The Rabbi is in


Il divano

di Miriam Camerini

Giovedì mattina ero al mare, ancora.

Dopo un giorno di pioggia - passato a Genova lavorando con gli amici del Centro Primo Levi e vedendo poi un bellissimo, nuovo Faust alla Tosse, scritto e diretto - che coincidenza - dal fratello di una persona che ho conosciuto poche settimane fa a New York, una sera a cena – mi sono svegliata e splendeva un sole meraviglioso.

L’aria era tersa e pulita, gli spruzzi di mare giungevano fino alle finestre di casa. Sull’agenda avevo cinque appuntamenti a Milano per il pomeriggio e la sera, un treno prenotato in tarda mattina: Levanto-Milano.

Mi sono domandata, facendo colazione, che senso ha tutto questo, come si fa a decidere dove stare, quando pare che tutto valga uguale. Sono stata tentata di cancellare il treno e restare al mare, godere il sole e il vento. Ho iniziato a pensare a come spostare tutti quei 5 appuntamenti nel mondo virtuale in cui puoi essere ovunque, basta ci sia wifi. La banca: ok, quello è facile, c’è l’home-banking, anche se ho già qui parlato di come il mio gentile signor E. della banca non sia sostituibile con un clic, mai. Lo psicoterapeuta: quello riceve anche su Zoom, certo, lo faceva anche prima della pandemia, lo fa certo da un anno e mezzo a questa parte... Forse non vale uguale, ma dopo tanti anni di lavoro in studio, quasi quasi...

Il prossimo impegno in agenda è una nuova persona da incontrare per un lavoro che forse poi nascerà: un amico e collaboratore comune ci vuol far incontrare, ma molto altro non so. Si può fare su zoom. E via così...

Sto quasi per restare al mare quando il mio monologo interiore ha una inaspettata chiusura “all’antica”: “Gli impegni sono impegni”, mi dice nell’orecchio la voce di mia madre; “Hai detto che vai e ora vai”. Chiudo casa e salgo la salita per la stazione.

A Milano, dopo settimane e mesi ... Ricominciare a correre è riflesso automatico: appena scendi dal treno a Milano inizi a correre, e allora banca, psycho, e il nuovo incontro: l’amico comune che ci ha messi a contatto mi ha fatto una sorpresa ed è venuto da Vicenza per essere presente oggi: mentre entro in ufficio e lo abbraccio forte il contatto dei corpi mi spiega la differenza tra essere lì e non esserci, e non ho più dubbi. Meno male che sono venuta.

Proseguo per cena dai miei (fuori programma, ma bene così: se non puoi presentarti a sorpresa a cena dai tuoi dove lo puoi fare?) e poi ancora il mio baretto teatrino club di quartiere: il vino c’è, la musica è bella, gli abbracci lì sono accompagnati da grandi chiacchiere e racconti fino a notte.

Certo che qua ci devi venire con i tuoi piedi, non c’è domanda.

A letto la notte non riesco a dormire, un mio grande classico: dormo bene in treno, in barca, in qualsiasi stanza d’albergo, sul divano degli amici... ovunque tranne che a casa mia; nel mio letto sto sveglia, penso.

L’indomani mi chiama il festival di Modena che mi aveva invitata a Carpi per parlare di ebrei e migrazione ... Ho impiegato un po’ a capire per quale ragione volessero una voce ebraica, e per di più la mia: la famiglia di mio padre è da quelle parti (Modena, Reggio Emilia, Cento, Parma e così via) da secoli, il mio bisnonno Donato è stato Rabbino di Cento e di Parma: di che migrazione stiamo parlando?

Fossoli è assai vicino, due figlie e due nipotini del Rabbino Donato hanno fatto la stessa triste fine di tutti gli altri che per quel campo sono passati, la sinagoga di Carpi è chiusa dal 1922, quella di Modena ancora attiva grazie all’instancabile lavoro di un rabbino originariamente triestino e della sua moglie israeliana, gli ebrei sono da quelle parti da più di un migliaio d’anni, anzi: fino ad alcuni decenni fa erano decisamente più numerosi di oggi.

