta da commons.wikimedia.org.



A San Valentino, o si è draghi, o si è monaci (di Bose)



di Stefano Sodaro


Mentre, alla vigilia di San Valentino, giura il nuovo Governo, dello Stato Italiano, risolvendo una gravissima crisi politica con un’assolutamente inedita formula di composizione dell’Esecutivo, nella Chiesa cattolica italiana una crisi tutta interna alla stessa compagine ecclesiale trova una soluzione altrettanto inedita ma non altrettanto “ecumenica”. Il riferimento è agli ultimi accadimenti che riguardano la Comunità Monastica di Bose: i termini della questione possono essere conosciuti nella loro essenza leggendo il comunicato del Delegato Pontificio “ad omnia”, padre Amedeo Cencini, religioso canossiano, - link qui: http://www.settimananews.it/vita-consacrata/bose-si-chiude-caso-bianchi/ - ed il comunicato della Comunità di Bose, rinvenibile al link https://www.monasterodibose.it/comunita/notizie/vita-comunitaria/14350-un-passo-sofferto.

La particolarità di una presenza come quella di p. Cencini fu rilevata dal nostro settimanale più di un anno fa, non appena fu data notizia dell’avvio della visita apostolica - https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20201/numero-539---12-gennaio-2020/rodafa -, ma nessuno le diede la minima importanza.

Dal nostro angolo visuale abbiamo costantemente cercato – non si sa con quale successo – di non scivolare nell’astio e nella precomprensione, quasi sempre ideologicamente venata, sia nei confronti della Comunità che nei confronti del suo fondatore, Enzo Bianchi.

Le reazioni al riguardo registrano infatti – è un dato obiettivo – una estrema, persino esasperata, polarizzazione, che, affacciatasi da subito, non s’è più ritratta dal balcone e probabilmente è concausa di un vero e proprio dramma ecclesiale che, nel silenzio assoluto della Conferenza Episcopale Italiana, si è consumato e continua a decomporsi, con esiti non immaginabili.

Una seconda osservazione, annotata in assoluta modestia: il dato giuridico, propriamente canonistico, è stato sempre negletto dagli osservatori, anche i più autorevoli, per transitare immediatamente a considerazioni d’altro tipo, ad esempio di politica ecclesiastica o di strategie confessionali, ma – forse per incompetenza, bisogna pur dirlo – non è stato mai sviscerato.

Il comunicato del Delegato pontificio contiene, ad esempio, alcuni spunti che pongono interrogativi non da poco: prima di tutto viene fatto riferimento alla emanazione di un - nuovo - decreto da parte dello stesso Delegato Pontificio, ben diverso dunque dall’originario a firma invece (secondo quanto riportato nelle notizie di stampa, perché il testo non è mai stato reso noto) del Cardinale Segretario di Stato.

Si tratta della tipologia di provvedimenti prevista dal can. 31 del Codice di Diritto Canonico, al § 1, il quale recita: Possono dare i decreti generali esecutivi, con cui sono appunto determinati più precisamente i modi da osservarsi nell’applicare la legge o con cui si urge l’osservanza delle leggi, coloro che godono della potestà esecutiva, entro i limiti della loro competenza.

Di per sé dunque il decreto di p. Cencini risulta esercizio di sua potestà esecutiva nell’assicurare la piena osservanza dell’altro decreto, quello appunto firmato da Parolin ed approvato in forma specifica dal Papa e datato 13 maggio 2020 (https://www.monasterodibose.it/comunita/notizie/vita-comunitaria/13892-speranza-nella-prova).

La domanda che si pone al riguardo è la seguente: premesso, merita ribadirlo, che il testo del decreto di maggio non è pubblico né è stato pubblicato, che rapporto c’è tra la potestà esecutiva del Delegato pontificio “ad omnia” e le altre potestà esecutive che sono necessariamente coinvolte in una vicenda tanto variegata e frastagliata? Vale a dire: che ne è della potestà degli Ordinari di Biella e, con riguardo alla Comunità di Cellole, di Volterra? La questione, per il diritto ecclesiale e per la sua concretezza ed efficacia pastorale, non è affatto secondaria. Chi decide cosa con riguardo a Bose? È un punto molto importante. Sarebbe forse preferibile, ad esempio, chiarire se sia cessata ogni potestà di Ordinari locali sulla Comunità, soggetta ora piuttosto alla sola ed esclusiva potestà della Santa Sede. Ma non è chiaro se sia così.

