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Perché non andare a messa sarebbe peccato mortale?


di Dario Culot


Abbraccio di Putin a Kirill che non esprime né amicizia né fratellanza: il simbolo ha perso la sua forza (foto tratta da internet)


Nel modo comune di sentire si va a messa per affermare che si è cristiani: se uno non va a messa di domenica e nelle feste comandate statisticamente non rientra fra i credenti. Per i preti c’è l’obbligo quotidiano di partecipare o celebrare la messa (n. 904 Codice di diritto canonico). Chi non osserva il precetto commette peccato grave (nn. 2042, 2181 del Catechismo della Chiesa Cattolica [di seguito “il Catechismo”]), cioè mortale[1].

L’eucaristia è poi il centro della messa,[2] ed è il culmine della vita della Chiesa,[3] la più alta realizzazione della vita cristiana. In effetti la messa con l’eucaristia dovrebbe causare un cambiamento positivo dell’uomo tramite l’incontro con Gesù (e attraverso di lui, con Dio).

Ma questa linea è stata sempre sostenuta con costanza fin dall’inizio? Non sembra proprio. San Paolo, il quale riteneva fosse la fede il centro della vita, parla dell’eucaristia solo nella sua lettera 1Cor 10, 3s. e 11, 29s.. Di sicuro non la descrive come ‘culmine’ della vita cristiana. Nei vangeli di Marco e Matteo, pur parlando dell’ultima cena, non c’è alcun invito a commemorare (celebrare) l’eucaristia. In Giovanni, come sappiamo, la lavanda dei piedi[4] prende il posto dell’ultima cena dei sinottici.

Questo fa sorgere allora un bel po’ di domande: quanti di coloro che vanno a messa sentono il culmine della loro vita nel momento in cui il prete fa l’elevazione e poi loro fanno la comunione? Quanti provano qualcosa? Quanti non provano niente e pensano semplicemente di aver compiuto il loro dovere domenicale, così si sentono la coscienza tranquilla e pensano di essere a posto con Dio? Quanti pensano che la comunione sia un affare privato che riguarda direttamente chi prende l’ostia e Gesù? Se uno va in una chiesa che non è la sua parrocchia, oppure anche se va nella chiesa di una parrocchia molto grande dove non ci si conosce, cosa condivide con coloro gli stanno attorno? Non fa forse anche lui la comunione nell’assoluto anonimato e nell’assoluta solitudine? Quanti sentono di formare realmente un solo corpo (1Cor 10, 15) con tutti i partecipanti alla comunione, sentono un’attenzione reciproca forte e si sentono veramente parte di quella comunità?

E in ogni caso, veramente la celebrazione eucaristica ha poi un qualche effetto benefico sulla vita dei cristiani che vanno a messa? Una volta usciti dalla messa si vede che è veramente cambiato qualcosa nel loro comportamento? Un ‘culmine’ non dovrebbe avere riflessi nelle persone almeno per il resto della settimana? O almeno per qualche ora?[5] Ma invece quanti di coloro che vanno anche a messa e ricevono compunti anche la comunione si fermano là, con nessuna conseguenza nella loro vita quotidiana, perfettamente indifferenti a quella degli altri, tenendo separata da una parte la vita domenicale di fede, dall’altra la vita quotidiana reale?[6]

Nell’eucaristia ricevuta durante la messa l’amore ricevuto dovrebbe trasformarsi in amore poi comunicato, altrimenti il timbro di frequenza che abbiamo messo sul nostro carnet delle messe non ha grande valore. E se la Chiesa è dovuta ricorrere alla minaccia dell’inferno, per cui c’è l’obbligo di andare a messa sotto pena di peccato mortale, può un simile obbligo identificarsi con il culmine e con il sentire l’unità della comunità lì riunita? In altre parole, nella messa, chi partecipa si sente fra fratelli oppure è andato in chiesa perché si è sentito un precettato? Perché, come aveva scritto non ricordo dove José M. Castillo, quello che è determinante nell’eucaristia, almeno secondo il Nuovo Testamento non è il prete, non è il pane, non è il vino, non è il rituale, ma è proprio l’unione di tutti i partecipanti. Dove esiste questa unione si può fare la memoria del Signore, dove non esiste questa unione, non si celebra l’eucaristia neanche se fosse il papa a celebrare la messa.

