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La Pentecoste di don Milani e la badessa di Conversano

di Stefano Sodaro

Don Milani insieme ai suoi studenti di Barbiana - Foto di Oliviero Toscani - L’Espresso gennaio 1959 - tratta da commons.wikimedia.org

La badessa di Conversano nel disegno di Lorenzo Tomacelli - immagine del 2020 tratta da https://futuroarcaico.it/opere/la-badessa-di-conversano/

L’hanno sempre messo di mezzo don Milani: da destra per avversarlo come una specie di demonio in talare, da sinistra per farne il vessillo dell’anti-tutto, ma purtroppo, ahiloro, portava la talare, appunto.

Se ne son sentite di tutti i colori su di lui, fino addirittura a dargli del “cripto-pedofilo”. O da farne un santino, il che – proprio diciamolo – viene assai male, anzi fa davvero ribrezzo.

Eppure sua madre sapeva chi fosse, oltre al figlio che da lei aveva visto la luce del sole cento anni fa: era un prete. 

Alice lo disse, lo sottolineò, lo ribadì in ogni occasione, lo ripeté, perfino ammonì chi faceva finta di niente, dentro o fuori le chiese. E per quanto lei, la triestina, ebrea non credente, Alice Weiss, avesse sempre provato quasi repulsione verso l’asserita “vocazione” di Lorenzo, che le restava davanti in tutto simile all’indecifrabile enigma della morte, riconosceva che solo come presbitero quel suo figlio diventava un uomo, si allontanava dal legame con lei come deve accadere per ogni figlio.

Sì, era un prete suo figlio Lorenzo. Che almeno la Chiesa, quella con la “C” maiuscola, ne tenesse conto, lo riconoscesse in tale sua profondissima collocazione esistenziale. 

Doveva, avrebbe dovuto, tenerne conto. Perfino per lei, la madre, era accaduto: aveva dovuto lasciarlo andare là, davanti un altare, ed era stata molto molto nolente.

Che la Chiesa lo accogliesse dunque.

Invece niente. Niente da fare. 

E siamo ancora lì.

Neanche i cosiddetti cattolici progressisti ne consideravano – ne considerano? - l’identità ecclesiale che lo strutturava da capo a piedi. Da Adriana Zarri, a Enzo Bianchi, netta prese di distanza dal Priore di Barbiana. Troppo pretale? Chissà. Troppo laico? Nemmeno si sa. Alla sinistra dava fastidio il primo “troppo”, alla destra ed al centro democristiano il secondo.

Era nato il 27 maggio 2023, a Firenze, ed il 26 novembre 2023 compirà cento anni mons. Luigi Bettazzi, suo coetaneo dunque, di soli 6 mesi più giovane, e felicemente qui con noi, memoria viva del Vaticano II. Dunque non sarebbe stato impossibile vedere accanto al Vescovo emerito di Ivrea anche don Lorenzo. Ma con tutti e due la Chiesa ha mantenuto i conti aperti. Crediti di sacralità da esigere o debiti di gratitudine non solo pastorale, ma specificamente teologica, da soddisfare?

Qual era la teologia di don Milani?

Uno che (e, peggio ancora mi sento, prete) diceva di doversi andare a confessare più volte alla settimana a quale specie di cattolico lo ricondurremmo? Ad uno squilibrato fanatico? Ad un massimalista devoto?

Recupero una citazione dall’intervento che tenne l’indimenticabile nostro professore Giovanni Miccoli – uno dei più grandi storici della Chiesa che l’Italia abbia avuto, triestino – al Convegno di Studi del 1980 proprio su don Lorenzo Milani. È il passo di una lettera a Gian Paolo Meucci del giugno 1952:

«Della CISL m’hai insinuato invece il sospetto d’infiltrazioni dell’area del dollaro. Dell’Acli massa di manovra ecclesiastica. Di Fanfani conformismo. Di La Pira paternalismo. Dell’ACI merda. Di Pio XII merda. Di De Gasperi merda. Di Adesso merda. Di Dossetti disperazione. Oppure no forse qualcosa di peggio. Di Dossetti stima illimitata. Ma in questa stima per l’uomo che s’è trovato solo nel deserto quasi un invito anche a me a dire siamo soli. Sentirci due o tre dalla parte di Dio e tutto il resto nel più sporco tradimento.». (cfr. G. Miccoli, “Don Lorenzo Milani nella Chiesa del suo tempo”, in Don Lorenzo Milani. Atti del Convegno di Studi, Firenze, 18-19-20 Aprile 1980, p. 28).

Che cosa ne risulta? Che don Milani rifugge da ogni cricca complottista, da ogni consenso plaudente verso un’acropoli di pochi onniscienti che finalmente hanno capito il funzionamento del mondo.

