Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

The Child’s Bath, Mary Cassatt, 1893, The Art Institute of Chicago - immagine tratta da commons.wikimedia.org


La bambina, la malattia, la morte



di Simona Margotto


2 APRILE 2021

TUTTE LE REGIONI IN ZONA ROSSA

Risalendo indietro negli anni, la memoria mi riporta agli insegnamenti che ho ricevuto nella mia infanzia. Alcuni valori importanti imparati allora, li ricordo con chiarezza, hanno permeato tutta la mia vita, e ancora fanno profondamente parte di me.

Quando ero bambina frequentavo il catechismo all’Oratorio salesiano vicino a casa mia. Il gruppo dei maschi e quello delle femmine viaggiavano separati, cosa che certamente aveva poco senso dal momento che a scuola le classi erano miste già da molto tempo. Ciò che questa situazione semmai alimentava era un desiderio quasi morboso da parte di noi femmine di vedere e sapere dove frequentassero i maschi, dove fosse la loro classe e che cosa facessero, e presumo che ciò valesse anche per loro. Noi, figli del baby boom, eravamo moltissimi. Bastavamo noi ragazze a riempire un’intera classe ai piani di sopra, la zona che era delle suore, uno spazio grande come un appartamento molto ampio, che era il regno delle donne, compreso di salone con lo scivolo e qualche gioco.

Ma torniamo al dunque. Erano anni in cui fare catechismo significava imparare tante e difficili definizioni che prevedevano fra l’altro elenchi di vizi e virtù, comandamenti e peccati ma anche preghiere di ogni genere, spesso molto addietro nella tradizione cattolica, come l’atto di dolore alla fine di ogni confessione. Un posto d’onore era riservato al Pater Noster che risultava impronunciabile e veniva pertanto appreso da queste generazioni, ormai ignare dell'antica lingua clericale, attraverso parole e costrutti per lo più inventati. O almeno da me.

Metodi sorpassati quelli del memorizzare tutto, quasi una tortura visti da una prospettiva attuale, e tuttavia ci consentivano di stratificare una serie di conoscenze religiose che nel tempo entravano senza ombra di dubbio a far parte del nostro piccolo bagaglio culturale, assimilate in modo semplice e duraturo, ma soprattutto condiviso e, per questo, normale.

Le ricordo le mie lezioni di catechismo, in particolare ero molto piccola quando un anziano sacerdote dall’aspetto imponente, capace di incutere un grande rispetto solo attraverso lo sguardo e la postura autorevole, predicava come stesse snocciolando un racconto per bambini, deliziandoci con aneddoti sulle vite dei santi, Don Giovanni Bosco e San Domenico Savio in particolar modo, e storie didascaliche narrate con sapienza.

Noi pendevamo dalle sue labbra. Buffo pensare come nei suoi racconti la levitazione di santi come S. Giovanni Bosco fosse un fenomeno miracoloso, segno di una fede profonda e inoppugnabile, almeno quanto oggi verrebbe annoverata come forma trasversale di spiritualità, afferente piuttosto a culti orientali che al misticismo cristiano. Dalle sue prediche probabilmente era scaturito il mio progetto esistenziale di diventare una santa. Leggevo perfino biografie di santi famosi e questo, insieme all’ancora più ambizioso progetto di partire missionaria, occupò parte della mia giovinezza, abbandonato poi quando fu chiaro che con ogni probabilità era un po’ fuori dalla mia portata.

Nel mio immaginario piuttosto fervido di bambina, Don Giuseppe era pure lui un santo, con quei suoi capelli candidi e due guance pendule che gli davano un’aria innocua e gentile. Per questo lo shock di scoprire che quello stesso sacerdote era stato il direttore del collegio frequentato da mio padre, dove era uomo temutissimo e severo che non lesinava il bastone sui collegiali degli anni ‘30, mi è rimasto per anni come una piccola cicatrice, una ferita bruciante che non mi ha mai consentito di far collimare le due raffigurazioni così distanti della stessa persona.

