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Quale liturgia?


di Dario Culot


 Santa Messa nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie (Calvizzano [provincia di Napoli], 14 Luglio 1965) - foto tratta da commons.wikimedia.org

La parola ‘liturgia’ oggi significa sostanzialmente culto divino; cioè per avvicinarsi a Dio c’è bisogno di un mediatore,[1] un addetto al culto (sacerdote), il quale realizza questa mediazione con riti particolari (il culto), in spazi particolari e sacri (nel Tempio, nella chiesa), seguendo procedure appositamente studiate (liturgia), impartendo regole particolari (comandamenti, precetti). In ogni religione Dio ha creato l’uomo per essere servito, ed il servizio si esprime innanzitutto attraverso il culto, la liturgia, le offerte,[2] i sacrifici.

Secondo il terzo papa di Roma, Clemente I, è stato lo stesso Gesù Cristo a prescriverci di fare offerte e liturgie,[3] in circostanze e ore stabilite[4]. E ancora secondo il papa Benedetto XVI, il luogo nel quale si fa realmente la maggior esperienza della Chiesa è la liturgia, perché essa costituisce l’atto essenziale col quale entriamo in contatto con Dio attraverso la Sua parola e attraverso l’eucaristia;[5] e poi nella liturgia non siamo noi a mostrare la nostra creatività, ma si tratta di lasciarsi toccare da Lui[6].

Sarà anche vero. Però, stando ai vangeli, mi sembra che Gesù abbia innanzitutto insegnato che Dio non ha bisogno di nulla (At 17, 25) e non chiede per sé né tributi di lodi, né offerte. Gesù – facendoci capire che così si comporta Dio – ha rivolto tutte le sue attenzioni solo agli uomini, senza escludere nessuno, nemmeno i principi e i signori del santuario, anche se le sue preferenze sono andate ai poveri, ai prigionieri, agli emarginati, agli infelici nel corpo e nello spirito, ai peccatori[7]. Quindi, Dio non chiede, ma dà. Allora se l’uomo non deve dare più niente a questo Dio, ma deve soltanto accoglierlo, dovremmo necessariamente cambiare anche il significato di liturgia.

Questa parola deriva, come al solito, dal greco: léiton che significa luogo pubblico + èrgon che significa opera, servizio. Non a caso, allora, la liturgia (cioè il servizio pubblico messo in pratica da Gesù) è stata qualcosa di completamente diverso da quello che vediamo ancora oggi in chiesa. Forse proprio per questo si chiamavano culto e liturgia solo i riti giudaici o pagani (Lc 1, 23; 2, 37; At 7, 41; 14, 13; Rm 9, 4; Eb 9, 21), mai una celebrazione cristiana. Invece noi, nella nostra Chiesa, abbiamo replicato esattamente il culto e la liturgia ebraica, e ci sentiamo con la coscienza tranquilla, sicuri di essere veri credenti a posto con Dio dopo aver seguito le regole, i riti e le sante messe,[8]. Invece la liturgia non serve a niente se al centro della vita delle persone non c’è prima l’amore servizievole e gratuito verso gli altri, punto su cui Gesù ha molto insistito. Solo ciò che si fa a un altro essere umano, quantunque sia il più indegno, lo si fa a Dio[9].

È ora di rendersi conto che Gesù non ha proposto alcun tipo di cerimonie sacre, di sacrifici, per rivolgersi a Dio. Non ha mai affidato a sacerdoti alcun compito di mediazione fra la gente e Dio, tant’è che – neanche fra gli apostoli - ha investito qualcuno dell’ordine sacerdote. La liturgia di Gesù è consistita nel farsi carico della sofferenza e della disperazione delle persone, nel curarle e nel guarirle[10]. Per fortuna, moltissime persone al mondo praticano oggi questa liturgia insegnataci da Gesù, anche se non vanno a messa tutte le domeniche. Forse queste persone si sono lasciate veramente toccare da Dio, non dalla liturgia umana.

