Ateo di fatto?
di Dario Culot
Papa Leone XIV il 12 maggio 2025 nell’udienza con i giornalisti - foto di Edgar Beltrán, The Pillar, tratta da commons.wikimedia.org
«Ho letto il suo libro Gesù questo sconosciuto, e Le chiedo: papa Leone XIV nell’omelia della sua prima messa da papa, del 9 maggio 2025, ha detto: “Non mancano oggi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di atto”. Lei, dunque, se non ritratta tutto quello che ha scritto, non è cattolico ma ateo di fatto, perché riconosce in Gesù l’uomo ma non Dio. Perché continua a scrivere come fosse cattolico?»
Ascoltando l’intera l’omelia a me sembra che il papa abbia svolto semplicemente una riflessione di quel passo del Vangelo in cui Gesù chiede a Pietro: “la gente chi pensa che io sia?” (Mt 16, 13). Papa Leone in definitiva si limita a sostenere che non credere che Gesù sia veramente il figlio di Dio deve considerarsi all’origine delle tante criticità del mondo contemporaneo e può portare a dubitare della stessa esistenza di Dio, ragion per cui richiede alla Chiesa una nuova rinnovata attività di evangelizzazione. Questo – mi sembra - non implica necessariamente che coloro che non credono che Gesù sia Dio devono ritenersi per ciò solo, automaticamente e necessariamente, degli atei.
Se ha letto con attenzione il mio libro, dovrebbe aver visto che non nego affatto la Trascendenza, credo che Dio esista e credo che Gesù sia Figlio di Dio, non però nel senso che è Dio avendo la stessa natura del Padre: proprio perché non sappiamo nulla dell’ambito trascendente che sta al di fuori della nostra portata, non possiamo sapere neanche in cosa consiste la natura divina, per cui nessuna definizione che diamo di Dio equivale a Dio[1] visto che è impossibile conoscere la realtà di Dio in sé[2]. Dio, ho scritto e lo ribadisco, resta un mistero[3].
Osservava giustamente un grande teologo protestante che, fra gli ebrei e i musulmani che aveva frequentato, alcuni lo avevano fortemente impressionato per la loro fede e la loro saldissima convinzione della presenza di Dio. Si può sostenere con certezza che si è davanti ad una loro pia illusione e che essi ignorano tutto, ma proprio tutto, di Dio?[4] Non credo proprio. Eppure né ebrei né musulmani credono che Gesù sia Dio. Dovremmo qualificare come atei tutti gli appartenenti alla religione ebraica o islamica?
Concordo allora con quanto ha scritto il teologo Vito Mancuso su “La Stampa” del 10.5.2025, che mi permetto di citare perché mi sembra di estrema chiarezza. Il teologo si è chiesto per l’appunto: chi nega la natura divina di Gesù o la valuta diversamente dal dogma cristiano vive in un «ateismo di fatto»? L’autore dice di no. Si può benissimo pensare a Gesù come a un grande uomo, un santo, un profeta, magari il più grande tra i profeti, senza per nulla abbracciare né teoricamente né praticamente la visione atea della vita che nega la Trascendenza e riduce tutto a materia approdando al più puro nichilismo. Negare la natura divina di Gesù non è ateismo, meno che mai lo è diminuirla rispetto alla pienezza della natura divina del Padre. Semmai è una forma di fede diversa dal cristianesimo ortodosso proclamato a Nicea[5] 1700 anni fa che designa Gesù «della stessa sostanza del Padre»[6]. Perché questa visione teologica dovrebbe secondo Lei rientrare nell’ateismo? Non è ateismo, è piuttosto un modo diverso di credere in Dio. Così come quello dell’ebraismo e dell’islam che non attribuiscono alcuna natura divina a Gesù, e sono appunto altri modi di credere in Dio.
