Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Illustrazione di Vittorio Boro (1859-1940) “Dopo il tramonto al Convento dei Cappuccini, Floriana” - dal libro Malta di F. Ryan - immagine tratta da commons.wikimedia.org


Quale ministero cappuccino?

Per uno sguardo generale

di Luca Minuto OFMCap

Presso tutti i popoli esiste una figura umana che fa da intermediaria tra Dio e l’umanità. La denominazione ricorda questo ruolo di passaggio tra i due mondi: è colui che dà il sacro, cioè il sacerdote, colui che costruisce i ponti, cioè il pontefice. Lo scrittore romano Tacito nella sua opera Germania ci regala un’immagine efficace di queste figure raccontando di Nertho, una divinità dei popoli nordici il cui simulacro viene portato di tanto in tanto (“Quando il sacerdote se ne accorge”) in giro per i villaggi dell’isola dove è custodita. Quando la dea è stanca del contatto umano si fa riportare nel santuario e viene lavata in un lago.

A ciò provvedono dei servitori che subito lo stesso lago inghiotte; di qui un arcano terrore e un religioso mistero su che cosa sia quell’ente che solo chi sta per morire riesce a vedere[1].

Il ministro viene in qualche modo inghiottito dal sacro, è tutt’uno con esso, pur restando ancora nella sfera umana. La partecipazione a questi due mondi gli è indispensabile per favorirne gli scambi, che avvengono soprattutto in termini di sacrificio e comunicazione di messaggi. Il sacerdozio veterotestamentario, in particolare quello legato al Secondo Tempio, corrisponde, pur con le relative specificità, a questa immagine.

Ora il cristianesimo opera uno slittamento semantico riferendo al solo Gesù il titolo di sacerdote ed estendendolo per analogia a tutti coloro che, seguendo il suo esempio, donano la propria vita. Tra questi chi aiuta gli altri a seguire l’esempio di Gesù è ministro, cioè servitore del comune sacerdozio.

Il triplice ministero cristiano, ha la funzione di custodire e tramandare l’oggettività della forma Iesu ed è significativo che due dei tre gradi siano etimologicamente connessi con il verbo vedere[2]. In pratica il ministero cristiano custodisce e tramanda lo stile di vita del servizio assunto da Gesù come nuovo culto al Padre.

La modalità in cui ogni comunità cristiana vive questo ministero è legata alle condizioni del tempo e del luogo. Anche la loro importanza è legata alla forma ecclesiale: nelle comunità giovannee ad esempio il servizio rivendica la stessa (se non superiore) dignità dell’annuncio, mentre in quelle paoline è l’aspetto dell’insegnamento a prevalere (e che cosa ci si poteva aspettare da uno cresciuto alla scuola dei rabbini?).

Quando Francesco e i suoi compagni optano per l’osservanza del Vangelo sine glossa mediante la pratica della povertà, si rende necessario che anche questa piccola chiesa nella Chiesa si strutturi attraverso una ministerialità. Questa ministerialità deve necessariamente omologarsi a quella della Chiesa universale dove il modello paolino si era affermato nettamente, ma riscopre e valorizza la diaconia. Per questo motivo i conventi, accanto alle figure dei predicatori e dei confessori prevedono anche quelle dei questuanti, dei portinai, dei cucinieri. La tradizione cappuccina in particolare valorizza queste ultime figure chiedendone più volte la canonizzazione, sostenuta dal popolo. I frati infatti nella loro storia hanno saputo condividere la vita del popolo evangelizzandola dall’interno, sia nell’ambito caritativo che catechetico.

Ora questo non cancella la dimensione antropologica che abbiamo visto all’inizio: l’homo religiosus ha bisogno di un tramite tra sé e il divino e il cristiano, che, se anche battezzato, sempre uomo rimane, trasporta questa figura sul ministro sacro. Non è un tradimento, ma antropologia, quella stessa antropologia a cui Gesù stava sottomesso (si veda quello che viene detto per i sacerdoti veterotestamentari, il cui ruolo non è mai messo in dubbio da Gesù). Semmai il cristianesimo corregge e orienta questo antropologico di fondo che non deve mai scomparire, pena la perdita del carattere escatologico e apocalittico dell’evento cristico[3], accompagnato dalla sostituzione del cristianesimo con pratiche pagane o dalla reintroduzione di ritualità e forme del passato.

Il dato storico ci mostra una Chiesa che per secoli ha favorito l’istanza antropologica in favore di una sua maggiore adattabilità al modello statale. Anche questo non è da intendersi né in termini di condanna, ma di adeguatezza della Chiesa alla situazione sociale, né in termini troppo assoluti, come dimostra la fioritura di santi che richiamarono un ritorno al modello evangelico[4].