Quando s’impone di forza qualcosa (anche la messa) vuol dire che chi comanda sa che quello che viene imposto non convince il destinatario del messaggio. Se offro un gelato ad un bambino, difficilmente dovrò farglielo mangiare a viva forza. Se invito a pranzo un amico, sapendo che mia moglie è un’ottima cuoca, non avrò bisogno di costringerlo a venire, perché accetterà con piacere. Se una cosa è realmente buona (così come anche la Chiesa dice della Buona Novella e della religione che insegna) non c’è bisogno di imporla, basta offrirla. In effetti, in tutti i vangeli, Gesù offre, mai impone nulla. Gesù dice: io sto alla porta e busso (riprova che l’amore può essere offerto, ma non imposto); se uno mi ascolta e apre la porta, io entro e ceno con lui (Ap 3,20). Solo l’autorità religiosa continua a imporre minacciando le pene dell’inferno.

Si pensi poi a come buona parte del magistero escluda dalla mensa eucaristica (cioè dal ‘culmine’ della vita della Chiesa) i divorziati risposati, i conviventi e gli omosessuali[7]. È così pensa perfino di essere anche nel giusto, perché la Bibbia diceva di dare al pio e non aiutare il peccatore; anzi, è bene negargli perfino il pane (Sir 12, 5). Quando il prete dice alla prostituta,[8] al divorziato, all’omosessuale che convive: “Sì, sì, avrai anche fatto opere di carità, ma non valgono niente davanti agli occhi di Dio perché continui a vivere nel peccato” sta semplicemente uccidendo quelle persone, perché le fa sentire escluse da Dio.

Ma si può vivere nel peccato ed essere graditi a Dio, oppure per essere graditi a Dio bisogna sempre soffrire, fare tanti fioretti, sacrifici, digiuni, penitenze, e osservare la legge divina? Come ormai detto più volte, mentre la religione ufficiale pone il buon samaritano fra gli eretici peccatori, tanto da impedirgli di entrare nel Tempio, Gesù lo pone come esempio di credente. Quindi credente è chi accoglie e mette in pratica il messaggio di Gesù. Per Gesù non conta ciò che «si dice»; conta ciò che «si fa». Oppure pensiamo a Giuseppe che viene definito uomo giusto, e per giusto si intende la persona che si sforza quotidianamente di osservare tutte le prescrizioni della Legge per essere graditi a Dio. Ma quando viene a sapere che Maria aspetta un figlio non suo, deve scegliere fra l’osservanza della legge di Dio - che prevedeva la lapidazione di Maria (Dt 22, 23) e che lo avrebbe reso gradito a Dio - o la disobbedienza che lo rendeva peccatore (almeno secondo la religione). Sappiamo che Giuseppe ha scelto la disobbedienza, per cui ha peccato secondo il magistero sì che doveva essere escluso da Dio; invece anche la Chiesa lo considera credente gradito a Dio. Perché? Non perché ha osservato la legge divina, ma perché ha accolto il messaggio d’amore di Gesù, che sempre comunica vita anziché distruggerla.

Allora il magistero sbaglia quando insegna che non si può essere graditi a Dio se non si ottempera alla sua legge divina. “Peccato” infatti che, in barba all’insegnamento del magistero, Gesù insegni che si debba fare nella vita esattamente il contrario di quanto insegna la legge divina: si devono avvicinare quelle persone che si sentono escluse, per la loro condotta morale, per la loro vita sessuale, o per tanti altri motivi, ma non per ammonirli; occorre, con il nostro amore, far capire a quelle persone che si sono auto-escluse da Dio perché si ritengono ormai condannate, che non è vero che sono escluse, perché Dio – a differenza del magistero -  non discrimina nessuno. Non esiste una persona una che possa sentirsi esclusa dall’amore di Dio[9]. Questa è la Buona Novella che si ricava dal fatto che Gesù andava a cercare i peccatori e mangiava con loro non dopo che si erano convertiti, ma quando erano ancora peccatori. Ed essi andavano volentieri con Gesù perché finalmente si sentivano accolti e non giudicati.