L’oratorio rimase per anni un microcosmo, nel quale sperimentare le relazioni, l’onestà e la fede, il gioco e il volontariato, e qualche trasgressione.

Dopo alcuni anni infatti arrivò la modernità: il confine fra maschi e femmine fu ufficialmente abbattuto e il rimescolamento diede vita di fatto a una realtà tutta nuova, bellissima, che si manifestava con l’occupazione di due grandi cortili e un ballatoio, una zona interna con biliardini e ping pong e perfino un piccolo bar.

C’era inoltre una sala con il biliardo, ma era un ambiente riservato a un tipo di oratoriani che nulla aveva a che fare con noi ragazzi. Gente strana per me, fumatori incalliti, dagli occhi spenti e dallo sguardo problematico. Penso venisse offerta loro questa opportunità di tenersi per un po’ alla larga da qualche bar. Sta di fatto che quella piccola sala per me non è mai esistita, stava fuori dalla mia traiettoria.

Dalla fine degli anni ‘70 iniziò la nostra vera vita all’oratorio. Da lì decollava la nostra esperienza di credenti impegnati. Non solo finalmente stavamo diventando catechisti e animatori anche noi, ma potevamo impiegare il nostro tempo anche in altre occasioni di fede e solidarietà. Tra queste c’era per esempio il fare visita agli ospizi, portandoci dietro le chitarre per intrattenere gli anziani ricoverati e portare la nostra allegria all’interno delle tristi mura di questi luoghi cupi.

Oppure andavamo a smistare nel centro diocesano le medicine utili per il Terzo Mondo, dove a quanto pare le malattie differivano dalle nostre.

O si attendeva la fine della scuola, per fare la raccolta degli abiti usati per la Caritas, ammassati su camioncini che venivano sguinzagliati per tutta la città, al fine di raccogliere gli emblematici sacchi gialli pieni di vestiti dismessi certamente riciclabili per i poveri di tutto il mondo.

Come vedo con gli occhi di oggi questo strano orizzonte che era la mia vita di allora? Che senso hanno adesso la catechesi, le messe, le veglie davanti al crocifisso, le recite parrocchiali, la testimonianza, e tutta quella serie di attività condizionate dal pensiero cattolico che allora era davvero il mio mondo?

Il mio sguardo non è severo. Credo invece di essere stata privilegiata. Ho vissuto momenti di partecipazione e gioia così autentici che difficilmente dopo ne ricordo di uguali. Ma non è solo questo a rendermi così indulgente di fronte a una realtà che non mi appartiene più e che mi sembra lontana anni luce.

In quegli anni si è costruito piano piano il mio zoccolo duro di credenze e valori. Che sono ancora parte di me. Sono me, per quanto negli anni io possa aver mutato il senso della mia spiritualità, divenuta un’esperienza interiore non più legata a una forma ufficiale di religione.

Migrata pian piano al di fuori dell’oratorio, negli anni dell’università che mi impegnavano molto in quanto facevo la pendolare tra La Spezia e Genova, mi dedicai per un paio d’anni a un’associazione di cui non ricordo neanche il nome, un acronimo probabilmente, che si occupava di malati nei reparti di lungodegenza dell’ospedale. Per chi non avesse familiarità con questo tipo di reparti, allora ne esistevano due: geriatria e lungodegenza, che ospitavano per lo più persone molto anziane, sole talvolta o comunque abbandonate in ospedale per mesi, con patologie molto differenti fra loro che le portavano lentamente e inesorabilmente alla fine.

Il compito di noi volontari era di affiancarle nelle lunghe giornate trascorse in questo stato di inedia, senza nessun altro scopo che fare loro compagnia e chiacchierare un po’. Erano in grado? Sì, per lo più lo erano, anzi, a dirla tutta spesso si risvegliavano dal torpore proprio in virtù di una presenza umana al loro fianco, e si lasciavano andare al racconto della loro vita, dei loro affetti e del passato, rimembrato con dolce nostalgia e una punta di amarezza o dolore.

