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Marie Dominique Chenu - Archivio dei Padri Domenicani della Provincia di Francia - foto tratta da commons.wikimedia.org


L’Agenda Chenu per il Concilio: la fine dell’era costantiniana


הַזֹּרְעִ֥ים בְּדִמְעָ֗ה בְּרִנָּ֥ה יִקְצֹֽרוּ

(Sal 126,5)



di Gianmaria Zamagni

(Berlino)



(Sal 126,5)

«Il mito di Costantino lascia il posto […] al mito della comunità primitiva di Gerusalemme». Con questa sentenza, alla vigilia del Concilio Vaticano II, Marie-Dominique Chenu concludeva il proprio saggio intitolato “Fine dell’era costantiniana” (in: Un concilio per il nostro tempo, Brescia, 1962). Sessant’anni fa il padre domenicano descriveva scientificamente, accademicamente, quella che era stata a volte una formula polemica – cioè, letteralmente, di battaglia – rivolgendosi ai Padri conciliari come si farebbe con un’agenda.

La cosiddetta “era costantiniana” era per il domenicano una periodizzazione storico-sociologica, un tempo lunghissimo (diciassette secoli!) originato però più a monte – com’egli scrive – da un «complesso mentale e istituzionale nelle strutture, nei comportamenti e perfino nella spiritualità della Chiesa». In Costantino Chenu individuava infatti l’inizio di un rapporto di simbiosi, di interdipendenza teologico-politica, che da una parte aveva garantito al sovrano una legittimazione teologica del proprio regime, e dall’altra aveva concesso alla Chiesa prima tolleranza, poi ufficialità, poi protezione, fino alla persecuzione degli “eretici” colpiti dal braccio secolare, cioè dallo Stato.

Quel “complesso mentale” è stato inoltre manifesto nell’ambizione di potenza della Chiesa, nel tentativo di ampliare la propria sfera d’influenza, permeando e assieme incorporando la lingua greca per la dogmatica, il latino come lingua liturgica, il primato della ragione e l’astrazione dell’umanesimo, e fino nelle strutture sociali prima feudali, poi borghesi. In questo modo, tuttavia, si identificava una civiltà particolare, con le sue luci e le sue ombre, tout court con la ἐκκλησία dei vangeli. Ma questo regime di cristianità non è – e non può essere, per Chenu – la chiesa.

Naturalmente, come ebbe autorevolmente a scrivere Jacques Maritain nel 1936 (Humanisme intégral, Paris), non si tratta di disconoscere i meriti, talvolta propriamente monumentali, della cristianità medievale (dalle cattedrali alle Summae), quanto di riconoscere – come un cristiano non può non pensare – che non è nelle nostre mani di governare la storia; e allora pretendere di fissare, di immobilizzare la chiesa e la storia in una forma passata, per di più proiettata come un ideale, non può che risultare in un’empia quanto sterile rivolta contro la sua volontà.

Il 27 ottobre di cent’anni fa Benito Mussolini inscenava la propria marcia su Roma nel giorno della vittoria di Costantino su Massenzio presso il Ponte Milvio. La voluta strumentalizzazione di quella data era naturalmente del tutto abusiva, eppure il Novecento è passato alla storia anche per questi suoi esperimenti di potere totalitario, capaci di bandire del tutto, di assorbire completamente la chiesa o di corromperne il discernimento, facendo campeggiare proprio la croce – più o meno sfigurata – dinanzi alle folle irregimentate e inneggianti, da Roma a Buenos Aires, da Madrid a Berlino.

Una voce particolarmente chiara contro questo abuso, nell’immediato secondo dopoguerra, fu quella del saggista viennese Friedrich Heer: quell’esperimento teologico-politico «è alla fine». La perversione degli eserciti guidati dalla croce e dalla spada doveva aver già mostrato il suo volto più feroce. Ed è ancor più doloroso dover constatare ancora oggi come vi siano tentativi – in Oriente e in Occidente – di tenere in vita, addirittura di rianimare quello che resta di quell’esperimento, millenario quanto esaurito, che da Costantino, attraverso Carlo Magno, è giunto fino al Fascismo e al Nazionalsocialismo.

Di quella “Agenda Chenu”, che accanto al ritorno alla Scrittura indicava ancora una concezione di missione come apertura al diverso e un’opzione preferenziale per i più poveri, vorrei sottolineare qui l’aspetto dell’attesa implicito in quel “mito” (che «non è falso archeologismo», com’egli scriveva) della comunità primitiva di Gerusalemme. Un’attesa trepidante, sempre al servizio della pace eppure rispettosa dei tempi e soprattutto dell’iniziativa – che non le compete – di erigere sulla terra quel regno che non avrà fine.