Oggi non solo siamo eredi di una separazione tra chiesa e stato, ma viviamo anche un allontanamento tra chiesa e società, dove è naturale che vengano messi in discussione i modelli che funzionavano ancora fino a qualche anno fa4. Un esempio pratico può aiutare a capire questo processo. Partiamo dalla pastorale giovanile: negli anni ’70 e ’80 si erano investite molte risorse nell’allestimento di strutture rivolte ai giovani: campi sportivi, cinematografi, oratori, teatri, sale d’incontro. L’oratorio costituiva il punto di riferimento e il luogo d’incontro dei giovani della parrocchia. Ora le stesse strutture risultano vecchie e inadeguate a soddisfare i bisogni dei giovani, non solo perché hanno qualche decennio, ma perché i giovani dispongono di alternative più valide a quello che può offrire loro la parrocchia e non meno socializzanti. In pratica i giovani non hanno più bisogno del vice parroco per trovarsi. A questo possiamo aggiungere una sempre maggiore sfiducia nell’istituzione ecclesiastica accusata di confessare un rigorismo morale, soprattutto in campo sessuale, inadeguato al tempo, smentito dal comportamento di alcuni suoi rappresentanti[5].

Questo esempio (e lo ripeterò all’infinito) non vuole aprire discussioni polemiche sulla pastorale giovanile, intende offrire alcuni spunti esemplificativi della separazione tra chiesa e società.

Un altro esempio ci aiuterà a chiarire meglio la direzione di fondo: fino all’11 settembre 2001 la chiesa era l’unico riferimento religioso italiano. Quando si parlava di religione si parlava di chiesa, il cappellano ospedaliero o delle carceri era un prete, l’insegnante di religione era nominato dal vescovo, il sindaco partecipava alla processione di paese. A partire da quella fatidica data[6] si scopre l’esistenza dell’Islam nelle nostre società e oggi in ospedale si affaccia l’ipotesi di luoghi di culti diversi da quello cristiano, nelle carceri prestano servizio diversi imam e volontari della moschea, a Firenza un musulmano riceve la cattedra di religione[7], a Torino il sindaco partecipa alle principali feste musulmane (tra cui l’Iftar Street che raccoglie forse più persone che non la processione del Corpus Domini[8]).

Da questi esempi si avverte come sia cambiato anche il ruolo del ministro cristiano all’interno della società, che tende a non riconoscergli più lo statuto di prima, ma sempre più a tollerarlo a patto che rimanga nel suo recinto e non pretenda di avere una parola più rilevante rispetto ad un altro. L’avvento del Covid19 ha solamente ingigantito questa tendenza mettendoci davanti all’evidenza che, nonostante gli strombazzamenti mediatici di vescovi, preti e devoti, l’ultima parola in tempo di pandemia è degli scienziati.

Ora ci attende il compito di ripensare la figura del ministro in rapporto con questo modello sociale, giacché, se è pensabile e forse auspicabile, un cristianesimo senza stato, non lo è senza società.

Non è questo che farò in questo contributo e penso che non sia compito di nessuno, se non, in modalità generali, delle conferenze episcopali e ancor più generali del Magistero.

Il ministero infatti nasce dall’ascolto comunitario della Parola di Dio e si struttura nell’incontro tra le esigenze evangeliche e l’analisi delle condizioni antropologiche, sociologiche e politiche in un cammino storico indeterminabile e aperto alla possibilità di un compimento. Ancora più sinteticamente possiamo pensarlo nell’incontro tra la promessa strutturante della memoria Iesu[9] e l’azione strutturata dell’uomo nel suo contesto storico[10].

L’esortazione Querida Amazonia di papa Francesco può rappresentare un luogo interessante soprattutto se confrontata con le premesse del Sinodo. Davanti a chi auspicava (o temeva) l’introduzione di nuove figure con slogan come: preti senza celibato o diaconato femminile, Francesco non percorre quella strada, anzi esprime la viva intenzione di non percorrerla. Chiede piuttosto di camminare per le vie invocate dal Sinodo per costruire una chiesa amazzonica, dove tutte le questioni sollevate potranno diventare oggetto di riflessione. Così il capitolo sulla forma della Chiesa non nega né apre, semplicemente rimanda la palla, si appella alla responsabilità di una Chiesa locale. Laddove si rischiava di introdurre delle figure nuove che sarebbero diventati ministri di serie B, fossero stati sposati o donne, Papa Francesco ha scelto di percorrere il cammino difficile di una Chiesa dal volto amazzonico, che affondi le sue radici nelle tradizioni e culture dell’Amazzonia, che prenda in mano le sfide socio- economiche e politiche di quell’area e infine che si metta in ascolto della Parola e sarà proprio l’ascolto a suggerire forme ministeriali adeguate.