Se siete perplessi di fronte a questa spiegazione, diamo come sempre un’occhiata ai vangeli.

• Luca mette quasi all’inizio del suo Vangelo il racconto di Zaccaria, quel sacerdote piissimo che segue scrupolosamente la liturgia (intesa come culto a Dio) nel Tempio di Gerusalemme (Lc 1, 5ss.). Questa liturgia – come del resto la nostra, - prevedendo assolutamente tutto non solo non lascia spazio alla nostra creatività (proprio come dice papa Benedetto), ma non lascia spazio neanche a Dio, che fa tanta fatica a toccarci perché una liturgia rigida e prefissata strozza ogni possibilità di parlare al Dio che viene (Ap 1, 4.8), quello che fa nuove tutte le cose (Ap 21, 5).

E che si debbano affrontare questioni nuove con soluzioni nuove, e non con dottrine vecchie, trova conferma in Gv 16, 13, quando Gesù dice che lo Spirito porterà cose future, porterà il Dio che viene, senza doversi cristallizzare sul Dio del passato[11]. Mentre in una visione statica per conoscere la perfezione bisogna guardare indietro, in una visione dinamica occorre guardare avanti e protendersi verso il futuro:[12]

Quando ci si vuole incentrare solo sul Dio del passato si rischia l’ateismo, perché in realtà non c’è più posto per Dio, non gli si dà spazio. A ben leggere il Vangelo, per Dio è stato più facile rendere madre una sterile e una vergine piuttosto che farsi accogliere da un sacerdote,[13] scrupolosissimo osservante delle regole, che però resta impermeabile e sordo alla voce di Dio che viene. Come mai, visto che è una persona assai religiosa e pia?  Perché proprio queste persone non riescono assolutamente a concepire che Dio possa irrompere nella loro vita e parlare al di fuori delle sacre liturgie che esse stanno già meticolosamente osservando. Anche nella liturgia di oggi, in cui abbondano i richiami alla santità, è previsto tutto: quando il sacerdote si alza e quando si siede, quando alza le mani e quando le abbassa, quando il messale sull’altare va messo a destra del celebrante e quando a sinistra, ma non è previsto che Dio a un certo punto si presenti e voglia dire la sua. In effetti, come può lo Spirito manifestarsi nella vita delle persone se queste sono anestetizzate perché legate ad immagini e schemi immutabili trasmessi dalla tradizione? Se un sacerdote compie gesti rituali, precisi, tutti calcolati, e in quel rito non è previsto che Dio si presenti, quando Dio si presenta non ci può essere posto per Lui. Nel sacro libro della liturgia, che prevede tutto, che controlla ogni gesto dall’inizio alla fine, che precisa cosa deve dire il celebrante, cosa devono rispondere i fedeli (ai quali è impedito manifestare un loro pensiero autonomamente pensato[14]), quando alzarsi, quando inginocchiarsi, quando sedersi, non c’è spazio per un intervento del Signore. Anche se un giorno Dio volesse dire una parolina in quell’assemblea che si riunisce per tributargli onore, la risposta sarebbe: “C’è scritto qui? No! Non è previsto! E allora stai zitto e sparisci!” Non sarà forse proprio per questo che in tante nostre assemblee liturgiche la voce di Dio non si sente mai? Non ci tocca, nonostante i buoni propositi di papa Benedetto XVI! Dio c’è, ma non gli si lascia spazio per parlare, poveretto. Anche se Dio è lì, nessuno se n’è accorto.

