The Rabbi is in


In equilibrio tra dentro e fuori


di Miriam Camerini


Eccomi già di nuovo sul treno, senso contrario e Gottardo chiuso, tra l’altro: mannaggia a lui.

La settimana zurighese è stata bellissima e benefica: con il mio nipote più piccolo, intonazione perfetta e molto groove, ho suonato flauti e xilofoni, tamburi, tamburelli e chitarre a più non posso. Oltre a guardare lo spezzone video di “Chi del gitaaano i gioooorni abbella” dal Trovatore (“Verdi? Ma se qui è tutto arancione!” ha commentato mio nipote più grande, essendo la scena del falò in quella produzione effettivamente alquanto rossiccia), ho mostrato ai gemelli anche la scena che adoro da Il Fantasma della libertà, film di Bunuel del 1974, in cui due borghesissime famiglie parigine si trovano in salotto per fare in compagnia i loro bisogni mentre fumano sigarette e commentano un recente Tristano e Isotta dell’Opéra, ma mettono bruscamente a tacere la ragazzina che chiede ad alta voce di mangiare: (“Psss.. non si dice in pubblico!”). Non è mai troppo presto per iniziare a non dare troppo per scontate le convenzioni sociali. Capiscono esattamente che cosa intendo, mi pare.

Usciamo anche nella Zurigo tardo-autunnale e pre-natalizia a mangiare le caldarroste, una nostra tradizione, oramai, sempre a proposito di convenzioni.

In tutto questo ho anche lavorato bene, per un’associazione culturale ungherese e per alcuni giornali, per una università tedesca, per la mia scuola di Gerusalemme e per un altro progetto legato anch’esso alla Mitteleuropa, al Talmud e al Teatro.

Con i gemelli abbiamo anche costruito un paio di burattini, una cosa che vorrei fare sempre e non faccio mai abbastanza, con rotoli di carta da cucina, vecchi giornali e vestiti smessi. Roboerto e Signora Mandala si chiamano, ma prendono anche altri nomi via via che procediamo e ancora una volta finiti e costruiti. La bellezza di fare qualche cosa con le mani, così come di ballare, suonare e cantare... Fare la zia è meraviglioso, ma ne avrei bisogno molto molto più spesso.

Difficile uscire da questa realtà fatata e tornare nel mondo, ora.

Questa settimana finalmente torno a cantare in Caffe Odessa, uno dei miei più antichi progetti musical-teatrali, fermo da due anni, con amici carissimi e bravi. Voglio cercare di portare con me nel lavoro molta di questa atmosfera serena e fattiva, creativa nel senso più vero del termine.

Domenica sera inizia Hannuka, la festa ebraica delle luci, così come del rapporto complesso e mai scontato fra il “dentro” e il “fuori”: una ricorrenza che narra, ricorda e celebra la vittoria del “poco” sul “molto”, così come del “puro” sul “contaminato”: poco olio puro che bastò a illuminare il santuario di Gerusalemme per una settimana e un giorno, il tempo sufficiente a produrne di nuovo, e pochi valorosi (e fanatici?) fratelli “duri e puri” che scelsero di resistere alla conquista materiale e culturale ellenistica dei Seleucidi di Antioco su Gerusalemme, la quale doveva invece restare puramente e solamente “ebraica”. Rimossa la statua di Zeus e ogni altra immagine, il Tempio fu riconsacrato e questo è il significato della parola che dà nome agli otto giorni di festa, Hannuka ... inaugurazione.

Ma quanto è vera questa necessità di purezza? Che significa per noi?

Per otto sere accendiamo candele o lumi a olio, ogni sera uno in più fino a contarne otto, per aumentare la luce proprio nei giorni più bui e nelle notti più lunghe dell’anno, ma questa luce deve brillare all’esterno, motivo per cui è uso e obbligo metterla accanto a una finestra o comunque rivolta all’esterno.

Si parla di miracoli, li si canta e li si racconta, li si gioca con le trottole di origine est-europea e forse medievale tipici della festa.

I miei nipoti oggi pomeriggio già cantavano e ballavano mimando una trottola con le mani in testa.

Giorni di luce, che brilla da dentro ma che per aver valore deve essere visibile fuori, illuminare il mondo.

Foto di Paola Cazzaniga