Aprire il sacramentario

Dopo aver precisato sinteticamente alcuni orientamenti legati al ministero in generale approcciamo la liturgia attraverso il settenario sacramentale. L’intento è quello di considerare i sette capitoli della sacramentaria come ambiti di vita che emergono nelle sette celebrazioni, simili a punte di iceberg, ma che presentano montagne di ghiaccio sommerse. In ognuno di questi ambiti cercheremo di leggere alcune attività dei frati e individueremo strade percorribili per il presente o per il futuro (magari su sentieri dimenticati del passato).


Sacramenti dell’iniziazione

Il primo annuncio della fede e l’approfondimento attraverso un itinerario catecumenale sono i primi elementi che si affacciano quando parliamo di iniziazione. Sebbene nei nostri contesti molte persone siano state battezzate da bambini e ancora fanciulli abbiano seguito gli itinerari catechistici, ci rendiamo conto che quelle poche nozioni sono insufficienti a rendere ragione della fede, per cui si rendono sempre più necessarie esperienze di primo annuncio e percorsi catechistici che vengono realizzati nelle missioni popolari o in itinerari prestabiliti, come i dieci comandamenti o i sette segni. In questi momenti la presenza dei frati non è necessaria soltanto come soggetti attivi di una predicazione, ma anche e forse più come animatori di quella relazionalità senza la quale l’annuncio cristiano si riduce a puro nozionismo e che viene espressa, sempre nell’iniziazione, dalla tappa dell’accoglienza comunitaria sottolineata dal rito della Confermazione. Più volte nelle missioni popolari la gente è rimasta colpita dal nostro stare insieme nonostante le vistose differenze piuttosto che dalle nostre predicazioni. È proprio a partire da questo miracolo che è possibile rendere ragione di una fede che ha già una evidenza in sé.

Il battesimo è la prima celebrazione pasquale di un’esistenza, ciò non significa che sia l’ultima. Il richiamo all’acqua ritorna costantemente nella vita cristiana per sottolineare tante “rinascite”. Il trasferimento in una casa nuova, l’acquisto di un mezzo importante, la consacrazione di un amore (che vedremo dopo) sono tutti momenti in cui si “chiede la Benedizione”, senza dimenticare l’ultima aspersione sulla bara. La benedizione è strettamente connessa con la vita, quella vita che viene donata dall’incontro con il Risorto[11] .

Qualche volta questa semplice celebrazione viene snobbata forse per il suo essere troppo “laicale”, tuttavia se continuiamo a considerare il ministero come uno stato di chi cura cose superiori, lasciamo pure perdere, diversamente notiamo che il ministro è chi si mette a servizio dell’annuncio del Risorto. È come l’angelo del sepolcro che scompare dietro un annuncio più grande di lui, ma che, nonostante questo, rimane icona della Pasqua. Il tratto antropologico dell’identificazione con la sfera divina che abbiamo visto rimane purificato dal servizio alla parola.

Essere uomini di benedizione, accompagnare fraternamente le genti ad accogliere la vita in Cristo e a rendere grazie con la vita. Forse nella semplicità di queste celebrazioni domestiche possiamo ritrovare un tratto interessante della nostra tradizione di frati del popolo, di persone che sanno entrare in relazione con tutti, come dice Manzoni: entrar nei palazzi e ne’ tuguri con lo stesso contegno d’umiltà e sicurezza[12].

Il fatto che non sempre le nostre condizioni ci permettano la visita alle case non ci può esimere dall’accogliere la richiesta di una benedizione e offrire la possibilità di celebrare questo momento. Al di là del “tieni qui c’è l’acqua e su internet trovi la formula” c’è un accompagnamento accorto anche sulle formule di preghiera, con l’attenzione che rimangano parole e gesti semplici ed espressivi.

I sacramenti della vita infine toccano anche la morte e il suo accompagnamento. L’angelo del sepolcro annuncia una resurrezione all’interno della morte, così in diversi contesti è facile che siamo chiamati a dire una parola nella morte. Sono magari i contesti più abbandonati, quelli dove nessuno vuole andare, ma dove riusciamo ad entrare grazie al nostro semplice essere amici delle persone.