I rigorosi tutori dell’ortodossia, gente tutta d’un pezzo, piena di religione, piena di devozioni, piena di riti e di preghiere, quando Dio si presenta non se ne accorgono, semplicemente perché Dio non si presenta mai seguendo le regole che il catechismo e la liturgia ha loro insegnato. È proprio vero, allora, che è la religione a rendere atei. La fede, che porta alla conversione, non ha molto da spartire con la religione. A forza di ripetere gli stessi gesti, si finisce che manca la compartecipazione e tutto si riduce a un freddo automatismo. I riti religiosi non portano i più alla conversione, al cambiamento, ma sono mere funzioni ripetitive che lasciano le persone che escono di chiesa assolutamente uguali a quando sono entrate. Lo stesso prete che dice messa meccanicamente, ma non col cuore, diventa un mero funzionario di Dio e dell’istituzione[15].

Dunque, nonostante la perfetta liturgia, Zaccaria è rimasto sordo alla voce del Signore, e finché Zaccaria rimane chiuso alla novità, al Dio che viene, rimane un devoto guardiano al museo del Dio che era, sì che – spiega il Vangelo - a quel punto restano in campo solo le donne, la vergine (Maria) e la sterile (Elisabetta), quelle che contro ogni immaginazione e speranza sono state invece capaci di aprirsi alla vita (Lc 1, 41ss.),[16] al nuovo. Il pio sacerdote, invece, resta muto. Dobbiamo pensare che Dio punisce il sacerdote rendendolo muto? No di certo, perché il Dio di Gesù non castiga nessuno. Il racconto significa solo che la Parola, prima conservata nel Tempio, vien tolta al sacerdote e – attraverso il sacerdote – a tutta l’istituzione ecclesiastica del Tempio, cioè a tutta la Chiesa di allora che non sa rinnovarsi. E, ulteriore annotazione: questa Parola tolta al pio sacerdote che celebra nel luogo sacro per eccellenza, viene portata in una piccola casa, profana e non sacra, dove inaspettatamente, dal punto di vista degli uomini, si crea un ponte fra l’Invisibile ed il visibile, fra Dio e l’uomo, fuori di ogni apparato liturgico[17] che rende atei, nel senso che più una persona è immersa nei riti, nel culto e più diventa refrattaria all’azione di Dio. Questo racconto dovrebbe farci riflettere.

Diciamocelo pure: nella maggior parte delle nostre comunità difficilmente Dio, che comunque parla quando, dove e come vuole Lui, riesce a far sentire la sua voce proprio perché la liturgia – lungi dal toccarci come dice papa Benedetto - è spesso ridotta a rito, ed il rito tutto mummifica.

Noi continuiamo ad aspettarci che Dio ci parli nella liturgia, ma Dio ci parla magari dove meno ce l’aspettiamo, come quando lo si cercava nel terremoto e invece era nella brezza leggera (1Re 19,12).

La fedeltà ai rituali, alla liturgia, ha occupato il posto della fedeltà a Gesù, ed il rito e la liturgia hanno finito per rubarci il Dio di Gesù[18]; un Dio che si trovava pragmaticamente nel profano, non del Tempio. Gesù non è mai andato nel Tempio a celebrare, non ha mai indossato paramenti sacri, a differenza dei sacerdoti del Tempio. Se noi oggi ci scandalizziamo vedendo un sacerdote che dice messa senza paramenti sacri, ma solo col grembiule, vuol dire che crediamo ancora al Dio del sacro, al Dio del Tempio; vuol dire che, al pari dei farisei, crediamo che indossando i vestiti più strani si è più vicini a Dio; vuol dire che la religione ha deviato dal messaggio di Gesù e noi non ce ne siamo resi conto[19]. Non ci siamo resi infatti conto che la denominazione di Padre fa passare Dio dalla sfera del sacro a quella della famiglia che vive nel profano. Cessa pertanto il culto di Dio nei templi. Da quando in qua un padre esige per sé culto e regali? Egli è il donatore che comunica vita ai figli. L’omaggio al Padre non dovrebbe più consistere nel culto rituale[20]  (Gv 4, 4-42), e noi invece continuiamo a considerare cristiano solo chi va regolarmente a messa.

