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Giuda e il rabbi amato


di 

Stefano Sodaro

 

Il bacio di Giuda - Giotto, Cappella degli Scrovegni

L’unico che nel Vangelo della Passione secondo Matteo si rivolge a Gesù di Nazaret con l’appellativo di “Rabbi” è Giuda. Accade al v. 25 del cap. 26: «Giuda, il traditore, disse: “Rabbì, sono forse io?”. Gli rispose: “Tu l’hai detto”.». Ed al v. 49 del medesimo capitolo: «Subito si avvicinò a Gesù e disse: “Salve, Rabbì!”. E lo baciò.»

In tutti due i casi il contesto è intimamente affettivo e tutte due le volte il Rabbi di Giuda gli risponde. Anche dopo il bacio, con queste parole: «E Gesù gli disse: “Amico, per questo sei qui!”.» La parola tradotta in italiano con “amico”, in realtà, nel testo greco compare con il vocativo “ταρε” (pr. Hetàire), che sarebbe l’equivalente di “compagno”. I due brevi, brevissimi, ultra-concisi, riscontri di Gesù nei confronti di Giuda sono un’assegnazione di precisa responsabilità: “Sei tu colui che mi tradisce”, “Il tuo compito è di tradirmi”. Viene in mente un volume di Mario Cucca, Benedetta Rossi e Salvatore Maurizio Sessa, edito da Cittadella nel 2021, che s’intitola «Quelli che amo io li accuso.» Il rib come chiave di lettura unitaria della Scrittura. Alcuni esempi.

Tornando all’appellativo di “Rabbi”, può essere significativo osservare come Giuda lo adopri quando ormai Gesù è a Gerusalemme. A Gerusalemme esistevano, infatti, i sacerdoti – i kohanîm -, che officiavano nel Tempio e di cui Gesù non faceva parte, e i maestri – i rabbanim -. Giuda sa esattamente che Gesù non è un kohen.

Il verbo che viene tradotto con “tradire” è, in Matteo, il greco παραδδωμι (pr. paradídomi), che però avrebbe come primo significato “consegnare”, “trasmettere”, “concedere”. È dunque abbastanza errato leggere nelle intenzioni di Giuda una qualche cattiveria omicida. C’è piuttosto una volontà, diciamo, “appropriatrice”, che è propria di ogni intenso sentimento amoroso, sia di amicizia, sia di colorazione erotica.

Ma avviene, al di là della controluce interpretativa di una teologia del “rib”, che Gesù non si ponga sul piano affettivo di Giuda, non ne intercetti i sentimenti così da corrisponderli, si lascia prendere senza prendere a propria volta.

Ed allora la domanda, molto semplice, pare diventare: come si ama un rabbi? 

Domanda sì semplice, ma anche impegnativa. 

Come si può amare “il maestro” senza cadere in un cortocircuito simil-incestuoso? 

Mantenendo doverosa distanza? Evitando espressioni improprie o anche solo inadatte?

Il rabbi – o la rabbi – si direbbe oggi che “friendzona” facilmente. È necessario, deve comportarsi così. Non altrimenti dovrebbe fare ogni altro ministro di culto, fosse anche solo per allontanare qualunque sospetto in tempi di abusi ecclesiastici (nel senso più ampio possibile) alla ribalta quotidiana delle cronache. Dunque nessun amore possibile?

Forse Giuda è andato ad impiccarsi proprio perché è stato “friendzonato”. L’amore non corrisposto è quanto di più terribile possa devastare un’esistenza.

Eppure Gesù lo considerava “compagno”. 

C’è una gestualità di Giuda, sempre stando al testo di Matteo, quell’intingere nel piatto, quel bacio notturno, che non attende la reciprocità di Gesù. È una gestualità irruente, che quasi spera un contro-gesto altrettanto affettuoso, che invece non arriva.

Meglio astenersi, però, da moralismi di facile fattura ed accettare, invece, il quadro dei rapporti interpersonali, tanto complessi e non semplicisticamente districabili, tra Giuda e il suo rabbi, ritratti nel passo del Vangelo di Matteo, proprio così come ci si presentano: nella loro drammaticità e nella loro incomprensibilità, non solo tra i due protagonisti, ma anche da parte nostra.

Ritorna la domanda: come si ama un – o una – rabbi?

Non c’è una scuola che insegni la risposta giusta. Ma c’è una vita da percorrere. Fino in fondo. 

Forse oggi le cose potrebbero anche andare diversamente. La storia della salvezza, del resto, non è ancora tutta già scritta.

La tenerezza tra Giuda e Gesù ci attende, di nuovo e sempre, anche nel nostro presente e nel nostro futuro.