Eucaristia

Celebrare l’Eucaristia significa vivere il cuore dell’esperienza cristiana. Non possiamo permetterci di celebrarla senza accettare di cambiare, altrimenti è ritualismo e cosificazione.

L’Eucaristia è in primo luogo una liturgia domestica, è la memoria della vita di Gesù inserita nel ricordo di una cena. L’Eucaristia non può partire da formule rituali, ma dal nostro stare a tavola, dal riconoscere che il cibo è dono, come siamo soliti a ringraziare. Questo stare a tavola ci porta al mercato, dove la scelta dei prodotti, le relazioni con le persone che incontriamo non possono non irradiarsi a partire da questo centro vitale che è il Signore Gesù. Pena la nullità sacramentale, il vuoto ritualismo.

Fare la spesa con le relazioni, le scelte che comporta può essere solo una faccenda tra mille, ma può anche essere luogo di annuncio. Andare al mercato, il giro tra i banchi, la visita ai negozi, mi ricorda lo stile degli antichi questuanti. Per loro l’approvvigionamento del convento era una vera e propria Eucaristia: i doni che ricevevano diventavano benedizione e vita per tutta la comunità, compresi i poveri. In qualche modo attualizzavano quella stupenda predica dei due altari di Giovanni Crisostomo che tutti prima o poi abbiamo meditato[13].

In periodo di Covid19 diversi esercizi hanno messo parte della merce a disposizione dei poveri. Chissà che non si siano trovati mezzi moderni di rivivere quanto Manzoni scrive di noi cappuccini ne “I promessi sposi” quando fa dire a fra’ Galdino: «Noi siamo come il mare, che riceve acqua da tutte le parti e la torna a distribuire a tutti i fiumi»[14].

Anche la preparazione del pasto può essere eucaristica: la fatica che la cucina comporta è luogo di evangelizzazione nella scelta di cucinare bene e buono perché i commensali siano felici. Anche l’antipasto in più della domenica è quella nota di gratuità che ci riporta all’Eucaristia, richiamare a quella sovrabbondanza di ricompensa promessa nel vangelo e significata dalla distribuzione dei pani.

Ancora il pasto è luogo dove ci giochiamo il nostro essere cristiani nell’attenzione alle esigenze del prossimo. I suoi scrupoli religiosi, le sue allergie, la sua dieta, tutti elementi che entrano nella preparazione e che lo rendono luogo di accoglienza, a volte anche interreligiosa. Penso a tutte le mense e alle attenzioni di frati, volontari, cuochi ai valori religiosi dei musulmani, a chi è capace di servire con il sorriso senza mormorare: “se hai fame mangi”, ma cercando di capire la logica dell’altro, la sua fame di comprensione. Non è forse un’applicazione del capitolo 10 della lettera ai Corinzi, dove, se ricordo bene dagli studi teologici, si parla dell’Eucaristia?

Non possiamo celebrare la presenza del Signore Gesù in mezzo a noi senza aprire gli occhi su dove viviamo questa presenza. In questo quanto sono belle e utili quelle omelie attente più che mai a cogliere la quotidianità come luogo dove accade l’evento della salvezza!

L’Eucaristia non si riduce solo alla celebrazione della Messa, ma irradia tutta la giornata attraverso la Liturgia delle ore. Il tempo viene santificato, la presenza del risorto abbraccia tutta la dimensione umana.

Accompagnare la gente che condivide i nostri cammini verso una santificazione del tempo, a scandire la giornata con la Parola di Dio, è un servizio essenziale di molte fraternità. L’adattabilità della Liturgia delle ore a diverse situazioni e la sua ripetitività costituiscono una via privilegiata per la scuola di preghiera (dove siamo comunque tutti discepoli dell’unico Maestro).

A proposito dell’esperienza di Charles de Foucault scrive Pierangelo Sequeri:

la percezione di questa profondità, per quanto possa avvenire in modo religiosamente subliminale e senza adeguata comprensione cristiana del suo mistero, è segnata con nettezza per tutti dalla presenza eucaristica. Essa rende avvertibile la differenza del Signore, nel momento stesso in cui rende apprezzabile la sua prossimità con i tratti dell’esistenza più semplice e familiare del discepolo[15].

Nel 2016 all’incontro della CCA venne presentato il progetto di una fraternità internazionale in Amazzonia. Tale fraternità sarebbe stata itinerante (ossia si sarebbe spostata lungo un percorso) e avrebbe avuto il compito di vivere insieme ai popoli indigeni, nonché di prendersi cura delle risorse naturali[16]. A detta di chi ne promuoveva la formazione si sarebbe trattata di una fraternità contemplativa. Interessante osservare come questa forma di evangelizzazione parta dal riferimento orante piuttosto che dalla valutazione delle opportunità pastorali, quasi a voler recuperare il fondamento di ogni nostra attività[17].