• Nel capitolo 21 di Giovanni, l’ultimo del suo Vangelo, mi sembra fondamentale far notare che sulle sponde del lago si trovano in sette, e sette è il numero che significa completezza: siamo perciò davanti alla comunità al completo. Comunità che è formata da apostoli ma anche da discepoli, tutti uguali, senza che a nessuno sia riconosciuta una posizione gerarchica superiore.

Sono andati a pescare da soli, e non hanno preso niente. Aver seguito Pietro (il futuro papa, ci dice la Chiesa), che ha preso autonomamente l’iniziativa di andare a pescare, porta al fallimento. Ma Gesù non li abbandona. Gesù si presenta all’alba, sul far del giorno perché Gesù è la luce del mondo. Rinnova l’invito alla collaborazione (andare a procurare il companatico – Gv 21, 5) li rimanda a pescare (non a pregare); essi accolgono la sua indicazione, e questa volta tornano con un carico ragguardevole di pesci. L’evangelista usa il termine “moltitudine” che aveva già usato per l’episodio della piscina di Bethesda, dove Gesù aveva trovato una gran massa, cioè sempre una “moltitudine” di infermi, ciechi, zoppi e paralitici (Gv 5, 3). Quella era l’immagine delle persone che erano escluse dal Tempio, e quindi escluse da Dio: gli emarginati, i rifiutati, gli invisibili. Con questa moltitudine di pesci l’evangelista dà alla comunità la chiara indicazione che la pesca va rivolta a persone che non hanno più la loro dignità, per far loro riscoprire la dignità di figli di Dio. La pesca va rivolta a persone che sono invisibili agli occhi della società per renderli visibili[21]. Quando la pesca si rivolge ai rifiutati, agli emarginati, agli esclusi, a coloro che sono stati allontanati o si sono allontanati dalla religione ufficiale, allora la pesca è più che abbondante. Quindi Gesù sta dando l’indicazione su dove e come deve orientarsi la missione della Chiesa, ieri come oggi: non va rivolta a Dio, seguendo una bella e sana liturgia. Quando la Chiesa orienta la sua missione verso gli esclusi dell’umanità la pesca è sempre più che abbondante[22].

Tutta la comunità è andata insieme a pescare e quindi sono tutti vestiti da pescatori, e Pietro è anche tutto bagnato perché si è tuffato ed è tornato a riva a nuoto. Da notare che nessuno indossa paramenti sacri, eppure tutti partecipano alla comunione: Gesù ha il pane e chiede agli altri: “voi avete il companatico? No? Allora tornate a pescare e venite qua quando avrete anche voi da dare qualcosa”, e solo allora mangeranno assieme, cioè quando avranno portato i pesci. Non ci si può limitare a ricevere da Dio, ma ci si deve attivare e collaborare per essere anche in grado di dare. Siamo sempre in un ambiente assolutamente profano, senza culto e senza liturgia: l’esperienza umana della mensa condivisa dovrebbe farci aprire gli occhi per scoprire Gesù, e allora da dove si ricava che l’eucaristia si deve ricevere precipuamente durante il culto liturgico della santa messa, ricevendo l’ostia consacrata in bocca, dal sacerdote vestito con i sacri paramenti, e stando rigorosamente in ginocchio?

• Vediamo un altro esempio ancora. Gesù legge in pubblico nella sinagoga il passo di Isaia “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha mandato a portare ai poveri la buona novella, a proclamare ai prigionieri la liberazione, a rimettere in libertà gli oppressi” ecc.” (Lc 4, 18ss.). Dopo aver letto, la sua predica è brevissima, direi tacitiana: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato» (Lc 4, 21). Un paio di secondi. Scommetto che a messa non avete mai sentito una predica così sintetica: neanche dieci parole! Ma cosa sottintendono queste poche parole? Con queste parole Gesù chiarisce quale è la sua missione: appunto un servizio pubblico di liberazione degli oppressi, di sostegno ai più deboli: In breve, la restituzione delle gioie semplici e quotidiane della vita laica e quotidiana a coloro che ne sono stati privati. Non ci servono allora caste sacerdotali e poteri sacrali per salvarci, bensì l’applicazione del valore pieno della vita profana[23].