E poi c’è questa idea malsana che la messa sia un sacrificio[10] (nn. 1088 e 1113 del Catechismo) e che il sacrificio è un dovere per il credente (n. 2099 Catechismo). Ma Gesù non aveva detto che voleva misericordia e non sacrifici (Mt 9, 13; Mt 12, 7)?  Aggrappato alla tradizione paolina, secondo cui «Cristo ci ha amato e ha dato sé stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore»[11] (Ef 5, 2), papa Benedetto XVI ha continuato a dirci che Gesù si è offerto in sacrificio per noi,[12] anche se è facile obiettare che da nessun vangelo risulta che Gesù abbia mai detto di essersi sacrificato per noi[13].9 Il problema è che la parola sacrificio (sacrum facere, cioè consacrare a Dio) viene da noi collegata automaticamente all’idea della sofferenza,[14] se non del sangue,[15] perché abbiamo assorbito l’insegnamento secondo cui si entra nel mondo di Dio solo attraverso la sofferenza[16]. Le persone religiose sono riuscite a trasformare la sofferenza perfino in virtù, dimenticando che nella Bibbia Dio l’aveva invece inventata come punizione per i peccati dell’uomo (Gn 3, 17-19). Stando ai vangeli, però, Gesù voleva portare nella nostra vita solo gioia piena (Gv 15, 11) e non sacrifici e sofferenze; voleva eliminare ogni paura di Dio che paralizza,[17] e ci ha insegnato che si entra nel mondo di Dio, cioè nella condizione divina, assomigliando al Padre, cioè praticando l’amore gratuitamente. E se allora intendessimo la messa non come commemorazione dello spargimento del sangue di Gesù, per appagare la sete di sangue di un Padre somigliante a Dracula, ma all’opposto, solo come segno di vita e di condivisione?

È fondamentale da tener presente che il sacrificio rituale non consisteva semplicemente nella morte della vittima, ma era essenziale che la vittima morisse secondo una procedura ben determinata, nell’ambito sacro del Tempio e sopra l’altare. Una vittima uccisa nell’ambito della realtà profana e senza accompagnamento di riti non realizzava un vero sacrificio[18]. Come allora spiega molto bene il cardinale Vanhoye[19], se pensiamo alla morte di Gesù, avvenuta senza riti religiosi, in luogo profano, si è trattato effettivamente di un’esecuzione, e non di un sacrificio santificante; non può trattarsi di un atto rituale che univa a Dio ma la sua negazione, perché separava da Dio; non qualcosa che attirava la benedizione divina, ma la maledizione di Dio (Dt 21, 22-23)[20]. Fra l’altro, nel sacrificio la vittima deve essere considerata colpevole, sì che i suoi carnefici appaiono innocenti. La crocifissione rompe questo meccanismo: la vittima è innocente, e i carnefici sono colpevoli. Dunque c’è un’abissale differenza fra la morte in croce di Gesù e ogni sacrificio sacerdotale. E allora perché a messa i fedeli continuano a rispondere al celebrante: “Accetta dalle tue mani questo sacrificio?” Non sarebbe ora di sollecitare gli organi competenti a cambiare formule?

Ora, se c’è almeno qualche dubbio che la messa possa essere definita come un sacrificio, nessun dubbio sussiste sul fatto che la messa è il rito cattolico per eccellenza. Ma cosa è un rito e perché le religioni hanno bisogno di riti?

