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Clemente Rebora: il Massignon italiano. E la giovane ecclesiasticista
di Stefano Sodaro
Frazione di Levo, sopra il centro di Stresa, sul Lago Maggiore - foto di Markus Bernet, tratta da commons.wikimedia.org
L’ipotesi di accostamento e di approfondimento è assai azzardata, d’accordo. Ma nuove possibilità d’interpretazione devono pur essere proposte, avanzate.
La figura di Louis Massignon ha spesso attraversato la storia di questo nostro settimanale. Il grande islamista francese nacque nel 1883 e morì nel 1962. Accanto a lui almeno due figure femminili, irrinunciabili per comprendere la sua stessa biografia: la moglie (e cugina), Marcelle Dansaert-Testelin, e l’amica egiziana, di rito cattolico-melkita, Mary Kahil. Riporta icasticamente Jacques Keryell, in Il giardino di Dio. Con Louis Massignon incontro all’Islam, EMI 1997, p. 40: «sebbene sposato e padre di famiglia, volle farsi prete nel rito melchita». Così accadde, nel gennaio 1950, quando Massignon aveva già compiuto 66 anni, nell’ottobre ’49.
Una vicenda singolare, quasi del tutto taciuta nella storiografia ecclesiologica contemporanea, forse perché pose un precedente – quello dell’uomo sposato nato latino ma divenuto presbitero in una Chiesa Cattolica Orientale – ritenuto “pericoloso”.
Spostiamoci in Italia.
Nel 1885 – tre anni più tardi di Massignon – nasce a Milano il poeta Clemente Rebora, che morirà a Stresa il 1° novembre 1957, cinque anni prima del nostro prete melchita francese, certamente più noto quale esimio studioso del mondo arabo.
Non risulta si siano mai conosciuti o incontrati, Rebora e Massignon. Eppure qualcosa, anzi – errore imperdonabile – qualcuno, che li accomunasse c’è ed è, per appunto, una donna, due donne. L’interlocuzione intensissima con un qualcuno, di sesso femminile, ben diverso, tuttavia, dallo status di moglie, di coniuge: Mary Kahil, per Massignon; Lydia Natus, per Rebora.
Le vicende, poi, si fanno esattamente speculari: Mary Kahil è, in buona sostanza, l’artefice dell’ordinazione presbiterale di Massignon al Cairo; Lydia Natus, invece, all’opposto, è colei che dovette allontanarsi perché Rebora maturasse, da solo, la sua vocazione e diventasse prete a sua volta, tra i Rosminiani, a Domodossola. Ma entrambe rimasero punti di riferimento imprescindibili non solo per i biografi, bensì per tutto l’intero svolgersi delle due vite, di Massignon e di Rebora.
Sarebbe corretto adoprare per Mary Kahil e Lydia Natus la descrizione di “amanti”? Sembra davvero troppo riduttivo. Le “due coppie”, per dir così, tratteggiano un orizzonte di relazioni uomo/donna molto, od anche completamente, diverso dai codici noti e, diciamolo in franchezza, ormai frusti. Di certo il “matrimonio nucleare”, di impronta borghese, microcosmo che dovrebbe tenere assieme le forze centrifughe di ogni umano amore, non fu la nicchia in cui si accomodarono, né i due preti, né le loro interlocutrici.
Proviamo ad assumere un approccio più decisamente giuridico e proviamoci, si licet, con occhi proprio femminili. Immagiamoci, cioè, una giovane, a noi contemporanea, studiosa di diritto ecclesiastico che volesse interrogarsi sulla collocazione ordinamentale delle due figure di preti, Massignon e Rebora. Potrebbero, da simil appassionata giurista dei nostri giorni, essere qualificati come “ministri di culto”?
Ricordo una discussione biliosa, molto tempo fa, con un’aspirante rabbina donna, la quale, da un lato, sosteneva che il rabbino non è di per sé un officiante liturgico e, dall’altro, rivendicava però l’assoluta legittimità, anzi doverosità, di qualificare in ogni caso, da parte della legge civile, cioè non religiosa, il rabbino come “ministro di culto” e non ci fu modo di farle cogliere e sciogliere la contraddizione, in nessuna maniera, niente da fare: lo Stato, secondo lei, doveva riconoscere formalmente l’esistenza di una dimensione – il “culto” – anche se in realtà inesistente nella persona da riconoscersi come suo ministro (o sua ministra).
Per Massignon e Rebora la nostra ecclesiasticista potrebbe in realtà giungere a conclusioni – giuridiche – opposte: i due erano senza dubbio officianti del culto, ma niente affatto ministri di esso sotto il profilo pubblicistico. Diciamo meglio. Massignon conservava pressoché segreta la sua identità clericale e Rebora, una volta diventato prete, non ricoprì mai incarichi parrocchiali o di altro risvolto sociale che necessitassero di un preciso inquadramento giuridico. Erano due ecclesiastici, questo sì, se vogliamo stare alla terminologia concordataria, ma di aspetto molto particolare. Due ecclesiastici laici, per continuare con gli ossimori.
Piuttosto coniugare – ops, lampante lapsus freudiano, benché si intenda qui un simbolico coniugio – i due ecclesiastici con le loro misteriose interlocutrici è la vera novità assoluta (peraltro assai tradizionale, anzi addirittura originaria, se solo si pensa al personaggio di Giovanna, moglie di Cusa, che si accompagnava al single Gesù di Nazaret, secondo quanto riporta l’inizio del capitolo 8 del vangelo di Luca, per la precisione al verso 2), che sconquassa il quieto vivere. Compare il tema, pur esso pericolosissimo, del terzo, presenza forse indispensabile, ma di cui, forse, non si può non avere, almeno a livello sociologico-culturale (ed anche politico), una specie di terror panico.
Le cose si fanno complesse, articolate, le dinamiche sfuggenti eppure importanti.
Chiederemo alla nostra ecclesiasticista che cosa ne pensi non solo e non tanto dei nuovi assetti del diritto di famiglia – unioni civili, unioni di fatto, nullità matrimoniali ecclesiastiche non (più) delibabili -, ma di nuove aperture verso inediti intrecci relazionali, fuori controllo.
Per il momento cercheremo, nella prossima settimana, di respirare l’aria dei luoghi di Rebora.
Sperando che le contraddizioni non cedano mai il passo alle banalità.
Buona domenica.
Buon mese di agosto.