The Rabbi is in


Il sigaro, il Talmud e i gabbiani

di Miriam Camerini

Sono in riva al mare. Il mio mare, quello di sempre: Levanto, ossia la mia infanzia e anche quella della mia nonna, di mia madre e di mia zia e di mia sorella… Potrei proseguire, ma avete capito l’idea. Mia nonna ha iniziato a venire qui con la sua famiglia a 6 anni, nel 1928, e gli unici anni di interruzione sono stati – per forza – quelli della guerra e della provvidenziale fuga in Svizzera.

Ho appena finito le quotidiane sette ore di studio (online) con la mia scuola rabbinica a Gerusalemme: ordino un caffè d’orzo (l’insonnia non mi dà tregua nemmeno al mare), e accendo un sigaro, questo almeno vero.

Dopo ben sette settimane, 49 giorni complicatissimi di viaggi e documenti, Canada, Stati Uniti, Israele, tamponi e spostamenti, quarantene e imprevisti di ogni genere, due settimane a casa con il nostro amato virus, lavoro da rincorrere e amici che a volte ci sono e altre no, sono a “casa”, una delle mie case, almeno: forse quella in cui mi sento più al sicuro in assoluto, dove so che nulla di male può davvero succedere.

Questo periodo autunnale è iniziato l’indomani di Rosh-Hashana, il Capodanno ebraico 5782, a Mantova, ed è terminato una settimana fa a Sabbioneta, pochi chilometri più in là.

Nel mezzo ho attraversato l’Atlantico in due direzioni, toccato il Mediterraneo, sofferto per amore e incertezza, solitudine e paura, sentito nostalgia di cose che forse non ho mai vissuto, perso molte speranze in un certo futuro, perso il gusto e l’olfatto, recuperati questi ultimi due, mentre invece sul futuro sono ancora in dubbio.

Forse devo rassegnarmi a non immaginarne uno, quantomeno non come se lo immagina la maggior parte delle persone che conosco: una casa, un compagno o una compagna di vita, dei figli, due gatti, un cane.

Dopo aver fatto tutto ‘sto casino, sono sempre qui, da sola. A Levanto. A guardare il mare.

In una delle notti canadesi in cui ero più triste e angosciata in assoluto, con la pioggia fuori che batteva sulle finestre e io dentro al letto a sentire il cuore che mi batteva come volesse uscire dalla pelle, un’amica cara e sensibile mi ha scritto: “... Cerca delle minuscole cose che ti fanno stare bene e aggrappati a quelle, una chiamata, un libro, una mostra... Anche se ti sembra che non abbiano senso, immagina che ci sia una Miriam persa irrazionale e un’altra che le sta solo ricordando tutte le cose belle che ha, e quante ne ha! Ti voglio bene...”.

A ripensarci ora è tutto vero: di libri ne ho ordinati poi due, che volevo da tempo, ma che in Italia non si trovano: cerco sempre di comprare i miei libri nelle librerie o comunque “dal vivo”, ma a un certo punto mi sono ricordata che dei giovani gentili e corretti per i quali tempo fa avevo fatto un lavoro, non avendo modo di pagarmi per ragioni fiscali, mi avevano invece “regalato” un buono, che ho così usato per comprare online i libri che volevo. Uno dei due si chiama If all the seas were ink (Se tutti i mari fossero inchiostro, citazione da un poema aramaico dell’XI secolo variamente riportato nel Talmud babilonese e nella letteratura rabbinica in genere) ed è il memoir - pubblicato nel 2017 - di una giovane donna ebrea americana, Ilana Kurshan, sola a Gerusalemme a seguito del fallimento di un breve matrimonio, per fiducia nel quale ha abbandonato New York e il suo lavoro di agente letteraria seguendo il marito nella “Terra promessa”. Ilana si unisce “per caso” a quello che lei stessa definisce “il più grande book-club del mondo”: quello del daf yomi, ossia – in ebraico – “pagina quotidiana”, un “circolo di lettura” iniziato in una yeshiva (scuola talmudica) di Lublino, in Polonia, nel 1923 (quando mia nonna aveva un anno, a pensarci) e mai interrotto (mi ripropongo di controllare anche in questo caso che cosa sia successo durante la guerra mondiale). In sette anni e mezzo, ossia 2.738 giorni, studiando una pagina al giorno tutti i giorni, chiunque partecipi al “programma” studia l’intero Talmud babilonese, con i suoi 37 trattati e le sue circa 2.700 pagine. Il bello è che non lo fa da solo, perché sa che – ovunque nel mondo – ci sono persone di ogni età, donne e uomini, ebrei e gentili, studiosi e curiosi, che stanno “rompendosi i denti” (così si dice, per rendere l’idea di quanto difficile sia comprendere una pagina di Talmud) sulle stesse parole aramaiche ed ebraiche, di cui però esistono oggi traduzioni inglesi, francesi, tedesche, in ebraico moderno, e ora, poco a poco, anche italiane. Studiare il Talmud aiuta Ilana a ricominciare la sua vita, un passo dopo l’altro, una pagina alla volta, fino a un nuovo amore, una nuova casa, ben quattro figli. Seguo le sue scoperte e amo il suo modo di collegare tutto ciò che studia, anche le più astruse e astratte “libere associazioni” mentali dei Maestri del Talmud, chiaramente educati in una logica non “occidentale”, alla vita quotidiana: il suo modo di far discutere i due salmoni che sta marinando per il forno come fossero i due saggi le cui dispute normative o narrative ascolta in podcast mentre cucina è qualche cosa che immagino benissimo di fare anche io (anzi: lo faccio).

E allora la Bruna aveva ragione e all’improvviso, qui al caffè della palafitta in riva al mare fra il Talmud e i gabbiani, l’orzo e il sigaro, la lettura e la scrittura, tutto ciò che ho vissuto dall’inizio di questo faticoso 5782 a oggi un po’ mi si placa dentro e nel primo pomeriggio in cui il sole tramonterà “presto”, ecco che respiro e mi viene anche un po’ voglia di qualche cosa di quieto che per oggi chiamerò “autunno”.

Foto di Paola Cazzaniga