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Salita al campanile della chiesa di St Viktor, Dülmen , Renania Settentrionale-Vestfalia , Germania - immagine tratta da commons.wikimedia.org


La porta aperta

di Stefano Sodaro




Chissà quante e quanti tra le lettrici ed i lettori del nostro settimanale hanno mai sentito anche solo accennare all’esperienza dei cosiddetti “preti operai”.

Non abbiamo la necessaria competenza storiografica per addentrarci in una vicenda complessa, sofferta, lacerata, rinnovata, ancor oggi presente benché assolutamente residuale.

Preferiamo, dunque, rivolgerci alle parole di Paolo VI nella sua Enciclica Octogesima Adveniens del 14 maggio 1971, al primo capoverso del numero 48: «Nella sfera sociale la chiesa ha sempre voluto assicurare una duplice funzione: illuminare gli spiriti per aiutarli a scoprire la verità e a scegliere la via da seguire in mezzo alle differenti dottrine da cui il cristiano è sollecitato; entrare nell’azione e diffondere, con una reale preoccupazione di servizio e di efficienza, le energie dell’evangelo. Non è forse per essere fedele a questa volontà che la chiesa ha inviato in missione apostolica tra i lavoratori dei preti che, condividendo integralmente la condizione operaia, ambiscono di esservi i testimoni della sollecitudine e della ricerca della chiesa medesima?» E ne esiste addirittura la versione latina – che anzi era a quei tempi il testo princeps -: «In rerum socialium provincia Ecclesia duplici semper munere fungi voluit: tum hominibus lumen praebere, ad eos iuvandos, ut veritatem eruant, atque securam viam agnoscant inter varias doctrinas, quibus alliciuntur; tutu operam dare Evangelii virtuti diffundendae, certa cum sollicitudine hominibus efficaciter serviendi. Nonne ut huic consilio fideliter obsequeretur, Ecclesia quosdam sacerdotes, apostolico munere praeditos, ad opifices misit, qui, horum condicione prorsus suscepta, testes inter eos forent suae ipsius curae atque studiosae voluntatis?»

Siamo sinceri: oggi nemmeno l’avanzatissimo magistero di Francesco papa si sentirebbe di raccomandare una “quorundem sacerdotum missio ad opifices”. E perché? Molto semplicemente perché non abbiamo avuto, non si è verificata, una traiettoria evolutiva nella coscienza ecclesiale che abbia portato alla valorizzazione diciamo “sacra” di ciò che è totalmente profano, laico, feriale, quotidiano. Una sacralizzazione del lavoro, della professione. La vicenda della pandemia, con le continue spinte ecclesiastiche a rientrare in chiesa, nei templi, a riprendere il culto pubblico il prima possibile per celebrare lì, in quegli spazi separati e riservati, l’unica vera liturgia lo ha eloquentemente testimoniato.

Fa un po’ specie che, proprio allorché si ricorda don Milani a cent’anni dalla sua nascita, pressoché nulla si dica di un’esperienza – quella appunto dei pretioperai – che non vide partecipe lui, ma dalla quale si lasciò segnare in profondità, se solo si pensa alla strettissima amicizia di don Lorenzo con don Bruno Borghi.

Dove se n’è dunque volata la Chiesa Cattolica quanto meno in Italia? Molto lontano dal Vaticano II e dalle parole di Paolo VI o è atterrata nei loro pressi?

L’invito a stare con i piedi per terra, a scendere “dal pero” o a non guardare la luna – come si dice -, è sovente segno di una certa grettezza, grossolanità, nel rintuzzare ideali, utopie, progetti, sogni.

Eppure don Milani sognava. E la sua concretezza era realizzazione di un sogno.

E la veste talare nera mai dismessa era come il segno di una conversione della verità all’amore, della dottrina alla giustizia, dell’insegnamento alla concretezza della vita. Una conversione della Chiesa al mondo, non – tutto al contrario – alla mondanità.

Era, don Milani, sacerdote del Regno di Dio non diversamente da come lo sono ogni uomo ed ogni donna, anche al di fuori dell’ovile contrassegnato dai sacramenti. Anche un non cristiano, una non cristiana, partecipa del “sacerdozio del Regno”. Più ampio ancora del sacerdozio battesimale, peraltro già così dimenticato se non misconosciuto, sicuramente taciuto.

C’è però, forse, un’altra cosa da considerare, la più difficile.  Non ci si fa “preti-operai” all’insegna della bruttezza, dell’avversione all’estetica in nome di presunte questioni importanti, assai più importanti, in nome di un’etica divoratrice del bello e persino del superfluo, sdegnosa di ciò che è elegante, della grazia, del gratuito. La timbratura quotidiana del cartellino per entrare in fabbrica o in ufficio dovrebbe essere l’equivalente di un’incensazione all’altare, o di un’antifona in gregoriano, alla scuola di Karl Barth che invitava a tenere in una mano il giornale e nell’altra il Libro dei Libri.

Dunque che ne sarà dei preti-operai ora, adesso, qui? Casule, mitrie, stole, camici bianchi e piviali non vanno gettati in nessunissimo immondezzaio, bensì trasformati. Resi indossabili, cioè, da ogni sacerdote del Regno di Dio, maschio o femmina che sia.

Ed una volta assunti quei paramenti così intrisi di simbolismo, si tratta di provare ad escogitare, inventare, nuove liturgie, alla portata di ciascuna e ciascuno. Ad esempio, una lettura di brani significativi dove quell’esperienza ecclesiastica così remota, se non ignota, possa rivivere, non per riproporre fuori tempo massimo modelli datati e stinti, bensì per modulare la prospettiva di una comunione, di un’alleanza, di una condivisione, di una solidarietà talmente intense che ogni nostra cena potrebbe essere l’Ultima. Cioè la Prima.

Buona domenica.