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«Come se stesse tutto prendendo una forma quasi prevista e necessaria».

Della teografia psiconnigamica




di Stefano Sodaro



Da ieri mattina, qui a Roiano - popolarissimo quartiere di Trieste -, un gallo canta, a regolari intervalli di solo qualche minuto, ogni ora. Ripete il suo verso più volte, poi tace a lungo. Poi riprende. Tace del tutto solo la notte.

Pare un appello a ridestarci, a prendere coscienza, a non assopirci se non per dare nel sonno pace ai corpi e alle menti.

Le notizie che giungono su quanto accaduto nel mare al largo della Libia sono spaventose e chiamano in causa la nostra coscienza, proprio mentre festeggiamo in Italia la Liberazione dal nazifascismo.

Ha affermato Giuseppe Dossetti ormai più di trentacinque anni fa: «Il monastero (…) è veramente un microcosmo, o se volete, un laboratorio in cui si possono fare in scala ridotta esperimenti che io penso trasferibili in scale progressivamente sempre più ampie.

È qui soprattutto che si dimostra la solidarietà del monaco con i problemi più universali e più travaglianti ogni età. Il monaco non può mai abdicare alla milizia incessante per l’amore verso il fratello, tanto più se pensa che nel suo cuore possono aggravarsi o attenuarsi le contese e i contrasti che lacerano il mondo intero a seconda della soluzione che egli dà al piccolo conflitto domestico. Questo è un capitolo forse in gran parte ancora da scrivere, di quella educazione alla pace che da tante parti si auspica e si teorizza e si vorrebbe praticata.

I grandi conflitti che travagliano l’intero pianeta – dal Centro e Sud America al Sud Africa, dall’Afghanistan all’Eritrea, al Sud-Est Asiatico, ecc. – si riflettono in ogni istante nella mia coscienza che può essere divisa dal fratello nella mia stessa piccola comunità: e mi impongono una continua risposta positiva, un continuo superamento del mio egoismo che non vuole morire e che pur sa ormai molto bene che in questa estrema frontiera interiore si gioca la riuscita e il fallimento della mia vita avanti a Cristo e si gioca a un tempo il reale contributo positivo o negativo alla salvezza storica del mondo minacciato di distruzione totale nell’era atomica che viviamo.

Quando poi per giunta il mio cenobio è anche materialmente collocato su una frontiera contesa e su uno dei punti più caldi del pianeta – come lo è di fatto per me e per noi a Gerusalemme e in Giordania – allora la coscienza di questa solidarietà fra il piccolissimo e l’universale diventa, e dovrebbe diventare, ancora più acuta e tradursi continuamente in un auspicio e in un impegno che, per essere silenzioso e interiore, non dovrebbe essere meno categorico e continuo.» (Discorso pronunciato da Giuseppe Dossetti in occasione della consegna dell’Archiginnasio d’oro – Sala dello «Stabat Mater» del Palazzo dell’Archiginnasio, 22 febbraio 1986, in G. Dossetti, L’eterno e la storia. Il discorso dell’Archiginnasio, a cura di E. Galavotti e F. Mandreoli, EDB, 2021, pp. 58-59).

Se si provano ad accostare queste parole a quelle – del tutto sconosciute, perché pronunciate in un colloquio personale – di una grande mistica della tradizione d’Israele che osservava che accade qualcosa «come se stesse tutto prendendo una forma quasi prevista e necessaria», l’impressione è tale da dover preferire in definitiva il silenzio all’eloquio.

Il piccolissimo bene, nucleare, appena incipiente, il segno appena visibile, e il dramma sconfinato di chi ancora muore di Covid-19 negli ospedali, o affogato in mare mentre le cancellerie d’Europa dibattono e osservano protocolli, ma anche il dramma di chi avverte in sé un male che sconvolge la mente, che prostra, tormenta, non dà respiro, non si placa. Se tutto questo viene messo assieme – il piccolo bene, il seme, l’inizio di una forma quasi prevista e necessaria e il male che pare invece già giganteggiare, ben formato come un oscuro infinito -, la collisione che ne deriva non porta a distruzione, ma a vita nuova, come una fusione nucleare che avvenga sul Sole e non sulla Terra e che potenzi il calore che ci riscalda e conforta e fa fiorire i prati estivi e cantare non solo i galli al mattino.

Il tutto che prende una forma quasi – si badi bene a questo “quasi”, preziosamente rivelativo – prevista e necessaria dice l’esatto contrario della fatalità inevitabile, della sciagura che incombe, della definitività del soffrire ed anzi rovescia i giochi fatti e apre a possibilità inedite, mai sinora sperimentate, non di semplice relazionarsi come che sia, non di una a volte piuttosto ambigua “fraternità”, bensì di nuzialità, di “gamia”, di sponsalità. Vocaboli inopportuni, audaci, azzardati, irrispettosi, forse addirittura sconvenienti e scandalosi? Per qualcuno può essere che sia così, ma si tratta di capire in che direzione si muova la propria opzione fondamentale di vita, lungo un senso unico unitivo o distruttivo, aperto o narcisista, autocentrato o estroflesso.

Il conflitto salutare tra il piccolissimo seme di bene e l’enorme male – ieri si è fatta memoria del Genocidio Armeno, Metz Yeghern, il Grande Male – dev’essere però anche scritto, descritto, e detto, articolato, appalesato nel nostro linguaggio, che così diverrà, senza quasi accorgersene, necessariamente “teografico”, scrittura di Dio, niente poco di meno.

E siccome tutto nasce dalla propria interiorità – è la “quasiprevisione e necessità che struttura congiuntamente il nostro essere più vero e profondo –, la forma di là da venire, ma già intuibile, è, con un neologismo sempre assai azzardato (ci perdonino gli scandalizzandi), “psico-onni-gamica”, o messo tutto in greco: “psico-panto-gamica”, capace cioè di fare del proprio sé la giuntura d’unione al mondo, contro ogni male, davanti a quel Dio il cui nome abita proprio il silenzio ed è alla fine impronunciabile.

Teografia psiconnigamica.