Ha ben spiegato Luigi Sandri che “se ci fosse al mondo una sola persona che crede nell’Aldilà, o in un qualche Dio, o Dea, se la potrebbe forse cavare senza religione; ma se ce ne sono almeno due – figurarsi poi se sono milioni! – nasce la religione. Nascono cioè le parole, i riti, i gesti con cui si traduce in concreto la fede professata insieme: fuoco, acqua, preghiere, lavacri, fiori, canti, pasti, digiuni, vesti particolari[21]. E perché questo “corredo” è inevitabile, costitutivo, necessario? Perché i/le seguaci di questa o quella Fede debbono decidere come esprimerla, quando si riuniscono. Questa è “la religione”: è un accordo tra seguaci di ciascuna Fede per esplicitarla in questo o quel modo”[22].

A questo punto – per capirci meglio - sarà opportuno sintetizzare il chiaro studio di quel grande teologo spagnolo recentemente scomparso, prof. Josè María Castillo, al quale rimando per chi volesse approfondire l’argomento[23]. L’autore parte da una netta distinzione fra segni, simboli[24] e riti.

Gli uomini comunicano fra di loro, e anche la religione vuol essere una comunicazione fra l’uomo e Dio. Qualsiasi comunicazione si può fare mediante la parola (il logos per usare il termine greco) e mediante la vita (bios sempre per usare il greco). La parola è portatrice di un’idea, diciamo di un concetto. Bios non è parola, non è concetto, è vita; quindi è qualcosa di più fondamentale, che viene ancora prima della parola. Infatti le comunicazioni più determinanti in vita non sono quelle che si fanno per mezzo del logos, ma si fanno con il bios: basta pensare a come una mamma comunica il suo amore al bambino appena nato: decisivo è l’abbraccio, il bacio, la carezza, non le parole: “Ti voglio bene,” che il neonato ancora non comprende. Ciò che fa parte del campo del bios costituisce simbolo. Ciò che è collegato al campo del logos costituisce segno.

Segno è ciò che ci porta alla conoscenza di un’altra cosa,[25] ciò che mi rimanda a un’altra realtà Il segno si forma attraverso l’unione di un significante e un significato: due termini in relazione fra loro. Se sento pronunciare la parola “leone”, un mero suono che giunge al mio orecchio (significante), nella mia mente si forma l’immagine dell’animale con la criniera (significato). Se vedo il cartello stradale indicante <Milano>, nella mia mente già vedo il Duomo con le sue guglie e la Madonnina d’oro. Il segno è sempre traducibile in una formula linguistica, per cui si colloca nel campo del logos, posto che il significato è sempre un concetto.

Vi sono però esperienze umane che risultano difficili, e a volte impossibili, da esprimere adeguatamente a livello linguistico. Tutti riusciamo perfettamente a capire se uno sguardo a noi diretto significa amore oppure odio: non servono parole. Le idee più brillanti seppur precise sull’amore non avranno mai la capacità di far sì che chi ascolta quel bel discorso provi l’esperienza di sentirsi amato. Quindi, lo sguardo non si colloca a livello dei segni che compongono il discorso; l’elemento costitutivo del simbolo non è concettualizzabile, dato che l’esperienza affonda le proprie radici nell’inconscio della persona. La psicanalisi spiega che si tratta di esperienze vissute dalla persona a un livello che precede ogni concettualizzazione, per cui sono intraducibili a livello di segno. Qui siamo in presenza del simbolo, il quale è l’espressione di un’esperienza; o meglio: il simbolo è l’unione di una espressione e una esperienza; riunite hanno la loro forza; disgiunte dimostrano la loro insufficienza. Il simbolo ha una dimensione linguistica, perché se ne può parlare, ma ha anche una dimensione non linguistica. In ogni caso, il simbolo – rispetto al segno - coglie anche quando viene espresso in parole un riferimento ulteriore, ed è questa realtà ulteriore che gli dà senso.

Inoltre l’espressione esterna e simbolica che fa propria e comunica l’esperienza profonda, deve essere socialmente ammessa nella cultura nel cui contesto il simbolo viene esposto, e anzi, a quel punto, diventa un potente fattore di integrazione ed identità sociale. Il singolo individuo potrà inventare dei segni per le sue necessità particolari, ma non può fabbricare simboli. E in culture diverse, poi, lo stesso significato del simbolo può essere diverso: la croce aveva significato diverso per i crociati che la indossavano e i musulmani che si vedevano arrivare addosso i crociati. Per i crociati la croce era symbolon di luce. Per i musulmani era il diabolon, esattamente l’opposto oscuro.

