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Cerimonia probabilmente con il patriarca siriano ortodosso, al di fuori della chiesa del Santo Sepolcro, Gerusalemme , data imprecisata - foto tratta da commons.wikimedia.org

Se nulla si sa di un Patriarca



di Stefano Sodaro


Domani ricorre il 30° anniversario dell’indipendenza dell’Eritrea.

Nessuna testata giornalistica italiana, per quanto noto al sottoscritto, ha diffuso la notizia dell’avvenuta elezione, pochi giorni fa, del nuovo Patriarca della Chiesa Eritrea Ortodossa, Abune Qerlos (https://shabait.com/2021/05/13/abune-qerlos-elected-as-5th-patriarch/), più di cinque anni dopo la morte del suo predecessore, Abune Dioskoros, avvenuta il 31 dicembre 2015. E pochissimo s’è sentito parlare, in tutti questi quattordici anni, della deposizione, risalente al 2007, del predecessore di entrambi, il Patriarca Abune Antonios, che di anni ne ha oggi quasi 92, è agli arresti, risulta essere stato scomunicato dal Sinodo della medesima Chiesa Eritrea Ortodossa nel 2019 ed è però l’unico ad essere riconosciuto come legittimo da tutte le altre Chiese Ortodosse, sia bizantine che precalcedoniane.

Mondi evidentemente lontanissimi – anche se i barconi e le tragedie dei naufragi direbbero il contrario -, universi culturali ed ecclesiali non tanto insondabili quanto, piuttosto, ritenuti non meritevoli di particolare considerazione, quasi al limite di una conoscenza iniziatica per eruditi.

Invece quella notizia è notizia che riguarda la vita di un popolo intero, non solo ortodosso, non solo cristiano.

Mondi intessuti di monachesimo, che non incontra alcuna obiezione psicanaliticheggiante (altro la psicanalisi, altro il psicanalismo, ci hanno insegnato) nel contesto sociale in cui è punto indiscutibile di riferimento.

Ho nella memoria il ricordo di un tramonto nel centro di Asmara e la visione di un prete ortodosso, avvolto nella sua veste bianca e con il suo copricapo del medesimo colore, croce prensile in mano, che passeggia accanto alla sua signora, a sua moglie.

Il Patriarca invece, appunto, non è sposato, è un monaco. E questa coesistenza, di clero celibe e di clero coniugato, non pone alcun problema ecclesiologico o di teologia spirituale laggiù.

Da noi invece scatena massimalismi, sino talvolta a veri e propri integralismi, da una parte e dall’altra. Solo la persona celibe è degna di svolgere il ministero, quella orientale sarebbe un’eccezione priva di significato, anzi segno di una degenerazione (ci sono canonisti famosi che lo affermano, ed anche cardinali…), oppure – all’estremo opposto – nessun monachesimo è possibile, perché nessuna scelta celibataria a vita è ammissibile.

In mezzo non sta “virtus”, ma – proviamo a dire così – “il terzo”.

È il terzo, se ci pensiamo, a nutrire la diffidenza prima di tutto culturale verso i mondi che non conosciamo. Perché il terzo è l’Altro.

Nella millenaria narrazione della coppia clandestina, che s’ama fuori dal “lecito costume”, ad esempio violando gli obblighi coniugali, è il terzo – o la terza – a fare la differenza. Se il terzo sparisce, la coppia può ricomporsi al sole della liceità.

Eppure in questo accanimento psichico, ovviamente quasi sempre inconscio, inconsapevole, verso il terzo – sia un Patriarca, sia un concorrente in amore, sia un cosiddetto “folle”, sia un orante che pone il gesto assolutamente inutile della preghiera, sia un poeta, sia un religioso che non si comprende a che cosa abbia deciso di dedicare la propria esistenza, sia un papà che si dedica ai figli -, in questo cortocircuito brilla, in effetti, l’unica praticabile alternativa ad un sistema capace di stritolare nei canoni dell’omologazione, spesso di contenuto opposto a quello dei canoni dei codici confessionali.

L’ansia per una strenua fedeltà al principio di non contraddizione – o di qua, o di là, non si può andare di qua e di là nello stesso momento – è segno di un’isteria culturale che invece di assicurare la liberazione che promette costringe dentro il vicolo cieco della disperazione, dell’impossibilità di trovare un senso e di ritenerne importante la stessa ricerca, è segno cioè di un’enorme paura. Di una fobia verso se stessi, stesse, prima ancora che verso l’Altro.

La questione di Dio incontra qui infatti un’impasse: non è possibile la sua presenza “terza”.

Eppure un nuovo monachesimo, probabilmente da identificarsi ormai con un diverso sostantivo, è possibile: la radicalizzazione delle scelte di vita può essere rimessa alla provvisorietà delle nostre storie collettive e personali, alla complessità dei nostri desideri, può essere ridiscussa – e se del caso confermata, senza disprezzi ed ironie – alla luce della nostra ricerca di senso. Ma non va estremizzata. Né familismo né clericalismo sono strade di svolta. Ritorna un pensiero già udito: solo il monaco può sposarsi, solo lo sposato può essere monaco.

Oggi è Pentecoste nel calendario cristiano occidentale. La spiritualità è un bel problema irrisolto nella nostra cultura contemporanea, proprio per la sua irriducibilità a facili – e comode – classificazioni. Ne vorremmo una definizione, ma è bene che non sia verosimile darne una. Abbiamo molta paura delle domande e per questo ci affrettiamo a fabbricare continuamente risposte, anche molto prima che le domande siano formulate.

Nella tradizione eritrea – ma anche etiopica – si trascorrono lunghi pomeriggi a preparare e degustare il caffè, servito in non meno di quattro portate. Il nostro caffè, anche quando sarà finalmente consentito prenderlo al banco, dura non più di cinque minuti, dieci proprio al massimo.

Ha affermato Franco Basaglia: «Vivere dialetticamente le contraddizioni del reale è l’aspetto terapeutico del nostro lavoro.»

Proviamo dunque a mantenerle vive, e non morte, queste contraddizioni. Ad attraversarle, a farle nostre, ad assumerle come coordinate imprescindibili del nostro vivere.

Forse così riusciremo a ricordare il nome di Patriarchi di terre lontane.

Franco Battiato, ne siamo certi, li avrebbe enumerati senza difficoltà, uno ad uno.

Buona domenica.