A volte ci segnalavano bisogni che per ore avevano tenuto per sé, nel timore di importunare il personale e forse di essere poi tacciati come noiosi disturbatori. Spettava a noi allora chiamare, e chiedere di volta in volta la padella o il pappagallo, un'occhiata alla flebo, il cambio delle lenzuola sporche, o addirittura di farli alzare per sgranchire le membra arrugginite da tanto riposo.

Piccoli servizi erano possibili anche per noi, per questo probabilmente eravamo ben tollerati dal personale infermieristico: aiutare a mangiare i meno autonomi, accompagnare fino alla porta del bagno chi poteva camminare, portare un libro o un giornale, controllare che nell’armadio ci fossero ancora i loro pochi beni: due vestiti appesi che lì sarebbero rimasti, e una borsa con la biancheria. Non era l’epoca delle bottigliette di plastica, e nemmeno dell’usa e getta: ogni malato aveva le sue posate, il suo bicchiere di vetro - l’acqua di La Spezia è sempre stata buona e si beveva dai rubinetti senza pensarci -, la sua tovaglietta e il tovagliolo. Si sopperiva qualche volta con tovaglioli di carta ai bisogni dei più soli. Ma sempre, sempre, ciò che importava era per loro poter parlare. Essere ascoltati, accolti, nella profonda solitudine per molti. Sentirsi ancora umani, esseri che a dispetto di un corpo malato ormai inutilizzabile, martoriato dai dolori o dalle piaghe da decubito, erano riconosciuti nella loro individualità, non come malati, non con il numero di letto, ma con un nome, un cognome e una storia. Una storia da raccontare, a volte timidamente, a volte con un impeto che trasfigurava i loro volti.

L’impatto che più mi ricordo fu quello con un uomo sofferente ma lucido, che la prima volta in cui passai nella sua corsia mi accusò ad alta voce di essere la solita brava ragazza, che si voleva sentire anche una brava cattolica sulla loro pelle, senza avere un’idea della reale sofferenza provata dai malati. Era stato aggressivo e antipatico, mi aveva fatto arrossire e vergognare, perché tra l'altro aveva detto solo cose vere.

Ma dalla settimana successiva mi aveva adottato in maniera quasi esclusiva. Guai se non passavo almeno la metà del mio tempo da lui. Forse ero il suo zimbello e in fondo credo che si divertisse a manovrarmi un po’, ma so di avergli fatto compagnia e avere accolto i suoi sfoghi e le sue frustrazioni che a nessun altro certamente interessavano.

Di tutti i servizi che ho prestato nella mia vita, questo è stato più di ogni altro quello che mi ha reso adulta. Non buona, non utile. Adulta.

Non si può mentire a se stessi fra le mura di un ospedale. Nei malati mi sono specchiata e ho appreso tanto sull’essere umano e molto di più su me stessa.

A 20 anni non è scontato fare i conti con la fine. La morte aleggiava in tutti i loro volti, e spesso arrivava fra l'altro, in persone che avevo assistito per mesi.

Abbiamo tanti bisogni nella nostra vita. Ci hanno insegnato a distinguerli in bisogni primari e secondari. Acqua, cibo, vestiti, una casa sopra la testa, e calore. E poi qualche confort, sopravvenuto con la modernità. Impossibile da elencare, troppo diverso per ognuno di noi. Ci basta questo? No ovviamente. Non ho parlato delle relazioni, dell’affetto e dell’amore. Né della vita in società, delle regole comuni e dei doveri e diritti di cui godiamo.

Non so… mi sembra profondamente prioritario, e importante per affrontare la vita con il coraggio che necessita, poterci garantire anche di non morire soli.

È un bisogno primario? Sì.

Siamo esseri fragili travestiti da supereroi. Viviamo in tanti di quei modi che sarebbe impossibile annoverarne anche una minima parte. Ma dietro ogni gesto di ogni giorno alberga in ciascuno di noi, nascosta, la paura.

È la paura di morire? Sì.