Un altro esempio può aiutare a capire meglio la differenza non linguistica fra segno e simbolo, ed il diverso valore del simbolo. Se qualcuno sputa su un cartello indicante la direzione da prendere per raggiungere Trieste, lo vedo come un atto di maleducazione, ma non come una minaccia o una sfida alla città di Trieste o alla nazione cui appartengo; se uno straniero sputa davanti ai miei occhi sulla nostra bandiera, lo vedo come un affronto a tutta la nazione, perché la bandiera contiene un po’ della realtà a cui rimanda,[26] contiene qualcosa di più del cartello.

Quando uno deve esprimere i suoi sentimenti individualmente, è assolutamente libero. Per esempio, quando un individuo si sente felice e contento può cantare, ballare, bere, dormire, passeggiare; è libero di esprimere la sua esperienza di gioia e felicità. Quando invece l’espressione deve essere collettiva – come ha detto Luigi Sandri - diventa necessario un accordo per esprimere questa esperienza in comune. Se in una comunità dove si sentono tutti felici uno canta, l’altro dorme, l’altro mangia, non si capisce più nulla. Subentra allora il rito, che ha la funzione di unificare e armonizzare l’espressione dell’esperienza. Il rito è il simbolo in azione. Ecco allora che il simbolo deve essere ritualizzato per essere inteso allo stesso modo dall’intera comunità. Per questa ragione tutti i gruppi umani hanno dei loro riti,[27] ed è anche vero che il rito si esprime spesso sotto la forma di sacrificio.

Ora, nel rito, sia chi esprime, sia chi riceve il simbolo, si orienta verso l’esperienza umana che è in gioco in quel momento. Il problema vien fuori se i due si orientano solo verso il gesto esterno, perché allora il simbolo degenera in un cerimoniale eseguito solo per forza di abitudine. L’abbraccio può trasmettere quello che la persona prova, ma può anche trasformarsi in un semplice gesto convenzionale, che a quel punto non esprime niente: né amore, né amicizia (vedi foto sotto il titolo). Il simbolo ha perso il suo significato.

 

                                                                                                                               (continua)

 

 

 

NOTE

[1] Giovanni Paolo II, nell’esortazione post-sinodale Reconciliatio et poenitentia, ha voluto ricordare che nella dottrina della Chiesa il peccato grave si identifica col peccato mortale: “Durante l’assemblea sinodale è stata proposta da alcuni padri una distinzione tripartita fra i peccati, che sarebbero da classificare come veniali, gravi, e mortali. La tripartizione potrebbe mettere in luce il fatto che fra i peccati gravi esiste una gradazione. Ma resta sempre vero che la distinzione essenziale e decisiva è fra peccato che distrugge la carità e peccato che non uccide la vita soprannaturale: fra la vita e la morte non si dà via di mezzo... Perciò, il peccato grave si identifica praticamente, nella dottrina e nell’azione pastorale della Chiesa, col peccato mortale” (RP 17). In effetti il primo precetto della Chiesa, la cui violazione costituisce peccato mortale, ordina di assistere con devozione alla santa Messa in tutte le domeniche e nelle altre feste di precetto (nn.472 e 475 catechismo san Pio X – 2041s. Catechismo odierno).

[2] La comunione frequente è arrivata solo con Pio X all'inizio del 1900, e il canone 863 del codice canonico del 1917 incorporò il principio: prima del decreto Sacra tridentina synodus la maggioranza dei cattolici riceveva l’eucarestia una-due volte all’anno (O'Malley J.W., Che cosa è successo nel Vaticano II, ed. Vita e Pensiero, Milano, 2010, 75).

[3] Mysterium Caritatis, 2007 – Acta apostolicae sedis Benedicti PP XVI, §84: vitae Ecclesiae fastigium (testo solo in latino). Concetto ribadito anche dal vescovo di Trieste Enrico Trevisi al §9 della sua prima lettera pastorale ‘Guardate a Lui e sarete raggianti’ dell’11.9.2023.

