I teologi


di Paola Franchina

Passeggiando per le vie del meraviglioso centro storico medievale di Basilea mi imbatto nella maestosa cattedrale romanico-gotica, nella cui navata sinistra è custodita la tomba di Erasmo da Rotterdam: una lapide, incorporata in un pilastro, raccoglie la memoria del celere umanista olandese. Dinnanzi alla vista accidentale di quella tomba tornano alla mente alcuni stralci, custoditi dalla memoria, della mia lettura universitaria dell’Elogio della follia.

Ripenso alle parole senza tempo, ancora capaci di colpire, con l’acume di una critica sferzante, la società di oggi. L’arguzia di Erasmo consiste nella scelta di dar parola a Follia, la cui voce narrante appare completamente, o, almeno in parte, delirante.

Follia ci viene presentata come una Dea che pronuncia un’apologia in favore di se stessa: in questo encomio, il lettore è accompagnato in un processo di smascheramento dell’umana debolezza. Come su un palcoscenico, si avvicendano svariati personaggi: dagli umili membri del popolino, ai più illustri esponenti della società. Follia passa in rassegna le varie categorie dell’umano: i cacciatori, i costruttori, gli alchimisti, i giocatori, i devoti superstiziosi, e gli intellettuali. Tutti, nessuno escluso, sono colpiti dalle parole graffianti di donna Follia: fra tutti gli intellettuali, però, i più bersagliati sono certamente i teologi. Pur amando tale disciplina – ricordo, infatti, che Erasmo conseguì il baccellierato in teologia a Parigi –, l’umanista sceglie di riservare le sue frecce più acute nei confronti di alcuni rappresentanti della categoria, i quali, pur di occuparsi di soavissime nenie, non hanno neppure un momento per leggere i testi sacri e per coltivare la devozione personale.

Vediamo ora quali sono queste soavissime nenie di cui parla Erasmo:

Vi è un momento nella generazione divina? Vi sono più filiazioni in Cristo? È possibile la proposizione: Dio padre odia il figlio? Dio avrebbe potuto materializzarsi in una donna, in un diavolo, in un asino, in una zucca, in una pietra? E in tal caso, come la zucca avrebbe parlato alla folla, avrebbe compiuto miracoli, sarebbe stata crocifissa? E Pietro cosa avrebbe consacrato, se avesse detto messa nel tempo in cui il corpo di Cristo pendeva dalla croce? E in quel momento Cristo poteva essere detto uomo? E dopo la risurrezione sarà permesso mangiare e bere? [1].

I teologi si prodigano in queste futilità, senza preoccuparsi di rafforzare la fede. Le frivolezze sovra citate vengono rese ancor più complesse dalle principali scuole del tempo - Realisti, Nominalisti, Tomisti, Alberisti, Occamisti e Scotisti –, accusate di prodigarsi nella creazione di inutili sofismi, tra i quali viene enumerato il problema dell’allitterazione della fricativa alveolare sorda, cifra icastica della futilità di tali questioni.

Follia rende il prodigarsi degli studiosi piacevole e oltremodo necessario. Essi, proprio grazie ai benefici di Moria, sembrano non accorgersi della vanità dei loro sofismi, ma, anzi, «credono di reggere coi puntelli dei loro sillogismi la Chiesa universale altrimenti destinata a crollare, così come nei poeti Atlante sostiene il cielo sulle sue spalle»[2]. La massa dei teologi sembra smarrirsi nel dedalo di quaestiones vuote e lontane dalla pratica del Vangelo.

La riflessione sollevata da Eramo è ancora aperta: sono in grado i teologi di far proprio il metodo suggerito da Gesù, ovvero, incarnarsi nel loro tempo e occuparsi di questioni rilevanti per l’esperienza umana dell’uomo, oppure, continuano a rincorre la chimera di una teologia astratta e futile, arenandosi nella discussione di inutili cavilli?! Si sa, incarnarsi significa assumere la propria fragilità e accettare il rischio di soffrire: tuttavia, rischiare di sbagliare è la condizione per chi vuole tentare di vivere.



[1] E. Da Rotterdam, Elogio della follia, C. Carena (a cura di), Einaudi, Torino 2014, 170.

[2] E. DA ROTTERDAM, Elogio della follia, C. CARENA (a cura di), Einaudi, Torino 2014, 182.


Numero 678 - 11 settembre 2022