Possiamo mentire a noi stessi, ma c’è, è lì, che alligna. E condiziona i nostri gesti e il nostro pensiero. Migliaia sono le paure piccole e grandi che proviamo nella vita. Ma tutte, tutte, sono riconducibili alla paura di morire. Tanto più di morire soli.

È una cosa naturale? Sì.

Perché mai non dovrebbe esserlo. C’è bisogno di chiederselo?

Se non fossimo mortali, quante cose sarebbero diverse nella nostra vita! Quanta solitudine e vigliaccheria e chiusura si risolverebbero.

Ma siamo così, nati con una scadenza che incombe su tutta la nostra vita.

Pochi anni fa in un film piuttosto originale veniva immaginato che per via di un dispetto divino a ciascuno comparisse la data della propria morte: anno, mese, giorno e ora.

Le reazioni imprevedibili risultavano esilaranti sullo schermo, ma non uno di noi è uscito dal cinema senza chiedersi se non sarebbe stato utile, in fondo, che potesse davvero essere così. Tuttora io non ho trovato la risposta.

Se abitassi in un luogo di guerra, se fossi un profugo, una persona che fugge da qualcosa o un uomo disonesto e violento, che rifugge dal consesso umano, metterei in conto di poter morire da sola.

Tuttavia, in quest’epoca in cui mi è stato dato di vivere e in questa particolare società, alla quale do il mio quotidiano contributo di brava cittadina, una società che si pregia di essere moderna e democratica, non mi aspetto che ciò possa avvenire. Non mi sono mai aspettata di poter morire sola.

La realtà sembra essere, ora, ben diversa.

Ed ecco che, all'improvviso, senza che io li abbia invocati, saltano fuori i miei valori profondi. Non mi hanno forse insegnato fra i principali doveri di un buon cattolico, ma soprattutto di un qualunque essere umano che possa definirsi tale, quello di assistere i malati? Non è sempre stato insegnato a ogni bambino di questa società che è dovere di ciascuno stare vicino a chi soffre, recare conforto, assistere i nostri cari fino alla loro dipartita?

Da quando questo basilare principio del vivere comune e di ogni società che si rispetti viene meno all’improvviso, senza che nessuna voce si alzi, non si elevino slogan né alcuno spenda nemmeno una parola per ricordarlo?

Non riesco a mettermi nei panni, oggi, di tutte queste persone sole, che lasciano chi amano con un pensiero da lontano. Nessuno raccoglierà le loro dolcezze, la loro voce flebile rimarrà inascoltata. La paura non si estinguerà in virtù di una mano stretta o una carezza, ma le accompagnerà fino alla fine, autoalimentandosi della loro solitudine. Lo stato di abbandono non troverà un riscatto finale.

Lo trovo inaccettabile, un pensiero spaventoso.

E la mia mente torna a quando, bambina, mia madre insieme a mio padre corse a Pescara perché sua mamma si era gravemente ammalata.

Eravamo tre bambine piccole, e mai una volta mia mamma ci aveva lasciato nelle mani di qualcun altro, neanche per una notte. Eppure mia zia, sopravvenuta a vivere con noi per alcuni giorni, non manifestò né meraviglia né diniego per questa partenza dei nostri genitori così improvvisa e frettolosa.

Avevo 7-8 anni forse, ero una bimba timorosa del buio e di mille altre cose, piena di inspiegabili paturnie ingiustificate. Nondimeno quel che mi ricordo furono i miei tentativi anche notturni di pregare per mia nonna, sperando che la voce della mia preghiera zittisse la paura, e soprattutto la mia coscienza: ero preda del senso di colpa per aver pensato in alcuni momenti che avrei voluto avere mia mamma in fianco a me. Sapevo che ciò era sbagliato. Avevo la certezza che anch’io, un giorno, trovandomi in una situazione analoga, avrei fatto come mia madre e mio padre, e che questo sarebbe stato un esempio da imitare.

Si può provare senso di colpa a 8 anni? Sì.

Se ciò che ti hanno insegnato come uno dei più importanti valori della tua vita è quello di stringere la mano a chi muore e di rimanergli accanto fino alla fine.