La seconda perplessità giuridica nasce dall’espressione adoprata nel comunicato del Delegato Pontificio laddove, al n. 2 del terz’ultimo capoverso del comunicato, si riferisce alla “condizione di membri della Comunità Monastica di Bose extra domum”, che, tuttavia, salva sempre l’esistenza di fonti non conoscibili perché non pubbliche né pubblicate, non trova alcun fondamento canonico codicistico o d’altra derivazione. Per quanto noto, infatti, la Comunità di Bose continua tutt’ora ad essere, sino a nuova configurazione, una “associazione privata di fedeli”, che dunque non ha alcuna “domus”, com’è invece proprio di un istituto di vita consacrata, e non è pertanto rinvenibile alcuna condizione canonica di “membri extra domum”. I membri di un’associazione privata di fedeli possono, caso mai, trovarsi “extra sedem” (can. 304 § 1 del Codice di Diritto Canonico), ma tale contingenza non ha alcun rilievo afferente alla loro condizione canonica che resta immutata.

Però è certamente il caso, una volta presa coscienza di un dato giuridico che non si può scavallare, andare comunque oltre – il diritto è solo strumentale, tanto più quello canonico – e soffermarsi su altre considerazioni.

Crotte di Strambino non è distante da Bose e a Crotte di Strambino la laica eremita Adriana Zarri è vissuta sino alla morte.

Per un ricchissimo approfondimento, non solo biografico, della sua testimonianza si deve rimandare al volume di Mariangela Maraviglia Semplicemente una che vive. Vita e opere di Adriana Zarri, edito da il Mulino nel 2020.

Adriana Zarri è rimasta laica anche dal punto di vista “organizzativo”, di status, anche dal punto di vista insomma “canonico”, perché non ha mai né richiesto, né cercato, alcuna autorizzazione da parte di alcuna autorità ecclesiastica, fosse stato anche il parroco.

Sperando di non tediare lettrici o lettori, crediamo opportuno riportare una sua riflessione, non brevissima, che sembra scritta apposta per illuminare i fatti di Bose, non compiutamente ancora decodificabili, neppure quanto a responsabilità ed addebiti.

In un contributo comparso nel volume Laici sulle vie del Concilio, edito da Cittadella nell’ormai assai lontano 1966, ed intitolato a sua volta “Esiste una spiritualità dei laici”, Adriana Zarri scriveva (p. 102): «Che esista una spiritualità laicale «di diritto» (che, in altri termini, possa e debba esistere una modalità specifica di concretare il rapporto religioso per chi vive nel secolo) mi sembra necessario e ovvio; che poi questa spiritualità esista «di fatto» (vale a dire che sia stata esplicitata e vissuta su un piano di consapevolezza), questo è più problematico.»

E proseguiva (alle pp. 102 e 103): «Dovremmo dire di sì, a giudicare da quanto se ne parla; ma non sempre il parlarne è a livello di sintesi cosciente; più spesso è ancora a livello di analisi di alcuni aspetti e di impreciso stato d’animo. La stesse formule più usate (la «consecratio mundi», per esempio) non sempre hanno, alle spalle, un’adeguata elaborazione teologica; spesso si fermano a indicazione empiriche quando non addirittura… locali (consacrare le scuola, l’ufficio, il mondo esterno alla Chiesa. Ma qual è poi questo mondo «esterno»? Non è certo una collocazione spaziale che può indicarcelo e nemmeno – benché sia già di più – una situazione). Eppure con questa formula e con altre intendiamo qualcosa di specifico; se la formula non paresse un bisticcio, diremmo «qualcosa di vagamente preciso». La spiritualità del laico è allo stadio di percezione, di avvertenza emotiva, di stato d’animo: uno stadio che, in genere, precede una più esatta coscienza teologica; e se oggi c’è pericolo, è nel fermarsi a delle formulazioni ormai correnti, pensando che esauriscano il problema mentre appena lo impostano.