Nonostante una vulgata iper-pervasiva che vuole farci credere il contrario, don Milani è radicalmente contrario a qualunque antagonismo fine a se stesso, incapace di produrre politica, di rigenerare fiducia, speranza, di ridisegnare orizzonti verso cui tendere.

Ma c’è qualcosa d’altro. Don Milani era propriamente, tecnicamente, il parroco di Barbiana, ma veniva indicato – assai più modestamente, in apparenza – soltanto come “il priore” di quella pieve sperduta. Spieghiamo meglio: nel complesso sistema beneficiale ecclesiastico precedente al Vaticano II, per una paradossale inversione logica, accadeva piuttosto spesso che i preti più “titolati” erano in realtà i più poveri. Di Barbiana, cioè, sarebbe stato meglio essere parroco senza esserne pure, per mero titolo formale ecclesiastico, “priore”. Ma don Lorenzo reagisce con l’intera sua vita, con il vero e proprio sacramento della sua vita.

S’era comprato, a Barbiana, un fazzoletto di terra dove allestire la sua tomba. Da lì non se ne sarebbe più andato, o comunque lì sarebbe alla fine di sicuro tornato. Così voleva, così credeva.

La teologia di don Milani, credo si debba riconoscerlo, oggi sarebbe decisamente femminista. Allora, ovviamente no.

Più che un priore, maschio, assiso nei privilegi di chissà quali riconoscimenti curiali, sembrava esattamente il rovescio d’ogni sacro e laico potere: piuttosto pareva, dunque, una “priora”, madre, molto più che padre, di quel nugolo di ragazzi e – non andrebbe dimenticato – di ragazze. La curia fiorentina aveva usato verso di lui la stessa, medesima, strategia di allontanamento cui l’autorità ecclesiastica è sempre ricorsa nei confronti delle donne, tanto più se esperte, competenti, “teologhe” riconosciute (ed ogni le virgolette, ovviamente, vanno tolte, senza se e senza ma…).

E tuttavia il Priore, “la Priora”, di Barbiana non ha mai smesso né abiti clericali né paramenti liturgici. Non ne ha avuto alcun disagio. Anzi erano essi a decretare, a manifestare silenziosamente, il dinamismo intrinseco di una vita rimasta “mistero” persino a sua madre.

Da un punto di vista teologico, sembra davvero che a Barbiana sia accaduto qualcosa che non può ormai più succedere, qualcosa di definitivo, di rivelativo. Una Pentecoste, sia che la si legga con occhi ebraici o cristiani. Un dono.

Imbarazzante e sconcertante, così come, nella storia della Chiesa, troppo ingombrante appare la rivelazione dell’importanza unica delle badesse, che esercitavano giurisdizione pastorale persino sui preti e futuri preti, decidendone le sorti e le assegnazioni. Che portavano, in alcuni casi – come quello della Badessa di Conversano, in Puglia – mitria e pastorale. Che erano “priore” di temibile potenza. Ma che difendevano le proprie consorelle, o figlie, monache, secondo un’autonomia che le avrebbe garantite da ogni incursione, di qualunque tipo, respingendo con decisione ogni connivenza “alla Gertrude”, la celeberrima monaca di Monza.

Sembra pure, quella di don Milani, la figura capovolta di don Edgardo Mortara, alla cui vicenda si ispira il film di Marco Bellocchio, nelle sale cinematografiche in questi giorni. Prete per scelta, non per imposizione. Che si libera dalle maglie dell’Inquisizione amando i suoi ragazzi, fino a morirne, ma mai e poi mai cercando di convertirli a nient’altro che non fosse la loro stessa dignità.

La Badessa di Conversano era nota, alla pubblicistica ecclesiastica, come “Monstrum Apuliae”. Ma “monstrum” fu pure don Milani per la Chiesa del suo tempo, e chissà che sospetti non allignino ancora in qualche sacrestia d’Italia.

Trieste, molto inconsapevole al riguardo – ma non in modo innocente -, è stretta a doppio filo alla vicenda del Priore di Barbiana. Per ragioni materne, certo, ma anche – ad esempio – perché a Trieste visse quella Tiziana Fantini, pittrice, nata pure lei nel 1923 (a Merano), che frequentò assieme a Lorenzo l’Accademia di Brera a Milano, nascendone una dolcissima amicizia, forse un amore.

I nonni materni di don Milani, Emilio Weiss e Giutina Emilia Jacchia, sono seporti nel cimitero israelitico di Trieste.

A noi, qui, a Nordest d’Italia, adesso, oggi, cosa resta, oltre alle tombe? 

Resta, forse, un pensiero folle, e stravagante, va bene – del resto Giorgio Pecorini, “Pecos”, aveva unito la conoscenza di Basaglia a quella di don Milani -: metterci alla ricerca di chi possa impersonare una milaniana Badessa di Conversano, oppure un don Milani con volto di badessa.

Solo così i cento anni saranno compiuti.

Buona domenica.