Oggi forse non si sa molto delle loro prassi e norme, perché il festival mi ha invitata a parlare... il venerdì alle 15.30, cioè un’ora prima dell’ingresso dello Shabbat, giorno di festa in cui non posso parlare in un microfono, essere ripresa e trasmessa, viaggiare e tante altre cose.

Ho spiegato subito che sarei intervenuta volentieri, ma che - non essendo per loro più possibile spostare l’appuntamento a giorno e ora più comodi – dove sarò all’entrata del Sabato venerdì pomeriggio lì resterò fino al buio del sabato pomeriggio.

Inizialmente hanno proposto, anche loro, un intervento via Zoom per ovviare ai problemi logistici, ma io ho insistito per andare di persona, essere lì, conoscerci e l’anno prossimo eventualmente programmare meglio. Venerdì mattina ricevo la conferma finale (qualche ora prima del mio intervento) che il mio viaggio è pronto: faccio una piccola valigia e parto.

Il festival/convegno è molto bello, conosco persone dalle storie interessantissime, una donna meravigliosa che è stata per 30 anni delegata dell’alto Commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati cena con me e parliamo dell’essere umani, che detto da una persona che ha visto più o meno tutto il male esistente sulla superficie terrestre e le sue longeve (così le chiama lei) conseguenze, fa una certa impressione; dà anche un po’ di speranza. La mia nuova amica dell’UNHCR mi suggerisce di crearmi in casa una nicchia in cui sentirmi al sicuro: lei che ha vissuto nei posti più pericolosi della Terra non disdegna il mio piccolo sciocco problema di insonnia, anzi: lo prende sul serio e cerca una soluzione. Alessandra parla dopo cena, a una platea che la segue assorta, di Afghanistan e in sala siedono quattro giovani afghani, due ragazzi e due ragazze, appena scappati dai talebani e accolti dalla città di Carpi. Sorridono, parlano inglese, stanno fra noi.

Mentre torno in albergo, accompagnata da tutto quel che ho visto e sentito, lo spirito è quanto mai “sabbatico” e ringrazio me stessa di aver insistito per esserci di persona, trascorrere qui questo shabbat. In hotel dormo benissimo.

L’indomani visito il bel piccolo museo che Carpi ha dedicato alla II guerra mondiale, leggo parole di quelle che ti entrano sotto la pelle scritte dagli eroi resistenti di tutta Europa – moltissime le donne – e leggo i nomi delle deportate e dei deportati che riempiono un’enorme stanza del castello in cui il museo è alloggiato.

Alla fine dello Shabbat, quando fa buio, posso tornare a Milano, dove mi aspetta la cena di compleanno del mio 92enne prozio, lui adolescente scampato alla deportazione, nascosto in un seminario, da poco diventato nonno la quinta volta.

Il tram dalla stazione al ristorante è bloccato dalla manifestazione dei no vax travestiti da deportati, la città è inferocita, io trascino la mia valigia e corro a piedi alla mia cena.

Fermo un signore di mezza età con cane, cappello e impermeabile coordinati per chiedere indicazioni sulla strada: mi risponde spiegandomi realmente da che parte andare, invece che mostrarmi una mappa sul cellulare come oramai purtroppo fa la maggior parte delle persone. Quando lo ringrazio e saluto fa una cosa che ho visto fare solo a mio padre e pochi ultimi gentiluomini: si tocca il cappello in segno di saluto.

Ci sono i no vax, penso andando a cena, ma ci sono anche i signori col cane che si tolgono il cappello per salutare.

Per la gioia compro sette rose rosse che il mio festeggiato prozio offre subito galantemente alla sua compagna di vita.

La sera torno a casa e seguo il consiglio di Alessandra: mi faccio il letto sul divano. Magari lì, fingendo sia il divano letto di qualcun altro, riesco a dormire.

Foto di Paola Cazzaniga