Ma proprio a proposito dell’ateismo, Mancuso ricorda come il cardinale Carlo Maria Martini, consapevole dell’esistenza di una dimensione spirituale importante anche nell’ateismo,[7] aveva fondato a Milano l’iniziativa detta “Cattedra dei non credenti” per rispetto dei cosiddetti atei. Sapeva infatti che tanti atei s’interessano a Dio molto di più di certi sedicenti cristiani convinti di avere una fede granitica. Diceva questo compianto cardinale, di cui credo nessuno metta in dubbio l’appartenenza al cristianesimo, che dentro di lui esistevano contemporaneamente un credente e non credente che ogni giorno lottavano tra loro alla ricerca della verità.
Viene poi ricordata, sempre nello stesso articolo, una poesia di padre Turoldo intitolata «Fratello ateo nobilmente pensoso», la quale recita: «Fratello ateo, nobilmente pensoso, alla ricerca di un Dio che non so darti, attraversiamo insieme il deserto. Di deserto in deserto andiamo oltre la foresta delle fedi, liberi e nudi verso il nudo essere, e là, dove la parola muore, abbia fine il nostro cammino». Ecco che non c’è niente di più prezioso del nobile pensare, di quel pensiero che è veramente tale perché sente che qualcosa esiste (altrimenti non cercherebbe) ma che al contempo sa di non poterlo possedere (altrimenti, allo stesso modo, non cercherebbe).
Si capisce, alla luce di queste considerazioni, perché «la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa»[8]. Può darsi allora che le mie considerazioni svolte nel libro che Lei dice di aver letto siano errate, ma perché non me lo dimostra col ragionamento indicandomi dove e perché avrei sbagliato? Adagiandosi senza pensare solo su quello che insegna il magistero più ortodosso, lasciando allo stesso ogni decisione, tanto si sa che esso è infallibile perché supportato dallo Spirito Santo, si corre un grave rischio, perché la tesi secondo cui tutta la verità abita solo nella Chiesa di Roma è una tesi che accontenta e lusinga troppo i ferventi cattolici per non essere immediatamente sospetta[9].
Inoltre, se fosse vietato dissentire, si creerebbe un’evidente discriminazione che tocca la libertà di giudizio del singolo, soprattutto quando proprio Gesù ci ha invitato a giudicare da noi stessi, senza ricorrere all’autorità di altri (Lc 12, 57: «perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?»). La realtà è che in troppi sono ancora succubi di un insegnamento religioso che sprigiona più paura che amore di Dio, in netto contrasto con quello che dicono i vangeli. E, come si sa, la paura genera obbedienza.
Certamente la religione fornisce ai cercatori del Dio dei dogmi[10] molte certezze e molta sicurezza, ma dimentica e maschera il carattere vivente di Dio, che per vivificarci ci scuote e ci disturba, e che possiamo sperimentare solo come un torrente che ci prende e ci trascina via: non abbiamo altro modo di conoscere l’essere di Dio[11]. In effetti, mentre la religione dà sicurezza, la fede inquieta. Ha ben pennellato questa contrapposizione sempre il teologo protestante Gounelle,[12] il quale ricorda come la fede è viva[13] quando ci tormenta, ci mette in movimento, ci lancia in una ricerca, ci impedisce di essere soddisfatti delle nostre credenze, delle nostre pratiche e della nostra etica. Al contrario, una religione che ci dà tutte le risposte, che soprattutto elimina domande, problemi e interrogativi, ci rinchiude dormienti in un guscio ovattato, ci seppellisce come faraoni mummificati in un bel sarcofago: quello dei nostri dogmatismi in cui abbiamo il sentimento illusorio di trovarci perfettamente al riparo.