La confessione

Prima di affrontare questo ambito voglio sgombrare il campo da due equivoci che non mi sembrano in alcun modo giustificati:

⁃ La confessione è solo un sacramento di cura: non solo, anche, in realtà, come dice il nome è una confessione della misericordia di Dio, una sua celebrazione. Per questo motivo è richiesto che ci sia un ministro a servizio dell’accadere di quell’evento salvifico.

⁃ La confessione è il solo modo che la Chiesa conosce per rimettere i peccati: con troppa fretta ci siamo dimenticati, sebbene noi presbiteri lo ripetiamo quotidianamente, che la Parola di Dio cancella i peccati o che la carità copre una moltitudine di peccati(1Pt 4,7).

L’ascolto dei peccati è stato a lungo il nostro tratto caratteristico e ancora oggi parecchia gente viene nelle nostre chiese a cercare il confessore. Tolto però lo scrupolo di doversi confessare prima di fare la comunione (con il risultato che qualche zelante permette ai fedeli di passare tutta la messa in confessionale per poi mettersi nella fila di distribuzione del prodotto finito), forse dobbiamo capire cosa c’è dietro alla domanda di confessarsi. Molti di noi hanno l’impressione che alcune persone vogliano solo sfogarsi, senza un preciso interesse sacramentale. Questa esigenza si trova anche nelle chat quando persone ci scrivono pensando di confessarsi. Si è detto più volte che andrebbe definito meglio un ministero dell’ascolto non necessariamente legato alla confessione, in modo che possa essere assunto anche da chi non ha ricevuto il sacramento dell’ordine. Va comunque ricordato che il nostro non è un servizio psicologico per poveri, ma un ministero cioè un incontro con il Signore. La persona che in confessionale racconta la storia della sua famiglia è convinta di sfogarsi con Dio, in qualche modo è un atto di fiducia. Si tratta di aiutare a vivere questo atto senza voler entrare nelle scelte e nelle vite altrui, soltanto accompagnando ed eventualmente suggerendo cammini di conversione.

Il servizio alla riconciliazione non comprende solo quella con Dio, si parla anche di riconciliazione sociale. Tanti frati sono stati chiamati e sono chiamati ancora a mediare in situazione di tensione all’interno delle famiglie o della società. Basti pensare che, secondo la tradizione, san Francesco avrebbe composto la lassa del perdono per invitare il vescovo e il podestà a riconciliarsi.

Non deve sfuggirci questo aspetto del nostro ministero che non può esimersi dal giocarsi in una forte relazionalità . Non è però soltanto un compito dei frati. Nel Discorso della Montagna Gesù chiama figli di Dio gli operatori di pace, quindi è un compito che riguarda tutti i discepoli di Gesù e più in generale tutta l’umanità. Anche in questo il ministero dei frati può essere quello di accompagnare la gente a realizzare questa chiamata evangelica alla figliolanza di Dio. In Africa il Damietta Peace Initiative (DPI)[18] è stato per diversi anni una felice intuizione dove, attraverso la costituzione e la formazione di gruppi interreligiosi e interetnici, si creavano équipes di pace. La metodologia prevedeva che ogni gruppo facesse riferimento ad un assistente francescano, che non doveva per forza essere un ministro ordinato e neanche un frate. Un esempio di ministero alla riconciliazione non legato all’Ordine sacro.


L’esorcismo

Non si tratta di un sacramento, ma potremmo situarlo all’interno della cura della chiesa. Si tratta di una liberazione dal male, ma non c’è bisogno di immaginare situazioni fantastiche con locuzioni in altre lingue e fenomeni paranormali.

Pensiamo a quando una persona viene totalmente identificata con il male che ha commesso, come ad esempio un condannato a morte.

In anni di corrispondenza con i detenuti del braccio della morte mi sono trovato soltanto davanti dei poveri diavoli che cercavano un po’ di compagnia. Forse la lettera che mi ha colpito di più fu quella di un condannato che, dopo un anno di silenzio mi scrisse: “durante questo anno di silenzio è morta mia sorella, ho letto la Bibbia e non ci ho trovato risposte alla mia vita, ho detto di essere ateo alla mia famiglia e mi hanno abbandonato. Tu solo hai continuato a scrivermi”. Era un uomo condannato a morte per una serie di delitti, come scoprii in seguito[19].

