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Viaggio in Italia


di Stefano Agnelli


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11. Asiago



Asiago è situata a 1000 metri, più o meno, sul livello del mare e, assieme ad altri 7 comuni, rappresenta la risposta dell’uomo – specie unica nel regno animale, poiché non possiede alcun habitat specifico, ma è in grado di abitarli tutti – alla sfida lanciata dalla montagna, o meglio da una piccola pianura di montagna: l’Altopiano.

Mi ha sempre impressionato, nelle giornate limpide e soleggiate, percorrere in auto l’A31 Valdastico, in direzione Piovene Rocchette, e veder comparire ad un certo punto il massiccio a forma di paanettone allargato sul quale sta, come posato da Dio, l’Altopiano dei 7 Comuni.

Una volta usciti dall’autostrada, in appena 10 tornanti – il Costo lo chiamano i locali – si sale a 1000 metri e si entra a Tresché Conca. A questo punto la strada per Asiago si biforca: puoi scegliere di rimanere alto, e attraversare l’abitato di Cesuna o scendere in una piccola valle, per poi risalire e congiungersi in località Canove con la strada che viene da Cesuna.

Consiglio assolutamente la variante “alta”, poiché tra Cesuna e Canove il bosco è ancora bellissimo ed intatto, e attraversarlo, spacie da maggio in poi, con i finestrini dell’auto aperti, è un'esperienza unica e piacevolissima.

Superata Canove la strada sale leggermente per alcune centinaia di metri, fino a valicare una sella, dalla quale si ha il primo panorama della città di Asiago. Dico “città”, perché così recitano sussiegosi i cartelli sparsi per il paese e nei dintorni – nelle contrade, che formano come un corollario di petali attorno all’abitato principale – ma non me ne vogliano gli amici che ancora ho laggiù: Asiago è tutto fuorché una città. Certo camminando per il Corso – l’arteria principale, ricca di vetrine e attività – verrebbe da pensarlo, ma è l’unico punto in cui si ha un’illusione di urbanità.

Asiago è soprattutto il bosco, con i suoi silenzi gocciolanti nei giorni di pioggia, con le ombre umide e fresche dei suoi faggi cedui, mescolati ad abeti rossi e bianchi, in cui ti ritrovi una volta superato il bosco misto e fitto di Carpini, Roverelle ed Ornielli.

Qui giocavo per interi pomeriggi, con una piccola sacca sulle spalle ed un buon paio di scarponi, a perdere e ritrovare sentieri, lasciando ai piedi il compito di vuotare la mente, mentre il respiro si faceva passo, vita. Grande esperto del bosco, tanto che – come è noto – tardava quasi ogni sera per cena, perdendosi per sentieri con il suo cane, era il Sergente nella neve, lo scrittore asiaghese Mario Rigoni Stern. Ogni giorno, uscito dalla scuola dove insegnavo, avendo in odio il mangiare in solitudine, mi recavo allo Stella d’Oro, un ristorante pizzeria che faceva, ora come allora, menù a prezzo fisso.

Una volta uscito, avevo preso l’abitudine di sedere su di una panchina li accanto e fumare una sigaretta contemplando la piazza ed il palazzo del Municipio.

