Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Tre donne iraniane guardano stancamente - foto di Antoin Sevruguin (1830-1933), tratta da commons.wikimedia.org

In lode di Cecilia Sala, Miriam Camerini, Paola Franchina


di Stefano Sodaro

La retorica giovanilista è insopportabile, avvilisce la freschezza della scoperta, costringe all’amplificazione dei luoghi comuni, addormenta ogni ardore, non diversamente dalle celebrazioni delle magnifiche sorti e progressive dell’età adulta o dell’inarrivabile sapienza della terza età. Basta, per pietà. Non se ne può più.

Usciamo dalle strettoie della cronolatria, smettiamo i panni degli educatori disciplinatori che sanno codificare ogni passaggio della vita e scopriamo, piuttosto, senza sbrodolamenti di piaggeria, che una giornalista ventiseienne – nome, Cecilia, cognome, Sala - ci ha portato a casa, all’ora di pranzo e di cena, ed anche di colazione, l’Afghanistan, di cui ora, tranne lei stessa, pochissimi continuano a parlare.

Ce l’ha portato andandoci lì di persona, per vedere, ascoltare, filmare, diffondere, far capire.

Che cosa sta succedendo?

Succede che la divulgazione culturale – di cui il giornalismo di Cecilia Sala è protagonista – trova, quasi all’improvviso, riconosciamolo, la firma di giovani donne, nella fascia dai venticinque ai quarant’anni.

E non vi è contraddizione alcuna con la necessità di far cessare gli sproloqui tassonomici delle brave ragazze e degli ometti giudiziosi: la passione è il timbro, il marchio, la certificazione doc del farci conoscere – loro - ciò che noi non sappiamo.

Lo insegnava Panikkar: non apprendiamo per costrizione, per obbligo, ma per “innamoramento” di ciò che ci viene trasmesso, comunicato.

Il gusto per la notizia, per la cura delle fonti, per l’obiettività ricostruttiva che non si aliena nell’indifferenza verso qualunque fatto purché fatto sia, ma si incarica di capirne cause, risvolti, conseguenze, presupposti, questo sapore dell’esserci, del narrare, dello stare nella complessità anche molto lontana dalle cronache italiane, attraversa la nostra ferialità quotidiana, riscattandone il suo colore spesso ristagnato sul grigio triste andante.

Il nostro Paese ha contratto da qualche mese un debito culturale nei confronti di Cecilia Sala, della sua serietà, perizia, competenza, capacità di interloquire, di apprendere a sua volta e di rilanciare, senza apparenze di maestria alcuna, senza la boria saputa di chi tanto sa come va a finire, ma con la tenacia dell’amore per il proprio lavoro.

Simile attitudine comunicativa diventa caratteristica delle generazioni Y e Z? Dobbiamo alla fine dire così?

Il nostro settimanale, pur nella sua modestia ed inadeguatezza, è onorato di ospitare settimanalmente gli scritti di Miriam Camerini e Paola Franchina, giovanissima studiosa di Ebraismo la prima, giovanissima teologa che studia per la licenza alla Gregoriana la seconda. Sono voci, volti, scritture che rovesciano il canovaccio dell’imitazione ed innovano con il loro semplice comunicare, raccontare, persino affabulare, che è im-mediato, per appunto, non affidato ad una gigantografia dell’io con cui travestire la propria personale concretezza, quasi fosse da nascondere per chissà quali motivi.

Avevamo promesso ed avvertito però di non scadere in oratorie periodizzanti, che infilano in appositi cassetti ogni nuova foggia del pensare, e sarà bene allora registrare semplicemente un dato: non c’è traccia di narcisismo nelle giovani professioniste della divulgazione del sapere. È uno scacco matto all’io dei compassati “Esperti” di ogni possibile conoscenza, parolai – e parolaie – che si avviluppano nell’estetismo della parola ricercata o dell’antagonismo adorato come nuovo Senso dell’esistere. Sempre contro, anche senza sapere perché. Perché fa “figo”, si direbbe in gergo.

Cecilia Sala, invece, ha dato lezioni di straordinaria dedizione all’alterità, l’alterità di ciò che accade, in Afghanistan come in America Latina, che pure conosce benissimo. E da ieri è in corso il Festival del Cinema Latinoamericano qui a Trieste: Festival del Cinema Ibero-Latino Americano di Trieste 2021 - dal 6 al 15 novembre 2021 (cinelatinotrieste.org).

Oltre al debito di riconoscenza nei confronti di chi sa farci di nuovo animare, risvegliare, scuotere, per qualcosa di diverso dal cronometro delle battute di Matteo Salvini o Enrico Letta – interessantissime, beninteso, ma francamente troppe -, abbiamo da ringraziare Cecilia Sala, Miriam Camerini e Paola Franchina (che non si conoscono), perché ci danno la possibilità di continuare ad entusiasmarci per qualcosa, a custodire sogni e speranze, a non far appassire progetti e ideali.

Se fu triste la morte delle ideologie, funerea, mortifera, è l’ideologia senza idee. In tempi di violenze anti-greenpass vorremmo opporre alle sedicenti ragioni negazioniste un gesto non-violento di studio e riflessione, un ritaglio di epoché sospensiva, uno spazio di silenzio non muto.

Grazie a chi, dall’alto – sì, dall’alto – dei suoi giovani anni riesce a darci di nuovo lezioni di entusiasmo.

Di appassionarci abbiamo bisogno di vitale.

Di scrutare gli occhi che neppure le mascherine possono nascondere e di ascoltare voci diverse, attente, esigenti e foriere di un’utopia conoscitiva che diventa realtà. Grazie a loro.

Buona domenica, buona settimana.