Prestare culto a Dio significa sicuramente rendergli onore, ma avendo Gesù cambiato completamente l’idea di Dio, ha cambiato pure l’idea di culto. Se Dio è Padre, cioè colui che per amore dell’uomo gli comunica la propria vita desiderando elevarlo alla condizione divina, appare chiaro che ritiene un suo onore che l’uomo gli assomigli sempre di più:[24]se siamo capaci di fare il bene senza attenderci nulla in cambio, se siamo capaci di amare anche se l’altro non lo merita, se concediamo il nostro perdono prima che venga richiesto, allora siano veramente somiglianti a Dio, e assomigliandogli nell’amore potremo sperimentare che Dio è Padre. Il gesto della lavanda dei piedi dimostra che Gesù sta preparando Pietro al servizio, l’unico titolo che consente di seguire Gesù. Gesù si riconosce dal servizio e l’unico titolo per seguire Gesù è quello del servizio.

Mi sembra che costituisca un vero e proprio problema per la Chiesa di oggi il fatto che tanti sedicenti credenti si nascondano ancora dietro alla pratica religiosa rituale, al culto, alla liturgia, e si scandalizzano se non viene perfettamente seguita, dimentichi del fatto che l’unico segno distintivo del cristiano avrebbe dovuto essere l’amore tradotto in servizio, di cui il grembiule è l’unico simbolo:[25] ma forse l’esempio viene dall’alto.

E se qualcuno chiedesse: “ma perché ti impegni tanto nel servizio gratuito verso gli altri?” si potrebbe rispondergli: “Perché so che Dio fa così e io voglio assomigliargli, perché modestamente mi piace essere come Dio. So che Lui mi vuole così. E so anche che come padre è orgoglioso di me se faccio così”[26].



NOTE

[1] Come risulta da un titoletto dell’Enciclica del 20.12.1935, anche per la Chiesa il sacerdote è inteso come mediatore fra Dio e gli uomini (Pio XI, Ad catholici sacerdotii, in www.vatican.va/Sommi­­_pontefici/Pio_XI/Encicliche).

[2] Salmo 96, 9 (95): “Portate offerte ed entrate nei suoi atri”.

[3] Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, ed. Paoline, Roma, 1965, 17 e 33, definisce come liturgia una certa fase e un certo modo in cui si attua tra noi il senso della Rivelazione; poi, più precisamente, la definisce come il complesso dei segni sensibili di cose sacre, spirituali, invisibili istituite da Cristo o dalla Chiesa, efficaci, per i quali Dio, per mezzo di Cristo capo e sacerdote, e nella presenza dello Spirito Santo, santifica la Chiesa e la Chiesa, nella presenza dello Spirito Santo, unendosi a Cristo suo capo e sacerdote, per mezzo di Lui rende come corpo il suo culto a Dio. Come si vede è una spiegazione un po’ fumosa, senza riferimento ad alcun passo evangelico.

[4] Clemente I, Lettera ai Corinti XL, 2, in www.documentacatholicaomnia.eu.

[5] Benedetto XVI, Luce del mondo, ed. Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2010, 215 s.

[6] Idem, 216.

[7] Da Spinetoli O., Il Cristo che aspettiamo, “Adista” n.9/2012, §6, in www.cdbchieri.it.

[8] Già il nome ‘missa,’ che significa congedo con benedizione, ha poco a che vedere con l’ultima Cena, in cui Gesù ha invitato ad assumere un comportamento di disponibilità verso gli altri, dando tutto sé stessi per gli altri, come ha fatto lui.

[9] Castillo J.M., Dio e la nostra felicità, ed. Cittadella, Assisi, 2008, 70.