Pensare al ministero dell’esorcismo come un’attualizzazione della parola di Gesù che restituiva alle persone la loro dignità significa collocarsi a fianco degli ultimi, dei peccatori e saper camminare al loro passo, non aver paura delle mele marce.

Credo che in questo senso i cappellani di prigioni potrebbero istruirci riguardo a questo ministero, ma anche a volte saper uscire dai nostri spazi e abitare le strade, dove il Male cammina indisturbato, privando tante persone della propria dignità filiale. Sapersi sedere accanto, ascoltare, prestare soccorso allo spacciatore, così come al drogato che si accascia a terra sono tutti segni di un amore più grande più forte del male e della morte.


Unzione degli infermi e fine vita

Colloco qui tutto ciò che tocca un tema delicato quale quello della cura della vita. Il male morale trova una sua logica e una sua spiegazione, mentre quello fisico ci lascia senza parole. Il Vangelo è consapevole di questa realtà e quando qualcuno chiede a Gesù un parere su quei giudei fatti uccidere da Pilato, il Maestro risponde presentando la situazione di quelli che si trovavano sotto la torre di Siloe al momento del crollo. “Eppure se non vi convertirete perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,20). Gesù richiama quell’esigenza che aveva posto all’inizio della sua predicazione pubblica.

Del resto san Francesco recepisce questo messaggio quando, nella terzultima lassa del Cantico di frate sole parla di coloro che subiscono infirmitate et tribulatione. La natura, fino ad allora tanto benigna, diventa contraria all’uomo, il quale è beato se sostiene tutte queste cose nella pace, cioè nell’obbedienza a Cristo.

Forse i nostri fratelli cappellani di ospedale o di casa di riposo possono suggerirci che questo è l’atteggiamento cristiano davanti ad una sofferenza che non permette tante vie d’uscita. La conversione non riguarda solo chi soffre, ma anche chi assiste i sofferenti. Penso agli infermieri che sentivo durante i periodi di forte contagio, quando mi scrivevano la lor disperazione, ma anche la loro determinazione nello stare accanto ai malati.

Accompagnare la vita significa aiutare a cogliere ogni singolo respiro come un kairos per aprirsi alla grazia di Dio, aiutare a non farsi strappare la vita, ma a donarla. È appunto la decisione di questo dono che riconcilia e che apre alla possibilità di un’eternità che si manifesta nel perdono del Crocifisso, nella sua condurre la scena fino alla consegna della madre e dello Spirito.

Oggi la società dispone diverse opportunità per valutare il cammino di una vita. Se anche non tutte sono contemplate dal Catechismo, sarà utile ricordarsi che il primo precetto è la carità ed è proprio a partire da questa che si possono trovare vie per assistere ed accompagnare persone nelle varie situazioni e in diverse scelte.

Questo accompagnamento non può essere lasciato ai singoli, ma per necessità deve essere comunitario. Lasciano il tempo che trovano i commenti bigotti sui social nei confronti di chi ha scelto di porre fine alla propria esistenza mediante l’ausilio di mezzi e non si chiedono che fine abbia fatto la comunità cristiana in quelle esistenze, quale supporto abbiano avuto.

Non dimentichiamo che nella società esistono diverse organizzazioni che si preoccupano di accompagnare chi fa richiesta verso il fine vita. Pensare di collaborare con queste realtà non sarebbe forse un tratto di quella fratellanza che vogliamo rivolgere a tutto il genere umano. Forse, se accettassimo di stare al tavolo (e qualche volta anche di dare ragione agli altri) potremmo dire la nostra e qualche volta venire ascoltati.

Forse una ministerialità dell’accompagnamento della malattia e del lutto può svilupparsi senza bisogno di ordine sacro, ma a partire da precise competenze. Diversi nostri confratelli hanno scelto di studiare medicina per poter stare vicino all’uomo sofferente. In alcune circoscrizioni dell’ordine questo interesse ha portato a creare una vera e propria missione medica.

In Francia all’interno delle comunità nasce un ministero di accompagnamento del lutto, che, in modo formato e professionale, si prende cura di aiutare i familiari ad organizzare il funerale e il saluto.

Sono esempi di controtendenza rispetto ad una concezione che riduce l’accompagnamento dei malati ad un’unzione e quello del lutto a un funerale celebrato frettolosamente tra una riunione di pastorale e una di catechismo.