[4] Sicuramente la lavanda dei piedi è stata istituita da Gesù: come mai non è stata assunta a sacramento?

[5] In effetti il n.627 del catechismo di san Pio X diceva che il sacramento dell’eucaristia produce in noi i suoi meravigliosi effetti. In realtà, l’eucaristia non è fine a sé stessa, non è per la propria santità, per la propria devozione, il partecipare all’Eucaristia non si conclude con il momento in cui si fa la comunione, ma quando questa comunione ci dà energia per farci pane per gli altri. Quindi nell’eucaristia, Gesù il Figlio di Dio, si fa pane, cioè vita per gli altri (Maggi A., Dio e la felicità dell’uomo, relazione tenuta a Rovigo, 2007, 52). Il rischio di tante messe eucaristiche è che molti vanno a mangiare l’ostia, ma poi non pensano di farsi pane per gli altri. Lo fanno per la propria virtù, per saziare la propria santificazione, per le proprie necessità, per chiedere per i propri bisogni.

[6] Vuol dire che chi si comporta così pensa all’eucarestia come a un bene-rifugio per sé, come a una benzina super che assicura salvezza automatica per sé, mentre l’eucarestia dovrebbe solo dare la forza per mettere la propria vita al servizio degli altri come ci spiega il Vangelo di Giovanni nell’episodio della lavanda dei piedi dove c’è l’invito a fare lo stesso gli uni con gli altri; l’eucaristia dovrebbe essere il pane dell’anima che ci aiuta nel percorso della condivisione come ci spiega l’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt 14, 13ss.; Lc 9, 11ss.)

[7]  La Chiesa ci dice che chi abortisce è scomunicato; che i divorziati o i conviventi omosessuali se rifiutano la castità non possono accedere ai sacramenti della penitenza e dell’eucarestia, anche se non sono esclusi dalla comunità (concetto ribadito in “Famiglia Cristiana” n.36/2011, 7 e n.13/2012, 9). Ma come si fa a dire che l’essere impediti di avvicinarsi alla mensa del Signore non deve essere inteso come esclusione? Dire che il divorziato non è escluso dalla messa, impedendogli però di accedere alla comunione, è come invitare a cena una persona e poi tenerla in piedi a guardare mentre gli altri mangiano. Ma se neanche a Giuda era stato impedito di accedere all’eucarestia, come si fa ad impedirlo a qualcun altro? E quando Giuda riceve la comunione aveva ormai tradito Gesù con piena avvertenza e deliberato consenso.

[8] Mi sovviene quanto ha scritto un missionario quando si è visto chiedere la comunione da una prostituta notoria; in poche righe quel missionario riassume magistralmente questo toccante episodio. La donna gli si rivolge con queste parole: “So che il Vaticano ti dice che non puoi assolvere una donna come me. Ma ho bisogno di sentire che il Signore mi ama, mi perdona, mi accoglie”. Io non capivo più nulla, ma una cosa mi sembrava evidente: come potevo io rifiutare il perdono del Signore a chi me lo supplicava? (Zanotelli A., Korogocho, Feltrinelli, Milano, 2003, 136).

[9] Maggi A., L’ultima trasgressione, incontro tenuto a Padova, maggio 2011, in www.studibiblici.it/Scritti/conferenze.

[10] Il termine «sacrificio» va inteso sia come grave privazione, con aspetti che vanno dal disagio alla sofferenza, sia come offerta fatta alla divinità.

Ho già parlato della messa nell’articolo Il sacrificio della messa al n.613/2021 di questo giornale. Sono ritornato con un accenno sul tema anche nell’articolo di ottobre Anche Gesù dice che non tutta la Bibbia viene da Dio.

I protestanti hanno da sempre negato che la messa fosse un sacrificio, perché in tal modo si trasferiva sulla messa ciò che era specifico della morte di Cristo, avvenuta una sola volta con effetti eterni: tant’è che Cristo non ci ha chiesto di offrire e immolare, ma di prendere e mangiare ciò che è stato offerto e immolato (Ricca P., L’Ultima Cena, anzi la Prima, ed. Claudiana, Torino, 2013, 217).