A pochi passi da me, una signora in età, che camminava aiutandosi con una stampella, chiudeva la saracinesca della sua cartoleria e, condividendo la stessa passione per il tabacco in cilindro, si sedeva a farmi compagnia. Si chiamava – e spero si chiami ancora – Modesta, ed era persona di poche parole: una manna dal cielo per noi chiacchieroni iperattivi. Durante uno dei nostri monologhi (già...), le feci una domanda: “Modesta, come si fa a conoscere Mario Rigoni Stern?”. E lei, con grande tranquillità: “Lo volilo conòsere?”, e alzandosi con fatica, apre e solleva la serranda appena chiusa, prende il telefono, e dalla porta aperta la sento dire: “Mario ghe sé un Tuso che te vole conòsere.” Erano amici d’infanzia e, dopo un quarto d’ora, minuto più, minuto meno, stavo stringendo la mano robusta, piccola e tozza, di una specie di orso potente e cisposo di sopracciglio, ma concentrato in un metro e settanta di altezza. Mentre stringevo quella mano, pensavo alla ritirata di Russia, agli alpini della Julia: “Sergent Magiùr turnerem in baita?”, a Nikolaevka, dove, nel culmine della battaglia decisiva per poter sfondare le linee sovietiche, il sergente Rigoni Stern, come in trance per il troppo sangue visto, entra in un’Isba russa dove gli danno una tazza di latte caldo e del pane, che lui mangia accanto a due soldati soivietici. La guerra era fuori. Dentro l’Isba solo contadini, anche se appartenenti a nazioni diverse, coinvolti loro malgrado in una follia disumana e senza scopo, quale è sempre la guerra, questa bestia antica e sanguinaria che non vuole saperne di abbandonare il mondo. Coinvolti ma affratellati dalla Terra, dai boschi: betulle innevate al posto di abeti, eppure fra loro, un linguaggio comune, scritto da centinaia di generazioni, nel corpo.

L’anno successivo venni contattato da una docente di un Lycée francese, che voleva venire con un paio di sue classi a conoscere lo scrittore – sergente. Organizzammo un incontro pomeridiano nell’aula magna delle scuole elementari, e preparammo un canovaccio con alcune domande e letture dai suoi molti romanzi. Bastarono pochi minuti e Mario sbottò: “Basta! Non sono venuto qua per sentire brani dei miei romanzi, voglio parlare con voi”. Detto questo, iniziò una serrata discussione con i ragazzi, provocandoli sul passaggio alla società dei consumi, e invitandoli a scegliere un altro modo di vivere e soprattutto di pensare. Fu bellissimo. Gli alunni francesi reagirono piccati e Lui tenne loro testa, facendoli ragionare. All’incontro era presente la mia terza di allora, una classe difficile, piena zeppa di casi problematici. Avevo però, da insegnante inesperto, sottovalutato le loro potenzialità, e lo dimostrò il fatto che alla fine dell’incontro, in modo per niente organizzato, del tutto spontaneo, e senza prima informare noi docenti, gli alunni di quella meravigliosa terza, refrattaria e difficile, intonarono spontaneamente Bella Ciao. Cantammo tutti, e volarono lacrime e fazzoletti, specie quello di Mario che visibilmente commosso, non trattenne affatto il pianto.

Cose che succedono solo in Altopiano, dove gli scolari avevano quasi tutti l’Ape car; dove nei bar, alle sei e mezza del mattino, si fuggono i meno tredici di temperatura esterna, ingollando grappa e liquori; dove la neve può arrivare anche a più di un metro e mezzo, tra paletti striati bianchi e rossi a tenere in carreggiata lo spazzaneve.

Ricordo un giorno, l’ultimo inverno di permanenza, che, aprendo la porta in legno verso l’interno, mi trovai l’uscita sbarrata dalla neve. Chiamai a gran voce, e scavando, assieme ad altri inquilini, ci facemmo strada fino alla via, poi, da solo, fino alla scuola, distante una cinquantina di metri. Entrai. Eravamo in tre: Il Dirigente scolastico, la Vicaria, ed il sottoscritto. “Che dite? Telefono al Sindaco e chiudiamo la scuola?”, ebbe il coraggio di dire il Preside...

Forse ha ragione la mia amica Vally, asiaghese DOC, noi di pianura resteremo sempre dei Pèrla (credo si scriva così, la grafia esatta non la conosco...), e mai potremo capire la gente di montagna; però, lo confesso, una parte del mio cuore è rimasta là, tra quei monti, anche perché così ho una buona scusa per tornare a rivederli ogni tanto.