Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

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Viaggio in Italia


di Stefano Agnelli


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3. La Comunità per minori




Il 1990 è stato un anno fondamentale nella mia vita.

La scelta di entrare in Caritas attraverso la porta del Servizio Civile l’ha resa diversa per sempre, l’ha cambiata in modo radicale.

Pensavo, a torto, mentre studiavo Storia all’Università, di amare l’umanità, di essere dalla parte degli altri, ma mi sbagliavo.

Era soltanto l’orgoglio dell’Umanista convinto che attraverso l’amore per la cultura, si illudeva di andare verso il prossimo. Non avevo fatto i conti con la mia smisurata ambizione, quella di diventare un grande storico, capace di creare distanza, di togliere umiltà. Non avevo inoltre mai toccato con mano il dolore, ma l’anno precedente, nell’estate dell’‘89, dovetti interrompere gli studi a causa di una grave malattia che mi gettò direttamente ai piedi della croce. Non riuscivo più a leggere, figurarsi a studiare.

Nelle lunghe settimane passate a letto, quando il mio solo pensiero era di arrivare alla porta, compresi che non potevo rimanere chiuso in casa ma, al contrario, dovevo aprirmi al mondo come non avevo mai fatto prima. Con grande ansia e timore, dopo aver compilato la domanda per il Servizio Civile, visto che non potendo continuare gli studi – poi regolarmente finiti – sarei incappato in un devastante Servizio militare, ripresi a leggere.

Iniziai con i fumetti più semplici, poche faticose parole, ma ben presto recuperai. Venni assegnato alla Comunità per minori a rischio dell’Opera Don Calabria di Ferrara, anche se ben presto iniziai a trascorrere le mattine in una struttura per anziani, sempre di proprietà della Diocesi ferrarese, poiché mi venne chiesto e io non rifiutai. Il contrasto era notevole. Durante le mie giornate, per un anno intero, passavo dall’assistere persone, in prevalenza donne, che avevano tutte superato i Settant’anni, al seguire nelle attività didattico-educative degli adolescenti dagli 11 ai 13 anni. Preso fra questi due poli di stupefacente verità, la mia forza aumentava: ricaricavo le batterie. Conobbi ben presto altri obiettori come me, assegnati alla comunità, e diventammo quasi subito un gruppo affiatato e molto unito.

Quando si è in trincea la solidarietà diventa un cemento formidabile e si impara il vero valore dell’amicizia. Iniziai anche a pregare. Nella piccola cappella all’ultimo piano dicevamo le Lodi ogni mattina e ogni sera provavo la bellezza della Compieta. Così maturò, giorno dopo giorno, anche la mia fede in Cristo.

La Comunità per minori, o almeno quella dove ero io, funzionava come una famiglia allargata.

Il momento dei pasti, in cui i ragazzi si contendevano l’affetto e la considerazione del responsabile, volendo stare il più possibile vicino a lui nel consumare il pasto, rivelava più che mai questa struttura. Noi obiettori ricevevamo le stesse attenzioni, ed eravamo considerati una sorta di “fratelli maggiori”, con cui instaurare il più possibile un rapporto uno a uno. Questa tendenza andava anche contenuta e frenata, ad esempio non potevamo stare nelle camere dei ragazzi a fare lezione, ma piuttosto in un grande spazio comune. Si doveva garantire anche una certa continuità. Molti di loro erano stati sin troppe volte delusi e/o abbandonati, ragione per cui ho continuato a frequentarli anche dopo la fine del Servizio civile. Si era creato un rapporto di fiducia reciproca, ed interromperlo di colpo avrebbe causato loro l’ennesima delusione.

Decisi di esserci, sempre, anche negli anni a venire, almeno sino a quando non avessero finito il primo ciclo di studi.

Ricordo che, a turno, li portai a casa mia, per far loro vedere dove vivevo, così che potessero immaginare dove mi trovavo quando, certe sere, non ero con loro in comunità.

Quando alla mattina non ero in casa di riposo, era piuttosto dura iniziare la giornata. Toccava per prima cosa farli scendere a fatica dal letto, e poi veicolare un’oretta di Storia o di altre materie con mezz’ora di gioco, se andava bene. Ogni contenuto doveva essere semplificato ed insegnato loro con cura ed amore, altrimenti ottenevi una chiusura che non ammetteva repliche.

Il contatto diretto con questi ragazzi mi ha definitivamente aperto al mondo e fatto capire la mia vocazione di insegnante.

Oggi, che insegno da più di vent’anni, posso dire che quei pochi anni di comunità sono stati fondamentali per la mia formazione. Li voglio qui ringraziare, uno ad uno, per quello che mi hanno insegnato, per il dolore che sono riusciti a lenire mostrandomi il loro e spesso intuendo il mio. Infatti, nonostante io non avessi mai menzionato ciò che mi era successo, si creava ogni volta una mutua solidarietà, quasi sentissero come anch’io fossi stato un adolescente difficile, che piano piano ha richiuso la mia ferita.

Ricorderò sempre le vite sospese, quasi interrotte di alcuni di loro, la possibilità che mi hanno dato di comprendere quanto amore sia necessario per crescere bene.

Ogni contrasto, ogni discussione o lite, subito rientrava, perché capivano che eravamo lì per loro, e soprattutto non avevamo timori nel dire dei no – i famosi “no che aiutano a crescere” del bellissimo libro di Asha Phillips – e che tutte le volte che questo succedeva eravamo pronti a motivarli, brevemente, rifuggendo la polemica infinita e sterile che alcuni perseguivano in quelle occasioni.

So che molti sono riusciti a costruirsi una vita, ad avere un lavoro ed una famiglia. Questo pensiero è tra i più gratificanti per me. Spesso, nei momenti bui della mia vita, mi sostiene, così come mi allarga sempre il cuore aprire Facebook e vedere nelle pagine dei miei ex alunni di questi ultimi vent’anni, le foto di frammenti di vita felice: cene, vacanze, lauree. L’insegnante frustrato? Poveraccio, che brutta vita deve avere, fa uno dei lavori più belli che esistano e ne sente solo la fatica: un vero e proprio ipovedente d’amore, non c’è alcun dubbio.