[11] Un richiamo a Lv 1,9 dove si dice che Dio si inebria del profumo soave dell’olocausto.

[12] Benedetto XVI, La gioia della fede, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2012, 102.

[13] Questa è un’idea di Paolo (Eb 10, 10; Rm 5, 19; Col 1, 24; 2 Tm 1, 12; 2, 9). Ha scritto Paul Ricoeur che Gesù non ha avuto probabilmente alcuna prospettiva sacrificale nel momento dell’istituzione dell’eucaristia, tanto che non ha mai espresso teorie in merito (Ricoeur P., Vivant jusqu’à la mort, Seuil, Parigi, 2007, 91).

[14] Secondo un certo insegnamento religioso, la sofferenza è il segno che Dio è vicino all’afflitto. Più Dio ama una persona, più la mette alla prova con tribolazioni, negandole ogni consolazione terrena, in modo che l’afflitto possa trovare riposo solo in Lui. Quindi l’uomo può essere unito a Dio accettando la sofferenza e perfino cercandola. “La sofferenza deve essere dolce e saporosa per amore di Cristo…la sola strada che porta alla vita è quella della santa croce e della mortificazione quotidiana…Gesù è morto in croce per te…se davvero vuoi amare il Signore e servirlo, ti resta soltanto il patire…” (De imitatione Christi, Libro II, Cap.XII). E ancora, “a imitazione di Cristo che ha saputo patire per tutta la vita, è giusto che io, misero peccatore, sappia sopportare le miserie di questo mondo…occorre passare oltre ad ogni creatura, tralasciare pienamente se stessi, perché chi non è libero da ogni creatura non può attendere liberamente a ciò che è divino…” (De imitatione Christi, Libro III, Capp. XVIII e XXXI). Da ricordare che il libro Imitazione di Cristo – di autore ignoto - è stato, dopo la Bibbia, il testo religioso più diffuso della letteratura cristiana occidentale.

[15] Ricordiamoci della sconvolgente affermazione: “senza effusione di sangue non c'è remissione” (Eb 9, 22).

[16] Vedasi l’articolo Il Dio in cui non credo, al n. 736/2023 di questo giornale, https://sites.google.com/view/rodafa/home-n-736-22-ottobre-2023/dario-culot-il-dio-in-cui-non-credo.

[17]  Come ci spiega la parabola dei talenti (Mt 25, 14-30).

[18] Castillo J.M., Simboli di libertà, Cittadella, Assisi, 1983, 72 s.

[19] Vanhoye A., Lettera agli ebrei, Cittadella, Assisi, 2007,

[20] Castillo J.M., Simboli di libertà, Cittadella, Assisi, 1983, 73.

[21] Ma pensate veramente che i colori dei paramenti siano rilevanti per lo Spirito santo? Non faranno solo pensare alle persone molte devote che così si sta facendo la cosa giusta per onorare Dio?

[22]  Sandri L., intervento al convegno su Oltre le religioni, gennaio 2020, organizzato dalla casa editrice Gabrielli editori.

[23] Castillo J.M., Simboli di libertà, Cittadella, Assisi, 1983, 200ss.

[24] Quando parliamo di un gesto simbolico, spesso lo intendiamo come qualcosa di irreale. Sbagliato! Siamo – come vedremo subito - davanti alla realtà più densa.

[25] Nello stesso senso, Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, Paoline, Roma, 1965, 46.

[26] Mancuso V., Io e Dio, ed. Garzanti, Milano, 2011, 116.

[27] I sacramenti (quindi anche l’eucaristia) sono localizzati nel campo del bios, nel simbolo; ma siccome sono dei simboli di gruppo, non meramente individuali, hanno bisogno di una certa ritualizzazione.

C’è anche da tener presente che la violazione del rituale religioso porta in sé stessa sempre l’idea di punizione. Normalmente i rituali religiosi hanno una punizione sancita non tanto dall’autorità religiosa, quanto da Dio.