Chi si ritiene credente perché obbedisce al magistero e crede ciecamente alla dottrina e ai dogmi insegnati cercherà ad ogni costo di mantenerli inalterati ed impedire che vengano toccati, tacciando di eresia o ateismo chi non li accoglie in toto. In nome di una pretesa autorità soprannaturale vieta di metterli in discussione, ma così ci presenta un Cristo imbalsamato. Non a caso papa Bergoglio aveva detto: «Ho come l’impressione che questo povero Gesù sia stato rinchiuso all’interno della Chiesa, e bussi disperatamente gridando: “fatemi uscire”»[14]. Se invece si crede che Dio, l’Emmanuele, viaggia con noi, cammina al nostro fianco, si adatta al nostro intelletto e ai nostri modi di vedere, si manifesta in modo differente a seconda delle circostanze, va rifiutata ogni dottrina che lo renderebbe invariabilmente fisso e immutabile[15]. Allora dovrebbe essere l’esperienza, non il dogma, la fonte della dottrina, il cui compito è di esprimere la prima in termini intellettuali e razionali. La teologia cristiana non dovrebbe riflettere formule meditate dopo aver filosofato, ma dovrebbe fondarsi su esperienze di vita tradotte in racconti. Il punto di partenza deve essere sempre l’esperienza che si racconta. Il dogma dovrebbe essere ridotto alla formulazione (riassuntiva) che una generazione ha dato alla propria esperienza di fede, senza alcuna pretesa di eternità. L’esperienza, poi, deve sempre riuscire a favorire l’inserimento nel flusso di vita, senza fermarsi e cristallizzarsi in formule. Il racconto di allora perciò, o continua anche oggi a coinvolgere, o altrimenti finisce per parcheggiarci in un’ansa del fiume, senza inserirci nel flusso di vita che continua inesorabilmente a scorrere. L’esperienza va sempre rinnovata perché la vita è cammino, e il cammino non si ferma mai. Troppo bella la pagina[16] di frate Vannucci su questo punto, per non riportarla per intero:
“E allora voi vedete bene che il cammino nostro, religioso, di cristiani, non può essere altro che un cammino verso un’avventura continuamente nuova nella vita. Non abbiamo verità da affermare, conosciute ieri o sancite oggi. Non abbiamo delle dogmatiche da annunciare, non abbiamo neppure delle precettistiche da portare avanti.
Siamo in cammino verso l’assoluto. E Cristo è il Vivente. Ecco, di questa verità dobbiamo persuaderci, senza scandalizzarci e senza fermarci in inutili domande, perché quando noi costruiamo attorno al cristianesimo una dottrina, oppure edifichiamo delle precise strutture, morali, giuridiche, istituzionali, noi ci ingabbiamo e non viviamo più la fede[17]. Abbiamo delle credenze, cioè tutto un sistema di concetti espressi in parole… ma ancora non abbiamo la fede.
La fede è credere che la nostra coscienza personale è chiamata ad andare sempre oltre, verso un infinito che si fa sempre più vasto e più sconfinato, verso un orizzonte che, mano a mano ci avviciniamo, si dilata e diventa sempre più immenso. E allora le nostre piccole credenze, le nostre piccole dogmatiche, le nostre piccole strutture, sono edifici di carta che vengono spazzati via da questo nostro procedere.”
Nella stessa ottica si pone il teologo protestante Gounelle, il quale afferma che se Dio incontra l’uomo, si farà per forza un discorso antropomorfico, il quale si deve servire di immagini e categorie umane per dirlo; non si può fare a meno di immagini per percepire l’invisibile. Tuttavia esse non vanno confuse con la realtà che evocano, ma non rappresentano. Le immagini sono necessarie, perché senza di loro non si vedrebbe nulla. Però, mentre si utilizzano, occorre saperle anche subito strappare, perché altrimenti queste icone finiscono per trasformarsi in idoli[18]. Quindi occorre guardare anche verso il futuro (al Dio che viene, come dice l’Apocalisse), e non voltarci solo al passato (al Dio che era, come dice sempre l’Apocalisse) (Ap 1, 4).
Quanto spazio creativo da sfruttare abbiamo davanti a noi!
