Un solo cielo comune

di Paola Franchina

Oggi ci lasceremo ammaliare dalle parole di noti oratori, due fuoriclasse dell’arte retorica: Ambrogio e Simmaco. La singolar tenzone si svolge nel 384 d.C. a Milano, ove i due esponenti della società romana danno abbrivio ad una diatriba: in questione vi è la presenza in senato dell’altare della vittoria.

L’ara, custodita in senato per volontà di Ottaviano Augusto a testimonianza del trionfo su Antonio e Cleopatra, diviene oggetto di reverenza da parte dei senatori, i quali si accostano all’altare e prestano giuramento per celebrare la grandezza e la potenza di Roma.

Nel 313 d.C. con la promulgazione dell’Editto di Milano, noto come editto di tolleranza, viene garantita la libertà per tutti di aderire alla religione preferita. Questo editto dà avvio ad un periodo di convivenza, non sempre pacifica, tra il paganesimo e cristianesimo.

La tolleranza inizia progressivamente ad incrinarsi, nel 357 d.C. l’altare verrà rimosso per un breve tempo in occasione della visita dell’imperatore Costanzo, figlio di Costantino il Grande e dell’imperatrice Fausta. Questo è un segno evidente che la forza politica della nuova religione è in ascesa e rischia di mettere in crisi il culto tradizionale: nel 380 d.C, l’editto di Tessalonica, noto con il nome di Cunctos populos, emesso da Teodosio, Graziano e Valentiniano II dichiara il cristianesimo la religione ufficiale dell’impero, proibendo l’arianesimo e i culti pagani.

Nel 382, Graziano, che già ha rifiutato il titolo pagano di Pontefice Massimo, rimuove l’altare della vittoria dal Senato. È in questa occasione che ha luogo il meraviglioso scambio oratorio che vede coinvolti Simmaco e Ambrogio.

Quinto Aurelio Simmaco, grande oratore, senatore e scrittore romano, prende parola per chiedere che le radici pagane dell’impero romano non vengano estirpate:

Chiediamo pace per gli dei della patria... Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande[1].

Tale disputa sottende una questione ancor più radicale: il concetto di verità. Dinnanzi alle parole di Simmaco, Ambrogio rivendica il possesso di una verità rivelata direttamente da Dio.

La questione della verità da sempre interroga teologi e filosofi. Aletheia è una parola greca che indica il non nascondimento della verità, il suo rendersi evidente alla comprensione umana.

Nel corso della riflessione teologica, la tradizione manualistica ha portato ad indentificare il disvelamento e la rivelazione come un insieme di verità rivelate: si proce deducendo il particolare dalle verità di fede, viste come dei postulati cristallizzati.

Concepire la verità come dato la riduce ad un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica nella sua forma storica: chiunque non condivida tale depositum è pertanto escluso dalla Vera Chiesa.

Tuttavia, ci è richiesto di porci alla scuola della Rivelazione, la quale ci conduce a nuova prospettiva in cui la verità non corrisponde ad una res, ma ad una persona: Gesù di Nazareth. La verità si dà nella storia e, attraverso la vicenda di un logos eterno che diviene sarx, carne, si offre una chiara indicazione di metodo per tutti coloro che vogliano porre in atto una riflessione cristiana credente.

La verità, in quanto storia, ha una sua forma sovrabbondante che eccede il dato e ogni possibile riduzione eidetica. Occorre, dunque, il mantenimento della molteplicità semantica della verità, la quale non si dà, ma si va facendo nella storia.

Solo Dio possiede una visione globale della storia, noi siamo immersi in essa e di essa custodiamo soltanto una sfumatura, una prospettiva, limitata, ma, nel contempo, fondamentale e unica.

Pertanto, una teologia che cerchi la verità che si fa nella storia richiede una prassi sinodale che sappia dialogare costruttivamente e vagliare criticamente i motivi di pertinenza delle varie prospettive, alla ricerca di un’unità che custodisca la molteplicità originaria:

La diversità di lingue e culture caratterizza la Chiesa fin dalle origini ed è ben illustrata nel racconto biblico della Pentecoste (Atti degli Apostoli 2,1-13). Gli apostoli parlano in varie lingue, generando lo stupore dei presenti: «Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio»[2].

Il testo di Pertusati, 50 Piccole storie di chiese divise in cerca di unità, rappresenta un esercizio di sinodalità, in direzione di una riflessione alla ricerca di una verità che non annulli la ricchezza, sia pur complessa e faticosa, della diversità.



NOTE


[1] Q. Aurelio Simmaco, Relazione sull'altare della Vittoria, Il Basilisco, Genova 1987.

[2] C. Pertusati, 50 Piccole storie di chiese divise in cerca di unità, Effatà Editrice, Cantalupa (Torino) 2021.