The Rabbi is in


Una rivelazione non fanatica


di Miriam Camerini

Foto di Stefano Sodaro durante il Concerto Caffè Odessa tenutosi a Matera il 19 maggio 2022

Ero a Catania, la scorsa settimana, invitata a partecipare a un bel Festival del Mediterraneo, di cui parlerò in seguito, e in cui ho raccontato proprio ciò che ora vado a dire a voi, e così questa “pagina” è rimasta nel mio diario: la condivido ora, scusandomi per il ritardo con le lettrici e i lettori, e chiedendo loro di fare un salto mentale indietro di un quarto di luna, grazie.

È l’ultima sera dell’Omer, quel periodo di sette settimane, 49 sere, che contiamo dalla seconda notte di Pesach, Pasqua, affinché ci conduca fino a Shavuot, Settimane, ossia Pentecoste, pronti al dono della Torah e alla raccolta del primo grano. Omer è una misura d’orzo, quella che per biblica prescrizione veniva offerta al Tempio di Gerusalemme ognuno dei 49 giorni.

L’idea di contare il tempo in “grammi” mi ha sempre affascinata, come se i giorni fossero proprio una cosa solida, con un loro peso, una dimensione, come se ogni ora avesse un odore, un corpo, una consistenza, come se si potesse aggiungerne o toglierne un po’... “E’ un omer e mezzo: che faccio signora, lascio?” mi immagino di sentir dire da questo immaginario venditore-pesatore di tempo/cerealoide con la sua paletta in mano, mentre pesca in un sacco di juta ancora qualche ora, qualche minuto, una mezza giornata.

Sette settimane, quasi due lune complete, dall’uscita dall’Egitto al Monte Sinai, dalla redenzione alla rivelazione: le scrivo minuscole volutamente, perché sono entrambe parziali, provvisorie, temporanee, appunto.

La redenzione è infatti più che altro liberazione fisica, concreta, dalla schiavitù, dallo stato di servitù in cui il tempo non lo si conta affatto perché non appartiene all’individuo, bensì al suo padrone.

Per lo schiavo il tempo non ha alcun valore: non è retribuito e non è in alcun modo collegato al godere il frutto del proprio lavoro; per questa ragione, in Numeri 10, i Figli d’Israele nel deserto del Sinai si lamentano con Mosè e rimpiangono il tempo della schiavitù, durante cui in Egitto mangiavano tanto e “gratis”, che detto di persone che lavorano senza sosta è ridicolo, ma ci fa capire che cosa succede quando separiamo completamente il lavoro dalla sua retribuzione.

Lo schiavo non ha nemmeno un giorno di pausa, qualche ora libera per tirare il fiato e contemplare l’opera compiuta.

Per questa ragione il IV comandamento al Sinai doveva suonare davvero rivoluzionario: “Shabbàt, sosta, fermati, non fare e non disfare”, “Ricorda” e “Osserva”, così è prescritto il Sabato, con due verbi non immediatamente produttivi, che presuppongono – anzi: impongono - la necessità di non-fare.

Anche la rivelazione è parziale; così ho sentito spiegare prima di Shavuot dal Rabbino con cui studio a Gerusalemme, che cita un importante Maestro chassidico (mistico) dell’800. La Divinità si rivela dicendo “Anochì”, cioè “Io” nella sua forma più lunga, con una “caf”, la lettera “C/Ch” nel centro, che in ebraico sta per come, come se, simile a... Non è una rivelazione totale, aggressiva, invadente, troppo diretta, bensì un rivelarsi per allusioni, per somiglianza, piano piano e con delicatezza.

Femminile e seducente, più che maschile e conquistatore.

Così vorremmo ogni nostro incontro con il Divino, così vorremmo fosse ogni esperienza spirituale e forse anche – a ben guardare – qualsiasi nostro incontro con l’Altro/a: che piacere c’è nel conoscere una persona che ci interessa e vederla subito “nuda”?

La rivelazione non fanatica, all’insegna del “Come se” è una delle più grandi lezioni di crescita di Shavuot: per imparare a contare e camminare da soli serve un Altro che non invada, che lasci fare a noi la nostra parte.


Foto di Paola Cazzaniga