Ricordo infine, - come del resto ho scritto nel mio libro che genericamente Lei mi contesta, senza però rispondere ad alcuna delle mie domande - che Gesù, durante la sua missione, non ha mai detto di essere Dio. Ha invece mai detto di essere uomo? Sì, basta leggere Gv 8,40: «voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità». Tuttavia ho fatto notare che leggendo le edizioni dei vangeli antecedenti al 2008, la parola “uomo”– ándropon nel testo originale greco - di solito non si trova nei testi italiani[19]. La parola è stata finalmente rimessa solo nell’ultima edizione della CEI del 2008. Allo stesso modo, anche la parola ‘uomo’ (anér), con cui Giovanni Battista espressamente identifica Gesù (Gv 1,30), è stata di solito cancellata in quasi tutte le vecchie edizioni italiane, e – come diceva Andreotti,- a pensar male forse si fa peccato, ma normalmente si azzecca. Dover spiegare come mai Gesù non si fosse mai definito Dio, ma solo uomo, non aiutava di certo a far accettare il dogma.
Perciò, se mi chiedessero se sono ateo, direi proprio di no, anche se il tema di Dio resta per me un tema aperto e irrisolto; e in ogni caso, come dice lo scrittore Maurizio Maggiani “spero comunque di aver vissuto abbastanza dignitosamente questa vita per potermi meritare qualcosa di meglio di una a-privativa,”[20]a-theos, cioè senza-Dio.
In ogni caso penso che la domanda che ogni credente deve farsi non è tanto sulla natura e sull’essenza di Gesù, quanto cosa si deve fare per vivere come veri cristiani, visto che tutto quello che Gesù ha insegnato non lo ha insegnato con un corso di teologia dogmatica, ma col suo modo di vivere, invitandoci poi alla sequela, cioè a vivere come è vissuto lui, senza mai dare una definizione né di sé, né di Dio.
NOTE
[1] Spong J.S., Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo, Massari, Bolsena, 2010, 137. Mori B., Per un cristianesimo senza religione, Gabrielli, San Pietro in Cariano 2022, 26.
[2] Sant’Agostino, De Trinitate, V, 3; VII, 5, 10. Danielou J., Trinità e mistero dell'esistenza, Queriniana, Brescia 1969, 32. Molari C., «La funzione dell'analogia nel linguaggio teologico», in Rassegna di teologia (1994/4), 405.
[3] Culot D., Gesù, questo sconosciuto, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2024, 143s.
Conseguentemente faccio pienamente mia la considerazione di Éric-Émmanuel Schmitt (Schmitt E., La notte di fuoco, e/o, Roma, 2016, 199s.) secondo cui ci sono solo tre categorie di individui intellettualmente onesti che, alla domanda se credono che Dio esista, replicano così: il credente che dice “Non lo so, ma credo di sì,” l’ateo che dice “Non lo so, ma credo di no,” e l’indifferente che dice “Non lo so e la cosa non mi interessa”.
[4] Gounelle A., Parlare di Dio, ed. Claudiana, Torino, 2006, 50 s.
[5] Il concilio di Nicea (325 d.C.) fu voluto dall’imperatore e il papa di allora neanche partecipò.
[6] La tesi di Ario, che fu assai a lungo prevalente nel cristianesimo (ariani sono stati, fra l’altro, il vescovo Eusebio di Cesarea, il primo importante storico del cristianesimo, e anche il vescovo di Milano Assenzio, quello che battezzò Ambrogio, suo successore e in seguito pure santo. Vogliamo dire che il battesimo di Ambrogio era invalido perché fatto da un “ateo”?).
Rilevo comunque che non c’è identificazione fra Gesù e Dio nel concilio di Nicea, il quale si limita a parlare della stessa natura fra Padre e Figlio. E anche Calcedonia parla solo dell’unione delle due nature, aggiungendo “senza confusione”. Cfr. sul punto il mio Gesù, questo sconosciuto cit., 83, 92s., 163, 320.