Ordine

Il sacramento dell'Ordine si colloca all'interno della dimensione missionaria della Chiesa, di cui si pone al servizio. Occorre tenere presente questa specificazione per capire che in ogni atto missionario Cristo è operante e la garanzia di questa sua presenza si dà nel sacramento. Per questo motivo non possiamo ridurlo ad una celebrazione per vescovi, ma riguardo ogni volta che programmiamo un intervento missionario.

Dal mandato ai catechisti a quello degli animatori o degli assistenti ai malati non può mai mancare la dimensione pubblica dell'evento, la lettura della Parola di Dio e un gesto carico di significato come l'imposizione della mano. Attraverso questo gesto la comunità intera riconosce in quella libertà l'azione di Dio ed esprime la propria riconoscenza. Anche un vestito o un distintivo segnano fisicamente l'entrata in questo tipo di servizio.

La dimensione dell'accompagnamento e della formazione non dovrà essere trascurata come parte fondamentale di questo ambito. Sempre più il mondo del lavoro e della società richiedono figure specializzate in ogni tipi di professione. Non basta più affidarsi al buon cuore , forse è necessario che chiunque operi nella pastorale riceva una formazione adeguata anche dal punto di vista teologico. Si tratta non solo di ricevere tutte le informazione adeguate a svolgere bene il proprio servizio, ma di poter fondare quel servizio nella Parola di Dio e nella tradizione viva della Chiesa.

Chi di noi vive il servizio dell'assistenza al mondo scout sa da metodo quanto sia importante la preparazione sia alla Promessa che alla Partenza, come sia importante lo spirito di squadra e la festa.


Matrimonio

Forse il sacramento più discusso e difficile. Apro una piccola parentesi: si ripete alla nausea che va celebrato in parrocchia, che i ministri sono gli sposi e che finisce con la morte di uno dei coniugi. Evidentemente il fatto che venga celebrato il sabato mattina o al massimo il primo pomeriggio nella parrocchia di uno degli sposi, con un prete (magari un frate) amico degli sposi, con un coro di amici dello sposo, parenti e invitati che vengono da tutta la città, tranne che dal quartiere della chiesa dove avviene il matrimonio, mi fa pensare che in molti matrimoni della parrocchia rimangano le mura e quello che pulisce il riso. Allo stesso modo gli sposi rimarranno ministri, va bene, ma se non hanno mai aperto una Bibbia siamo proprio sicuri che sia ideale far scegliere a loro i testi biblici (“ah io scelgo quella parte quando lo hobbit incontra il drago”) o anche quelli liturgici? E infine il matrimonio finisce con la morte di uno dei due, bene, legalmente è così, ma se crediamo nella resurrezione non abbiamo motivo di ritenere che vent'anni e più di vita insieme abbiano segnato in eterno quelle libertà? Un po' come una vita trascorsa in convento non segnerà per sempre quella libertà?

Non offro risposte pronte, ma solo spunti di riflessione: non sarà forse ora di ricominciare a pensare a questo sacramento dalle relazioni personali piuttosto che dalle normative canoniche?

Anche perché vedere il matrimonio unicamente come il sacramento dell'unione tra uomo e donna significa vedere solo la vetta dell'iceberg. Proviamo a vedere nella montagna sottostante tutte le modalità di vivere l'affettività e quindi il rapporto interpersonale che la nostra società conosce e dire che quelle relazioni possono esprimere l'amore di Cristo che si manifesta oggettivamente nel rapporto tra marito e moglie. Questa strada non esclude gli altri tipi di relazione affettiva, ma li rende aperti al riconoscimento dell'azione divina al loro interno. Tra tutti questi modi di vivere la relazione affettiva esiste anche la vita consacrata che, ricordo, non prevede la possibilità di procreare, ma non per questo si associa all'autoerotismo, anzi viene considerata feconda nelle misura in cui la scelta celibataria è vissuta con serietà e dedizione.

Cosa vuol dire discernere l'azione di Dio all'interno di una coppia, di una comunità, di una relazione di amicizia, quale ministerialità se non quella di un ascolto paziente, di un accompagnamento con momenti di preghiera e di ascolto della Parola di Dio? Questa potrebbe essere la piccola strada per arrivare a scoprire come celebrare la presenza di Dio anche in situazioni che oggi ci sembrano lontane e poco raggiungibili. Esistono forse eccezioni di umanità dove siamo esenti dal comando del Signore di predicare il Vangelo? La strada non è lunga, lo sappiamo, e a volte si tratta di percorrere il breve tratto che ci separa dalla porta accanto (quando non dalle nostre famiglie).