Possiamo dire quindi che esiste una spiritualità incipiente, di tipo più psicologico che teologico, più reattivo, negativo e critico che positivamente specifico.

Il nostro rudimento di spiritualità per laici è nato, infatti, in maniera polemica, contro l’ingenua impostazione di moduli ecclesiastici e monastici del tutto estranei alla situazione e alla psicologia del secolare. Abbiamo detto: «questa non è la nostra strada» e abbiamo cercato, spesso per contrapposizioni un po’ geometriche e meccaniche, ciò che ci distingueva dagli ecclesiastici. Agli ecclesiastici il sacro e a noi il profano (ma che cos’è, poi, il profano?), ai monaci il convento, a noi la casa e la famiglia, a loro la verginità e a noi il matrimonio, a loro il ministero, a noi la professione, a loro la cura delle anime, a noi la «consecratio mundi». Ma che cos’è il mondo? E dove si distingue il regno dell’uomo dal regno di Dio? Esiste una discriminazione esterna? E, posto che esista in qualche modo, il sacerdote non la valica? Il rituale è pieno di benedizioni che vanno dai raccolti della terra alle macchine dell’uomo, dalle case agli strumenti tecnici, agli animali, agli abiti… Non è anche questa una «consecratio mundi»? E, al vertice, non è una «consecratio mundi» la consacrazione della Messa dove il pane e il vino sono il simbolo di ogni carne terrestre e umana assunta dal Verbo? Come si vede, queste contrapposizioni in bianco e nero rischiano di rivelarsi inadeguate, se non le approfondiamo oltre la formula e la lettera. Rischiano, anziché di svincolarlo, di tenere perennemente aggiogato il secolare al cocchio della vita religiosa, sia pure per contrapposizione; perché anche la contrapposizione, quando sia così puntuale e polemicamente vincolante, è un condizionamento.»

Fine della lunga citazione.

I pensieri che ne vengono sono molti. Si infittiscono, si affastellano.

Si obietterà immediatamente: monaci e monache non vivono affatto nel secolo e pertanto non sono questi i discorsi da fare!

Giusto, vero, però i monaci sono – e ci tengono a ben metterlo in evidenza – laiche e laici.

Soprattutto i monaci e le monache di Bose, ed anche noi, da parte nostra, teniamo immensamente a tale loro identità e testimonianza, di laiche e laici. “Noi siamo laici senza importanza”, è frase molto presente e ripetuta a Bose.

Torniamo allora, per un attimo, al dato giuridico.

L’eventuale futuro nuovo assetto giuridico della Comunità verosimilmente dovrà – o, più umilmente, chiediamo venia, potrà – trovare fondamento nel can. 605 del Codice di Diritto Canonico, che prevede la possibilità di “nuove forme di vita consacrata”, ma, a prescindere dalla sua ipotizzabile identità (ad esempio – sono tuttavia mere idee del tutto personali del qui scrivente - come “Priorato di Bose”, oppure come “Comunione di Bose”), sembra decisivo che possano essere conservati i suoi tratti di comunità mista, maschile e femminile, ed ecumenica.

Ora, l’unica possibilità in tal senso pare - sempre e solo al povero qui scrivente - ritornare, nella sua articolazione giuridica, ad una configurazione meramente civilistica e non canonica della Comunità, quale associazione di solo diritto civile, che però sia “canonizzata”, come dicono i “tecnici”, a norma del can. 1290, il quale prevede: Le norme di diritto civile vigenti nel territorio sui contratti sia in genere sia in specie (…) siano parimenti osservate per diritto canonico in materia soggetta alla potestà di governo della Chiesa e con gli stessi effetti (…).

Per diritto civile italiano, infatti, l’associazione è un contratto, nient’altro.

Da simile assetto, del tutto innovativo – un contratto di diritto civile fatto proprio dall’ordinamento canonico -, potrebbero scaturire conseguenze significative, ad esempio anche quanto alla disciplina del Monastero di Cellole, che, per disposizione del Delegato Pontificio, dev’essere chiuso da parte della Comunità, sebbene sia contestualmente previsto che alcuni membri della Comunità in esso vadano comunque a vivere accanto al Fondatore. Sia detto senza alcuna verve polemica: un quadro niente affatto chiaro. Sia permesso dirlo davvero con sofferta partecipazione.