Rimarco anche quanto sostenuto dal teologo Hans Küng nell’intervista del 17.12.2012 (in: www.dongiorgio.it del 12.1.2013), ove alla domanda “La differenza teologica tra lei e Ratzinger?”, risponde: «Per me Gesù è uomo figlio di Dio, per lui è Dio». Inoltre ha specificato che «Se si volessero giudicare tutti i cristiani dell’età prenicena alla luce del Concilio di Nicea (e delle sue interpretazioni), sarebbero eretici non solo i giudeocristiani, ma anche quasi tutti i Padri della Chiesa greca; essi, infatti, insegnarono con tutta naturalezza una subordinazione del ‘Figlio’ rispetto al ‘Padre’, che secondo il successivo criterio della definizione equiparatrice di una ‘uguaglianza di sostanza’ stabilito dal Concilio di Nicea, è da considerarsi eretica. Di fronte a questa situazione non si può evitare il seguente interrogativo: se invece del Nuovo Testamento non si vuole elevare a criterio semplicemente il concilio di Nicea, chi nella chiesa antica dei primi secoli era ancora ortodosso?» (Küng H., Cristianesimo, ed. Rizzoli, Milano, 1997, 112). E questa subordinazione l'aveva insegnata pure Pietro (At 2, 22-24; 10, 38-40; 10, 42), cioè il nostro primo papa, secondo la Tradizione.
[7] A parte il fatto che i primi cristiani venivano visti come atei dai romani, proprio perché non avevano né templi, né statue delle loro divinità, né liturgie: invece avevano solo un modo diverso di credere.
[8] Secondo Mancuso la frase è da attribuire a Norberto Bobbio, e il cardinal Martini l’ha fatta propria.
[9] Parafrasando Gounelle A., Parlare di Dio, ed. Claudiana, Torino, 2006, 51 e 49.
[10] Un dogma è la corretta interpretazione della Parola di Dio (Perrella S.M., La verginità perpetua di Maria è un dogma?, “Famiglia Cristiana”, n.36/2014, 108).
[11] Hadjadj F., Come parlare di Dio oggi?, ed. Messaggero, Padova, 2013, 173: «Se fosse una teoria basterebbe dimostrare. Se fosse una promozione basterebbe sedurre. Se fosse un impero mondano basterebbe essere materialmente superiori. Qui c’è qualcosa che prende la tua vita senza che tu possa comprenderlo».
[12] Gounelle A., Parlare di Dio, ed. Claudiana, Torino, 2006, 97 e 99.
[13] Per il cardinal Ruini, riportato in Mancuso V. Io e Dio, ed. Garzanti, Milano, 2011, 197, invece la fede è viva solo se mediata dall’autorità della Chiesa, solo accettando l’autorità della Chiesa; al di fuori del recinto della Chiesa la fede è morta. Evidente che esiste più di un concetto di fede, e che quello del cardinal Ruini non coincide col mio.
[14] Riportato su “La Repubblica”, 11.11.2013, 20.
[15] Gounelle A., Parlare di Dio, ed. Claudiana, Torino, 2006, 62 s.
[16] Vannucci G., Nel cuore dell’essere, ed. Fraternità di Romena, Pratovecchio (AR), 2004, p. 121.
[17] Proprio come ha detto papa Francesco qualche decennio dopo.
[18] Gounelle A., Parlare di Dio, ed. Claudiana, Torino, 2006, 74 s.
[19]Ad es.: “ora cercate di uccidermi, perché vi ho detto la verità” (Il Nuovo Testamento, The Gideons International, Ginevra,1996); idem per la Bibbia Interconfessionale, Elledici, Torino-Roma, 2007; “ora invece cercate di uccidere me, che vi detto la verità” (La Bibbia-Nuovo testamento, Piemme, Casale Monferrato, 1988).
[20] Maggiani M., Una fede nuda, “Fraternità di Romena” n.2/2013,19 e 22.
Pubblicato il volume di Dario Culot che ripropone in una nuova veste editoriale, ed in un unico libro, molti dei suoi contributi apparsi sul nostro settimanale: https://www.ilpozzodigiacobbe.it/equilibri-precari/gesu-questo-sconosciuto/