Cristo signore del tempo e della storia

Abbiamo visto come il ministero possa essere pensato nella sua chiave teologica, ecclesiologica e antropologica, abbiamo poi percorso il settenario sacramentale alla ricerca di spunti per vivere il ministero come servizio all'attuarsi della fede salvifica cristiana nella vita dei battezzati. Ci troviamo davanti a diverse sfide e raccogliamo linedito di ripensare al modo di vivere un servizio in una società non cristiana. Come abbiamo visto allinizio lincertezza davanti ad uno scenario inedito è grande e rimane la tentazione comune a tutti i fondamentalismi di crearsi degli habitat naturali per sopravvivere alla minaccia di estinzione.

La storia dell'umanità tuttavia ci insegna che esiste una strada più complessa, ma forse anche più interessante, che è levoluzione. In cosa consista di preciso non lo sappiamo ancora, ma vediamo davanti a noi il Vangelo e dietro di noi generazioni di credenti che tra peccato e santità hanno testimoniato al mondo la Buona Notizia parlando al proprio tempo.

Non possiamo oggi esimerci da questa fatica e in modo particolare noi frati. Ho ascoltato ad una conferenza luso di due metafore evangeliche per spiegare il progetto sociale degli ordini religiosi sorti nel medioevo: i benedettini costruiscono la città sul monte, il loro modo di vivere, è di esempio agli altri uomini che vivono in pianura, mentre i francescani sono il lievito nella pasta, quelli che vivono in mezzo agli altri uomini e aiutano la società a crescere dal di dentro. Credo che questa metafora che descrive lorigine e la vocazione del nostro ordine possa aiutarci a riflettere sul servizio che vogliamo prestare a Dio e agli altri uomini.


NOTE

[1] Servi ministrant, quos statim idem lacus haurit; arcanus hinc terror sanctaque ignorantia qui sit illud quod tantum perituri vident. Tacito Germania XL traduzione di Italo Sarcone.

[2] Episcopos deriva dal verbo osservare, mentre presbyteros è colui che guarda più lontano (da cui la parola italiana presbite).

[3] Efficacemente Galimberti parla di cristianesimo come la religione dal cielo vuoto (U. Galimberti, Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Milano, 2012).

[4] Alcune di queste riflessioni si possono trovare in Gian Franco Svidercoschi, il ritorno dei chierici. Emergenza chiesa tra clericalismo e Concilio, Bologna, 2012, in particolare per quanto riguarda il rapporto storico tra clero e società si vedano le pp. 49-59.

[5] Rimanga sempre valida la precisazione che sto parlando in generale e di tendenze, non di singole realtà

[6] La data è convenzionale, in realtà in alcuni paesi europei come in Francia e Gran Bretagna già da prima ci si confrontava con queste situazioni, anche se con modalità diverse.

[7] https://firenze.repubblica.it/cronaca/2019/10/15/news/hamdan_il_primo_musulmano_laureato_in_ scienze_religiose_a_firenze-238635629/

[8] Si tratta sempre di stime indicative.

[9] Qualcuno noterà che manca completamente ogni esplicitazione dello Spirito Santo. Non è dimenticanza, ma temo che questa figura sintetica richieda un’attenzione particolare che ancora non è stata messa debitamente a tema, per cui mi riservo di specificarne i tratti che ritengo funzionali alla comprensione del discorso in un altro momento.

[10] Sapendo che la stessa vita di Gesù non è esente da questo laborioso discernimento e neanche quella della prima chiesa. Potremo prendere come passo esemplificativo (non esaustivo) di questo processo ecclesiologico At 6,1-6.

[11] Dal Benedizionale« Ravviva in noi Signore, nel segno di quest’acqua benedetta, il ricordo del Battesimo e l’adesione a Cristo crocifisso e risorto per la nostra salvezza».

[12] Manzoni, Promessi Sposi, cap. III.

[13] Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: "Questo è il mio corpo", confermando il fatto con la parola, ha detto anche: "Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare" e "ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l'avete fatto neppure a me"(San Giovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di Matteo).

[14] Promessi sposi, cap. III.

[15] P. Sequeri, Charles de Foucault, Il vangelo viene da Nazaret, Milano 2010.

[16] https://www.ofmcap.org/it/notizie/altre-notizie/item/1636-progetto-della-fraternita- cappuccina-internazionale

[17] Cfr. Cost. nn. 55-59.

[18] Al momento si trovano informazioni su DPI nella pagina dell’ufficio di Giustizia Pace e Integrità del Creato dell’Ordine dei Frati minori cappuccini: https://www.ofmcap.org/images/docs/jpic/jpic_ofmcap_journal-2015-r.pdf

[19] testimonianza di un confratello cappuccino.