The Rabbi is in


Fra Gaza e Berlino, o fra Genesi ed Esodo


di Miriam Camerini

Eccomi di nuovo a Gerusalemme, seduta al tavolino di un caffè di Rechavia, uno dei quartieri più “europei”, nel tempo liminale fra la settimana che si conclude e il Sabato che arriva, fra la festa nostra consueta e settimanale dello Shabbat e quella eccezionale e unica – a me straniera – del Natale. Anche lo spazio è di confine: Medioriente e Mitteleuropa si incontrano in questa via che porta il nome di Aza, Gaza, e fa angolo con una via intitolata Berlin, non in onore della città quanto di un rabbino importante che aveva quel nome. Un locale storico, però, da sempre gioca sull’equivoco e si chiama Bein Aza leBerlin, tra Gaza e Berlino, ma con un menu che rimane saldamente radicato da questa parte del Mediterraneo (la terza entità geografica “di mezzo” che nomino in poche righe): humus e kubbe, pita e falafel non cedono un millimetro a strudel e wurstel, giusto a rimarcare che poi alla fine qui siamo e questo mangiamo. In questo spazio - tempo di mezzo incontro dopo anni un vecchio amico, Yuval, che mi faceva la corte ai tempi in cui studiavamo entrambi tedesco al Goethe Institut, qua poche strade più sopra. L’ultima volta che l’ho visto credo fosse a Berlino, molti inverni fa, dove entrambi eravamo finiti per un periodo a praticare la lingua faticosamente imparata (diciamo: studiata). Rechavia è davvero una piccola Germania/Austria piantata nel cuore di Gerusalemme, città doppia e duale, come il suo nome Jerushalaim - dove il suffisso aim in ebraico indica il duale dei sostantivi – suggerisce: questo mi ha scritto un amico cattolico ed ebraista in risposta agli auguri di Natale che ieri da qui gli ho mandato: “..Città tanto cara perché segno a un tempo di quello che c'è e di quello che manca, coerente in ciò alla sua forma duale”: “Di quel che ancora manca”, ho aggiunto in cuor mio, perché comunque li si legga e celebri questi giorni così brevi e così bui (anche qui in Oriente) sono per forza germoglio e promessa di redenzione, di luce che conquista le tenebre tenacemente r-esistendo, semplicemente esistendo.

A questa dualità fra morte, nascita e redenzione, penso anche - in questo spazio tempo prima dello Shabbat in cui si inizierà a leggere il II libro della Torah, l’Esodo - perché Mosè e Gesù sono due infanti miracolati, scampati entrambi alla strage degli innocenti perpetrata dal tiranno di turno, Faraone o Erode che sia, per impedire la nascita e la sopravvivenza di un bambino che, divenuto adulto, causerà non pochi problemi, così predicono gli astri e chi li sa leggere. Questa settimana ho sentito una lezione bellissima alla mia scuola rabbinica su come Genesi sia un libro “maschile”, quella verga del comando che “non si dipartirà di tra le gambe di Giuda” (Genesi 49:10) mi ha fatto quasi ridere - leggendolo lo scorso Sabato, ultima lettura di Bereshit - da tanto è fallicamente esplicita nel suo patriarcalismo, mentre Esodo è libro femminile per eccellenza: si apre con la descrizione di parti e nascite amministrati con saggezza e ironia femminile dalle due semplici levatrici che menano per il naso nientemeno che il re d’Egitto e si manifesta apertamente con l’apertura del Mar Rosso, nascita di un intero popolo libero, celebrato e danzato da Miriàm la profetessa, che guida le donne e canta la salvezza.


Foto di Paola Cazzaniga