In alto i cuori

di Paola Franchina

Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.

Cè un tempo per nascere e un tempo per morire,

un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.

Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,

un tempo per demolire e un tempo per costruire.

Un tempo per piangere e un tempo per ridere,

un tempo per gemere e un tempo per ballare.

Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,

un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

Un tempo per cercare e un tempo per perdere,

un tempo per serbare e un tempo per buttar via.

Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,

un tempo per tacere e un tempo per parlare.

Un tempo per amare e un tempo per odiare,

un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?

Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa.

Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine[1].


In questo spezzone lirico, l’Ecclesiaste offre uno squarcio nello straordinario mistero della vita sotto il cielo.

L’uomo scopre, non senza sofferenza, di non essere sul cuore della terra[2] ed è, così, sollecitato ad un percorso di espropriazione da se stesso; la vita incalza ad un pedagogico esercizio di docilità: il maestro taoista Lao Tzu asseriva: «La vita è una serie di cambiamenti naturali e spontanei. Non gli resistere. Resistergli crea solo dolore. Che la realtà sia la realtà. Lasciate che le cose fluiscano spontaneamente in avanti nel modo che vogliono»[3].

Gli eraclitei esprimevano l’eterno avvicendarsi di attimi con la formula idiomatica panta rei, assimilando la vita ad un fiume che si dissolve e risolve con ritmo incessante in un flusso perenne. Nonostante si tenti di opporre resistenza, la zattera umana è incalzata a lasciar andare i tronchi dell’albero che la compongono: vano il tentativo di trattenere esperienze, frammenti della nostra identità e, ahimè, persone care.

Dinnanzi a questo senso del finito che inchioda l’individuo ad una condizione mortale, tutto sembra perduto. Ma viva e vibrante appare la Buona Notizia, ovvero la promessa di un Dio che offre garanzia di eternità alle schegge della nostra esperienza contingente. Rassicurante appare la parola di Gesù:

25 «Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? 27 E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? 28 E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; 29 eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. 30 Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? 31 Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?” 32 Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. 33 Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. 34 Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno[4].

Dinnanzi all’affanno umano, Gesù sollecita a riposare nell’amore del Padre; l’insegnamento è a perdersi per ritrovarsi: solo arrendendosi alla sconfitta e all’impossibilità di custodire il proprio sé, l’uomo può accogliere l’invito promettente di un Dio che diviene garanzia della specificità singolarissima di ciascuno. In questa dinamica paradossale è possibile accogliere come un dono ciò che la vita offre. Si scopre che il mistero sfuggente della nostra identità è salvaguardato gelosamente dal Padre, pertanto, siamo legittimati a vibrare al ritmo dello Spirito e ad aprirci con fiducia verso il futuro. In ebraico Ruah, spirito, è un vocabolo onomatopeico che imita il fischiare del vento, il respiro, la forza in movimento che sollecita il mutamento. L’azione dello Spirito, dunque, invita ad avere il coraggio di danzare al ritmo della vita ed immergersi nella dinamicità del fiume che scorre.

E allora, dunque, sursum corda: leviamo in alto i cuori e guardiamo con fiducia al mistero del nostro quotidiano.



[1] Qo 3,1-11

[2] S. Quasimodo, Ed è subito sera, in https://www.sololibri.net/ed-e-subito-sera-Quasimodo-parafrasi-analisi-testo.html.

[3][3] Lao Tzu, in https://www.aforismicitazioni.it/frase.php?id=2438#gsc.tab=0.

[4] Mt 6,25-34.