[10]  Squizzato G., Via il teismo, cosa ci resta?, in Oltre Dio, a cura di Fanti C. e Vigil J.M., Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2022, 191.

[11] A questo proposito è opportuno ricordare quanto ha affermato papa Francesco davanti alla CEI, quando ha ricordato com’è sbagliato il ripiegamento “di chi cerca nel passato le certezze perdute” (riportato da Politi M., Il Papa non assolve i vescovi e ribalta la linea della Cei, “Fatto Quotidiano”, 20.5.2014, 10).

[12] Molari C., Per una spiritualità adulta, ed. Cittadella, Assisi, 2008, 10.

[13] Maggi A., Non ancora madonna, Cittadella, Assisi,2004, 56.

[14] Eccezionale, quindi, la lettera pastorale dd 11.9.2023 del nuovo vescovo di Trieste, Enrico Trevisi, dove dice al §10 che “la preghiera dei fedeli sia più possibile dei fedeli. Si cominci almeno in alcune occasioni… a non prendere quelle stampate (sul foglietto della messa) ma a coinvolgere i fedeli a pensarle, prepararle, leggerle”. Il nuovo vescovo si appella alla creatività dei fedeli.

[15] Interessante, in proposito, è Drewermann E., Funzionari di Dio, Raetia, Bolzano, 1995.

[16] Maggi A., Non ancora madonna, Cittadella, Assisi,2004, 50 s.

[17] Vannucci G., Esercizi spirituali, Fraternità di Romena, Pratovecchio (AR), 2005, 21 s.

[18] Castillo J.M., Analisi teologica dei sacramenti, conferenza settembre 2011 tenuta a Montefano, in www.studibiblici.it

[19] In Gv 13, 8 Pietro rifiuta la lavanda dei piedi perché, avendo capito dove mira Gesù, rifiuta di comportarsi come Gesù; chiede perciò di trasformare la comunicazione di vita (questo è il senso dell’amore servizievole della lavanda) in uno sterile rito liturgico pasquale. Però non si è puri perché ci si lava i piedi, ma perché si accoglie (Gv 13, 11: non tutti, infatti, sono puri). Chiaro che questo gesto compiuto da Gesù ci distanzia abissalmente dai paramenti sacri.

[20] Mateos J. e Barreto J., Il Vangelo di Giovanni, Cittadella, Assisi, 1982, 233.

[21] Nei vangeli si parla spesso di piccoli e di bambini. Ma i bambini non vanno intesi nel nostro senso sentimentale, romantico, affettivo, perché rappresentano invece tutte persone senza diritti, senza importanza che venivano schiacciate da tutti quanti, e Gesù fa intendere che queste sono le persone più importanti e più vicine a lui (ad es. Mt 18,1ss.), e di queste dobbiamo occuparci.

[22] Maggi A., Commento al Vangelo di Giovanni, 14.4.2013, in www.studibiblici.it/Omelie.

[23] Squizzato G., Via il teismo, cosa ci resta?, in Oltre Dio, a cura di Fanti C. e Vigil J.M., Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2022, 192.

[24] Mateos J., L’utopia di Gesù, ed. Cittadella, Assisi, 1991, 100.

[25] Ricordate com’era stato criticato il compianto vescovo di Barletta Tonino Bello il quale, vedendo nella stola un simbolo di potere, con “vera anomalia” aveva fondato la sua chiesa sul grembiule (v. blog di apologetica cattolica del 16.2.2012, in www.pontifex.roma.it.). Eppure proprio il grembiule - simbolo di servizio - è l’unico abito liturgico indossato da Gesù (Di Santo G., La messa non è finita, ed. Rizzoli, Milano, 2012: “Non è il grembiule l’unico abito liturgico indossato da Gesù secondo i Vangeli?”).

[26] Lo spiega bene don Luciano Locatelli nel suo discorso sulla cura, tenuto nella chiesa di san Bartolomeo a Rivalta (RE), estate del 2023.