Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Trieste, Piazza Unità d’Italia - foto di Diego Delso tratta da commons.wikimedia.org

T.r.i. e s.t.e.


di Stefano Sodaro

Tutto

Resti

Immutato

E

Spariscano

Tristi

Entusiasmi

TRIESTE

Proviamo a ricorrere ad un ossimoro: esistono tristi entusiasmi?

La domanda potrebbe essere rovesciata in un classico dell’umana inquietudine, però attualizziamolo con attitudine di sincerità, e dunque chiediamoci con coraggio: oggi, adesso, qualcuna, qualcuno, di noi è felice?

La soddisfazione è un conto. Il piacere un altro. L’appagamento una terza faccenda. Ma la felicità?

Forse pensiamo che la felicità sia, in fondo, corrispondente al diritto riconosciuto dalla Costituzione degli Stati Uniti e, dunque – anche per non deprimerci - quella domanda la evitiamo volentieri. E subentra, appunto, un triste entusiasmo. Come quando si dice, o si pensa: bello, ma un’altra volta.

Una felicità da rinviare in attesa di tempi migliori. È davvero così?

Il desiderio di stabilità, di conservazione, di tranquillità, di ordine, di ripetizione del già noto, di riaffermazione dell’identico non arreca felicità alcuna, ma permette almeno di accarezzarne il pensiero rinviando però il suo compimento a chissà quando. Forse addirittura ad un’altra vita, in un’altra dimensione, insomma altrove. Non ora, non qui.

Bisogna scegliere tra pacatezza e compostezza da una parte ed entusiasmo e felicità dall’altra. Simile scelta però è quanto di più frustrante si possa immaginare e, dunque, il sapore di cenere si produce nelle nostre bocche che sorridono spesso a forza, mentre magari singhiozzano assai più naturalmente.

In effetti anche le campagne contro i vaccini e le precauzioni sanitarie sono tutte all’insegna del “non è successo niente”, “torniamo indietro, ai tempi che furono”, “facciamo comunque in modo che tutto sia immune da qualunque scossa o sommovimento”. “Noi siamo le stesse e gli stessi di prima”.

Futuro come ripetizione, abbastanza compulsiva, del passato.

Entusiasmo come nostalgia di emozioni impossibili.

Improvvisamente Trieste - sede di questo nostro giornale - sale agli onori delle cronache nazionali. C’è da scommettere che fino a qualche giorno fa più di qualcuno avrebbe avuto seri problemi a segnarne la corretta posizione geografica sulla cartina dello Stivale. Adesso invece non si parla che di Trieste. Di cui – diciamolo – non si sa però niente di niente.

Le correnti carsiche della psicanalisi sveviana risultano indecifrabili a chi va per le spicce e detesta la complessità. Il mondo dei sogni da interpretare è troppo alieno rispetto alla concretezza realistica, allo “spirito pratico” – come si dice -, che dovrebbe invece, non si sa bene come, assicurarci ogni sorta di felicità. Succede il contrario: il rifugio nel sogno dà quell’ebrezza che la realtà sopprime e condanna.

Tristi entusiasmi. Che tutto resti immutato.

“Si stava meglio senza vaccini”: sappiamo che non è per nulla vero, dal momento che abbiamo avuto centinaia di migliaia di morti, eppure lo si crede. Insomma: si stava meglio prima. E questo “prima” è inseguito come l’araba fenice che si rimette in volo da qualunque parte la si cerchi di catturare. Non è la felicità l’obiettivo, ma il suo contrario, l’immutabilità. Il restare fermi. Il guardare per terra, bene per terra, anzi, lo si declama: il restare con i piedi per terra. Ma piedi che corrono o scarpe eleganti che sprofondano nell’asfalto anonimo del già visto e già detto?

Questo nostro settimanale crede, pervicacemente, che la felicità sia possibile, realizzabile, anzi – osiamo di più – “a portata di mano”. Compare quando accettiamo che il fallimento non sia un corpo estraneo da asportare dalle nostre esistenze portando via pure una gran fetta di felicità personale, bensì che il chiaroscuro, la contraddizione, il limite, l’eccedenza o la perdita siano segnali indicatori di un sempre più stretto apparentamento tra la felicità e la gioia. Oh, eccoci scapicollati giù per i sentieri del senso, del significato.

Parola in completo disuso, quest’ultima della gioia.

La gioia è ormai affare moralistico, buono per predicatori e imbonitori. È troppo “res severa”, come insegnava Seneca: verum gaudium res severa est.

Bene.

Allora, terapeuticamente, è il caso di programmare un viaggio a Trieste.

Il prisma multi-identitario della più mitteleuropea città italiana può dare quella rivelativa sensazione che Pier Aldo Rovatti una volta ha mirabilmente sintetizzato così: “A Trieste non sai più chi sei”.

Non sapere più chi siamo, rinunciare alle lugubri riesumazioni di un passato ritenuto unica garanzia di senso e di speranza lascia intravvedere una felicità talmente luminosa da accarezzarci il viso, senza abbagliarci, facendoci piuttosto gioire. Ma senza tagli e tristi rintuzzamenti.

Alla Lèvinas: Totalità Richiama Infinito Eliminando Sconforti Tardo Eversivi.

Andiamo avanti. Non indietro.

Gli entusiasmi non saranno più tristi.

Però bisogna venire a Trieste.

Bisogna.

Buona domenica.