Foto di Paola Cazzaniga
Sabato
di Miriam Camerini
Però ci sono anche i gruppi di persone che si trovano con cartelli scritti in arabo ed ebraico e ragazzine di 8 o 10 anni che prendono il megafono e intonano: “Arabi ed ebrei rifiutano di essere nemici, il popolo esige cessate il fuoco, A Gaza e a Sderot le ragazze vogliono vivere!” e cose così. Questa sera sono stata a una manifestazione del genere davanti al municipio di Herzliya, nel centro di Israele, poco a nord di Tel Aviv, l’altro ieri sera a Gerusalemme. Sono poche le persone e molte le Birkenstock (radical chic di tutto il mondo unitevi: anche io ho le mie, ovviamente: a questo giro infradito verde oliva, color Galilea...); come sempre il vantaggio maggiore è per noi stessi, che forse ci sentiremo meno impotenti e disperati fra un’ora quando saremo a cena davanti al telegiornale.
C’è altro da fare? Votare ho votato, quasi sempre, ogni volta che ho potuto, anche quest’anno che pure ero appena arrivata, ero in quarantena a casa di cugini che abitano in una colonia della Cisgiordania, dove probabilmente il mio voto per il partito più a sinistra di tutti ha fatto rumore cadendo nell’urna foderata di voti dal suono assai diverso, forse una marcia militare. Quest’anno, chi era in quarantena perché appena entrato nel Paese, come me, non era tenuto a recarsi al suo seggio, bensì a votare in uno qualunque dei seggi appositi. Così ho avuto l’occasione di infilare un voto a sinistra in un seggio sicuramente molto più nazionalista di me. Ho sorriso nell’immaginare alla sera lo spoglio dei voti e l’addetto che solleva la mia scheda, la guarda controluce (quante volte in questo mese e mezzo ho mimato questa scena da me inventata per divertire amiche e parenti...) e dice: “E questa roba qui come c’è arrivata?”... Questa era la fine di Marzo, sembra passato un secolo.
Appena un mese fa, alla vigilia dell’anniversario dell’indipendenza di Israele, la sera di Yom Hazikaron, il giorno che ricorda i caduti e le cadute in tutte le guerre di Israele e negli attentati di terrore da esso subiti, sono andata in piazza, davanti al municipio di Gerusalemme; come ogni anno si svolgeva lì uno dei miei riti preferiti fra i molti inventati dalla società israeliana laica: Israele ha una quantità assolutamente non paragonabile ad alcuna altra nazione che io conosca di canzoni “popolari” legate alle origini, ai primi kibbutz, ai pionieri, alle prime guerre, agli eroi che non torneranno più a casa ma il cui sacrificio vivrà per sempre in noi etc etc... Sono canzoni solitamente meravigliose e commoventi, note fin dall’asilo a ogni israeliano o israeliana, scritte apposta per essere cantate facilmente in coro da una grande folla riunita apposta, spesso guidata da una chitarrista o pianista. Ho sempre amato questo modo popolare e potente di elaborare assieme il lutto, cantare il dolore di chi ha perso un figlio o un amico facendolo sentire parte di un tutto. Quest’anno ci sono andata anche se sapevo che non mi avrebbero lasciata entrare nello spazio destinato al pubblico, ancorché all’aperto: chiedevano di esibire il certificato di vaccinazione e io non avevo ancora completato il processo. Sono rimasta fuori dalle transenne, sulla piazza grande, arrampicata su un muretto per vedere e sentire e cantare e sentirmi parte, comunque. Un ragazzo stava accanto a me, anche lui senza oltrepassare le transenne, aveva in mano il cellulare su cui leggeva i testi e cantava a squarciagola: mi ha fatto simpatia. Pochi minuti dopo si sono avvicinati due ultraortodossi biondi e giovanissimi, avranno avuto 16 o 17 anni, riccioli sulle tempie, i cappelli neri un po’ piatti dei chassidim di Gerusalemme e i soliti occhiali a fondo di bottiglia. Con le donne sono istruiti a non parlare, quindi io ero fuori dai giochi; si sono rivolti al ragazzo che cantava e gli hanno domandato: “Che succede? Chi suona? Che cosa cantano?” (Gli ultraortodossi non partecipano solitamente ad alcuna delle cerimonie attorno al giorno dell’Indipendenza, essendo di base contrari al Sionismo politico). Il ragazzo li ha scacciati con un gesto della mano come si farebbe come una mosca e ha sibilato un po’ isterico: “E’ tutto dell’altra parte (espressione aramaica rabbinica e mistica che allude a cose diaboliche, malvagie), lasciate perdere...” I ragazzi se ne sono andati subito, non so se più spaventati o mortificati. Io ho iniziato a piangere, così proprio, subito. Fra i singhiozzi mi dicevo: “Siamo qui a piangere i migliaia di morti che ci sono costati i primi 73 anni della vita di questo disgraziato Paese e questo odio fra le persone è il modo di ricordarli?”. Non avevo ancora fatto in tempo a pescare nella borsa un fazzoletto quando ho visto uno degli addetti alla sicurezza dell’evento allontanare in malissimo modo due ragazzi, questa volta arabi, probabilmente venuti da Gerusalemme est - che è a meno di un chilometro dal municipio - dicendo loro: “Tornatevene al vostro Ramadan, che cosa venite a fare qui?”. I miei singhiozzi a questo punto sono diventati un urlo disperato e la consapevolezza di aver appena assistito alla stessa identica scena ripetuta due volte: arabi e ultraortodossi allontanati in malo modo, invitati a “starsene nelle cose loro” ha fatto nascere in me il bisogno di reagire, portare una parola di pace in quel mare di ostilità. Prima mi sono rivolta al ragazzo, e gli ho detto: “Canti bene, peccato aver mandato via così quei due chassidim: una volta tanto che si interessano alle cose “nostre”, meglio avvicinarli, no?” Poi sono andata dall’energumeno della sicurezza e gli ho fatto notare che forse menzionare il Ramadan era assolutamente superfluo e inutilmente offensivo. Non so a che cosa sia servito, forse - di nuovo - solo a sentirmi un po’ meno male un’ora dopo, nel letto, cercando di prendere sonno.
Eppure, esattamente un mese dopo, a Ramadan finito, nell’ultima sera del periodo che ci ha condotti da Pasqua alla Pentecoste che festeggeremo domani, con una guerra in corso e a mezz’ora dai missili promessi da Hamas per la mezzanotte di questo sabato sera poco festoso, sapere che ho provato a parlare non con il “nemico” esterno, ma con quella parte di noi che sembra incastrata nell’odio mi permette di respirare, quantomeno di respirare.
Foto di Paola Cazzaniga