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Quel vaso di rose che in chiesa esplose


di Stefano Sodaro

Bouquet di rose in un vaso di vetro - Jacob van Hulsdonck  (1582–1647), https://www.mauritshuis.nl/ontdek-collectie/ - immagine tratta da commons.wikimedia.org

Tutte le tre foto sopra sono state scattate dal direttore

Afferma al n. 2 della sua omelia odierna il Papa: «In un tempo complesso come il nostro, emergono sfide culturali e pastorali nuove, che richiedono un atteggiamento interiore cordiale e gentile, per poterci confrontare senza paura. Nel dialogo sinodale, in questa bella “marcia nello Spirito Santo” che compiamo insieme come Popolo di Dio, possiamo crescere nell’unità e nell’amicizia con il Signore per guardare alle sfide di oggi con il suo sguardo; per diventare, usando una bella espressione di San Paolo VI, una Chiesa che «si fa colloquio» (Lett. enc. Ecclesiam suam, n. 67). Una Chiesa “dal giogo dolce” (cfr Mt 11,30), che non impone pesi e che a tutti ripete: “Venite, affaticati e oppressi, venite, voi che avete smarrito la via o vi sentite lontani, venite, voi che avete chiuso le porte alla speranza: la Chiesa è qui per voi!”. La Chiesa delle porte aperte a tutti, tutti, tutti!»

Ed, a fronte di questo – una settimana fa ancora impronunciato - triplice “tutti, tutti, tutti!”, un vaso di rose rosse è letteralmente e realmente, materialmente, già esploso giovedì scorso (ben prima appunto delle parole papali di oggi), nella Chiesa di Loreto a Bergamo, al temine della serata in cui Miriam Camerini, per l’iniziativa Molte fedi sotto lo stesso cielo promossa dalle locali Acli Provinciali, ha tenuto una affollatissima lezione sul tema “Fedeli a Dio e al mondo. Le parole dell’Ebraismo.”.

Che vogliamo dire?

Osiamo – azzardiamo l’idea - vedere nel Sinodo, che si è aperto stamattina con la solenne Eucarestia di Piazza San Pietro, l’ultimo della Chiesa Cattolica ed il primo del Regno di Dio.

Le rose rosse - che presumibilmente avrebbero dovuto costituire un omaggio di sincera gratitudine ed ammirazione verso la relatrice - non potevano più essere contenute, quasi costrette, dentro un vaso di vetro per quanto raffinato ed elegante, evidentemente scelto con molta cura ed attenzione: erano ormai divenute segno di un amore del mondo, in cui tutte e tutti stiamo, per lo stesso mondo, fuori del quale nessuna e nessuno può vivere e dunque neppure amare. Una specie di cortocircuito amoroso che non poteva non buttare per aria, far deflagrare, tutto quanto.

Ha terminato così stamattina il Papa: «E se il Popolo santo di Dio con i suoi pastori, da ogni parte del mondo, nutre attese, speranze e pure qualche paura sul Sinodo che iniziamo, ricordiamo ancora che esso non è un raduno politico, ma una convocazione nello Spirito; non un parlamento polarizzato, ma un luogo di grazia e di comunione. Lo Spirito Santo, poi, spesso frantuma le nostre aspettative per creare qualcosa di nuovo, che supera le nostre previsioni e le nostre negatività. Forse posso dire che i momenti più fruttuosi nel Sinodo sono quelli di preghiera, anche l’ambiente di preghiera, con il quale il Signore agisce in noi. Apriamoci a Lui e invochiamo Lui: Lui è il protagonista, lo Spirito Santo. Lasciamo che Lui sia il protagonista del Sinodo! E con Lui camminiamo, nella fiducia e con gioia.»

Sono parole, in qualche misura – anche consistente misura, va pur riconosciuto – tributarie di un linguaggio che sconta l’usura dei secoli e dei millenni, ma che, nel medesimo tempo, rompe con fragore gli involucri concettuali ed espressivi della religione, quale che sia, cioè di qualunque religione, per dare conto di un’apertura incontenibile verso tutto ciò che qualifica ed invera la nostra comune umanità.

Il “dato”, per così dire, che l’affratella – o “assorella” – non è però di ordine strettamente razionale, logico, di coerenza mentale indubbia e indubitabile: è piuttosto il prisma, il caleidoscopio, di quell’esperienza a tutte e a tutti nota come “amore”.

Ma è un amore che spezza, rompe, fa esplodere e getta a terra i vasi di fiori.

C’è Altro nell’Altro. O Altra nell’Altra.

L’amore, che dischiude il cammino verso l’alterità, è esso stesso superato da Qualcosa d’Altro, o da Qualcun/a d’Altro.

Anche la nostra “onnigamia” ha fatto il suo tempo e cede ormai il passo. 

Francesco vescovo di Roma, rispondendo rispondendo ieri ai Cardinali “dubitanti”, al punto b) della sua seconda risposta, ha sì ribadito che «la realtà che chiamiamo matrimonio ha una costituzione essenziale unica che richiede un nome esclusivo, non applicabile ad altre realtà. Senza dubbio è molto di più di un mero “ideale”.»., ma ha poi anche riaffermato, al successivo punto g), che «tutto “ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma”, perché questo “darebbe luogo a una casuistica insopportabile” (Amoris laetitia 304). Il Diritto Canonico non deve né può coprire tutto, e nemmeno le Conferenze Episcopali con i loro documenti e protocolli variati dovrebbero pretenderlo, poiché la vita della Chiesa scorre attraverso molti canali oltre a quelli normativi.»

Come a dire: è finito il tempo delle definizioni e dei concetti a priori, delle idee chiare e distinte a prescindere dalla realtà concreta. Della liturgia ritualmente perfetta che non sia però “liturgia del quotidiano”.

Addirittura, al n. 3 della più volte citata omelia, Francesco ha ricordato il medesimo passo dell’Apocalisse che ci eravamo permessi di richiamare nel nostro Editoriale di domenica scorsa: «Nel libro dell’Apocalisse, il Signore dice: “Io sono alla porta e busso perché la porta sia aperta”; ma tante volte, fratelli e sorelle, Lui bussa alla porta, però dall’interno della Chiesa, perché lasciamo il Signore uscire con la Chiesa a proclamare il suo Vangelo.».

Vangelo significa, semplicemente, “buona notizia”. E che finalmente Dio possa uscire dai templi e dalle chiese, per incontrare le storie reali delle persone concrete, è la buona notizia che fa esplodere i vasi di fiori.

Prosit.

Probabilmente abbiamo già doppiato, in pontificio sorpasso, anche il Vaticano III.