Ma oggi, nel giorno di San Valentino, ed alla luce delle parole sopra riportate di Adriana Zarri, la riflessione diventa più ampia e riguarda due altri aspetti: la condizione femminile e la possibilità di rendere intensamente affettivo (sì, si è capito bene, “intensamente affettivo”) un rapporto con la presenza terza, quale è quella del monaco o della monaca, rispetto alla vita non monastica condotta in coppia o da single.

Che significa?

Mentre nell’ebraismo s’usa senza difficoltà l’espressione “il mio rabbino”, i cattolici parlano al massimo del “mio confessore” o del “mio parroco”, ma giammai del “mio prete” tout court, né, tanto meno, del “mio monaco” o della “mia monaca”. Un profluvio di letteratura severamente ammonitrice d’ogni genere ha inculcato del resto l’idea che - va bene tutto, ma - “l’amore fa male”, l’amore comunemente inteso, l’amore di innamoramento, l’amore totalizzante, l’amore che coinvolge anche i sensi e che dev’essere ammesso solo per Dio, rigidamente alternativo ad ogni amore umano.

Il problema è fermo, fossilizzato, ad una dimensione di coppia, per quanto mistica e sublimata: il mio “io”, il “tu” di Dio. Fine.

Così come, nelle coppie che festeggiano quest’oggi San Valentino – e nelle quali spesso l’invidia ammirata, ultrapopolare, sospetta o insinua virili capacità amatorie da “draghi” -, è solo l’orizzonte io/tu a definire la legittima esplicazione del più intenso ed appassionato dei sentimenti. Nessun altro può e deve intromettersi.

Ma davvero è questa la felicità? Davvero questo il senso della vita che merita sognare? Un recinto?

Si diceva che nell’Ebraismo l’espressione “il mio rabbino” è invece comune, sino ad affermare “il mio rabbino è una donna”: si veda https://www.lepoint.fr/societe/mon-rabbin-est-une-femme-trois-francaises-entre-bonheurs-et-attentes-11-12-2015-1989257_23.php

Ed il rabbino, tuttavia, è presenza terza, così come il monaco e la monaca. Così come lo era Adriana Zarri nella sua testimonianza eremitica rispetto alle nostre vite condominiali o comunque decisamente non eremitiche. Che incarnasse Adriana Zarri una figura di rabbino cattolico donna?

Se si riuscisse a dire “mio”, “mia”, senza alcuna volontà appropriativa, senza alcuna ferocia esclusiva, senza gelosie e possessi, ma con incanto d’innamoramento puro, rispettoso, sensibile, non pauroso, onnicomprensivo (Rodafà direbbe “onnigamico”, ma lasciamo andare…), quella realtà teologica che si nomina “Regno di Dio” sarebbe già prossima, quasi tangibile. E non ci sarebbe nemmeno più bisogno di laici, chierici e monaci.

Ma sinché il Regno è di là da venire, più che esser “draghi” amatori importa essere monaci e monache amanti.

E per comprendere che cosa significhi questa cosa stranissima, bisognerebbe cominciare a far parlare, anche pubblicamente, prima di tutto le donne che vivono nei monasteri, e non gli uomini. Ed apprendere, con coraggio, dove stia la sofferenza, che va tutelata e curata, e dove la gioia, che va celebrata.

E, per apprenderlo, iniziando daccapo, la biblica danza delle donne sulle rive del Mar Rosso dovrebbe segnare la via da percorrere.

Di certo non solo a San Valentino.

Ciò che Enzo Bianchi ha significato nella storia della Chiesa Italiana resta. Ciò che Bose significa nella storia della Chiesa Italiana resta.

C’è però anche una storia altra, non ecclesiale né ecclesiastica, in cui compaiono draghi buoni e draghi cattivi, come la permanente epidemia.

Ma l’arcangelo Michele che sconfigge il Drago cattivo porta nel suo nome la domanda: Chi è come Dio?

Farsi domande è più importante che darsi risposte.

Anche a Bose, anche a Roma, anche nelle nostre case, anche da innamorati e innamorate.

Anche a San Valentino, appunto.

Buona domenica.