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Memoriale della Shoah, Parigi - immagine tratta da commons.wikimedia.org










Rabbini e bambini



di Orfeo Dassotan


Avevo dodici anni quando la Rai iniziò a trasmettere, di sera alla domenica, lo sceneggiato a puntate “Olocausto”. Non ero ebreo.

I miei genitori decisero di farmelo vedere, con loro accanto certo, perché ritenevano – immagino – che troppo poco ancora si dicesse e si raccontasse di che cosa soltanto trentacinque anni prima era accaduto. Si sussurrava, si bisbigliava, si inorridiva nel silenzio, ma non molto di più.

Poi, da adulto, vidi Schindler’s List, e Il pianista, poi Il figlio di Saul. E so, però, che Elie Wiesel rifiutò la proposta di Orson Welles di fare un film del suo libro La notte.

Pur abitando molto lontano, mi reco spesso alla Risiera di Trieste, luogo in cui alcuni nemmeno vogliono accedere o che preferiscono non sentir pronunciare.

Sembrano esserci due categorie di persone insopportabili ancora oggi per molta parte della nostra cultura: i rabbini e i bambini. Sembrano incarnazione di una attitudine argomentativa che ci dà enorme fastidio. E perché? Risposta di getto: perché testimoniano un’alterità che ci è indigesta.

Ci si riempie, infatti, la bocca piuttosto diffusamente e facilmente con parole come “altro”, “altri”, “alterità”, purché tali dimensioni, tali orizzonti, tali riferimenti, non ci mettano in crisi, non destabilizzino le nostre inveterate convinzioni.

Va bene “l’altro” ma fino a un certo punto.

Tra chi morì, ad Auschwitz, ci furono anche i Testimoni di Geova, ma non mi pare vi sia mai stata una mobilitazione universale sullo sterminio nazista dei Testimoni di Geova.

Rabbini e bambini possono, forse, suscitare qualche romantico e melenso pensiero di tenerezza o di commiserazione, ma non possono ingenerare – così mi pare si pensi ancora oggi con ricorrenza molto frequente – una rivoluzione antropologica ed epistemologica. Non si capisce la realtà con gli occhi dei rabbini e dei bambini e realisti, invece, bisogna assolutamente essere.

E dunque? Come trovare il coraggio di sostenere che il realismo è corrisposto storicamente anche con la brutale violenza dei campi di sterminio?

Per rispondere può essere utile la lettura di un volume, pubblicato in traduzione italiana da Giuntina nel 2017, che s’intitola Come i rabbini fanno i bambini. Sessualità, trasmissione, eredità nell’ebraismo; ne è autrice il rabbino donna del Movimento ebraico liberale di Francia (MJLF) Delphine Horvilleur (https://www.giuntina.it/catalogo/schulim-vogelmann/come-i-rabbini-fanno-i-bambini-707.html).

Si legge alle pagine 74 e 75: «Se la femminilità oltraggiata può catalizzare la collera del figlio, possiamo allora comprendere ancora meglio perché Sherazade domini il sultano con la forza del racconto. La violenza sanguinaria di un sovrano che uccide una ad una le sue concubine viene placata solo dalla voce di una donna forte e colta, una donna che padroneggi la parola al punto da renderla terapeutica per colui che l’ascolta. La violenza si arresta solo grazie alla parola, non una qualsiasi, ma la parola di una femminilità riabilitata, la voce di una donna che, contrariamente a Eva, non è rinchiusa nel materno, ma recupera pienamente la sua dignità e la sua autonomia per mezzo della parola.»

Qual è dunque la risposta possibile davanti alla violenza? Il racconto.

Che cosa accomuna i rabbini ai bambini? Il desiderio e la possibilità reale del racconto. La realtà del racconto, il suo realismo. Che è poi il realismo della parola.

La Giornata della Memoria si celebra da quando si è riusciti a ritrovare la forza di narrare, il coraggio di raccontare fatti, sì, terribili, orribili, persino indescrivibili, ma anche di non monumentalizzarli, per farne simboli, piuttosto, della crisi di una intera civiltà. Simboli parlanti.

Siamo quasi stufi di ritrovarci ogni anno al 27 di gennaio a rinnovare riti che sembrano stanchi? Dipende dal desiderio di raccontare che manteniamo vivo oppure che abbiamo fatto morire, assieme a quella morte inimmaginabile di sei milioni di uomini, donne, anziani, anziane, bambini, bambine. Molti, moltissimi rabbini tra loro.

La Storia ci appartiene perché vogliamo che sia anche nostra, oppure ci chiamiamo fuori perché pensiamo che sia storia di altri, ecco. E ritorna un concetto di alterità prossimo ad alienazione, mentre noi saremmo sempre i raziocinanti, i coerenti, gli assennati, i non-alienati.

Ed agli occhi ancora di tanti sono come alienati proprio i rabbini e i bambini.

Ma si tratta di un’ “alienazione benedetta”, di un racconto che noi possiamo apprendere solo da loro perché ce ne siamo privati.

Il nazismo non è piovuto da un pianeta esterno al sistema solare della nostra cultura europeo-occidentale, che continuiamo a ritenere fucina di magnifiche sorti e progressive nonostante tutto. No, non c’è un “nonostante” che possa essere scavallato senz’essere narrato, raccontato.

Altro è il silenzio della commozione, dell’emozione – che i bambini e le bambine assai ben conoscono -, altro il silenzio di chi non sa cosa dire perché ha smarrito il gusto del racconto, anzi l’impellente necessità, il dovere, l’obbligo etico del racconto.

La memoria non resta confinata nella nostra psiche, perché – se solo vogliamo – sa parlare le parole del cuore.

Ce lo insegnano i rabbini e i bambini. Morti, ma anche vivi, adesso, oggi, tra noi.