Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Roiano e  l’onnigamica queerness di Rodafà: Martina diacona tra legge e arte


di Stefano Sodaro

Trieste, Roiano, Chiesa parrocchiale dei Santi Ermacora e Fortunato - foto tratta da commons.wikimedia.org

Santa Martina - 1635 ca. - opera di Pietro da Cortona (1596-1669) - Los Angeles County Museum of Arts - immagine tratta da commons.wikimedia.org

Icona di Santa Martina - opera di Cristina Capella

Martina Trauschke, nata a Gerdau nel 1958, ha studiato teologia nelle università di Würzburg, Amburgo e New York e dal 2004 è parroca presso la chiesa cittadina di St. Johannis ad Hannover. Dietro a lei compare Andreas Kehler, nato il 20 novembre 1943 nell’allora Kammin/Pomerania (oggi Kamień Pomorski, nel Voivodato polacco della Pomerania occidentale). Kehler ha studiato giurisprudenza presso le Università di Amburgo, Berlino e Heidelberg ed è attualmente (dal 06/2013) ex dipendente del Ministero della Scienza, ex consigliere ministeriale, presidente del Consiglio ecclesiastico e docente presso la cattedra di diritto privato tedesco ed europeo e diritto commerciale presso l’Università Gottfried Wilhelm Leibniz - foto di Bernd Schwabe, di Hannover, tratta da commons.wikimedia.org

Con un titolo simile, c’è la fondata speranza che pochi siano i lettori – e poche le lettrici – del nostro odierno editoriale. “Speranza”, perché le cose da dirsi, in questa domenica, sono alquanto delicate e toccano la carne viva di migliaia di persone, quasi diecimila, benché di area geograficamente molto circoscritta. Forse, chissà, un approccio alquanto glocal, come si diceva qualche anno addietro.

Il nostro settimanale ha sede in un rione - un quartiere, un sobborgo - di Trieste, che si chiama Roiano. E a Roiano centrale è, ovviamente, la piazza – Piazza Tra i Rivi (perché a Trieste, in tutta la città, i corsi d’acqua scorrono sotterranei) – e punto di riferimento imprescindibile è la Chiesa Parrocchiale, consacrata il 13 luglio 1862, centosessantadue anni fa quasi esatti, dedicata ai Santi Ermacora e Fortunata. Gli stessi cui è dedicata anche la Basilica di Aquileia, madre, fin dai primi secoli cristiani, di tutte le Chiese - con la “c” minuscola e maiuscola - delle Tre Venezie.

Dieci anni fa, pure quasi esatti, a Roiano si visse un vero e proprio dramma socio-ecclesiale, che, nonostante il tempo trascorso, ha segnato  - c’è da temere - indelebilmente la storia del rione. Intitolammo Lamento per Roiano l’editoriale del 29 giugno 2014 e si sperava, davvero con tutto il cuore, di non rivivere mai più la lacerazione di allora, pure al tempo incentrata attorno alla Chiesa Parrocchiale, alle cui liturgie progressivamente non presiedette più nessun prete di coloro che vivevano con le, e i, roianesi «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono», come solennemente inizia la Costituzione Pastorale Gaudium et spes del Vaticano II.

Invece, purtroppo, apprendiamo che anche l’attuale, giovane, cappellano di Roiano, don Davide Lucchesi, dovrà essere trasferito

La domanda si pone da sé: ci risiamo? Altro nuovo squarcio nel tessuto popolare del popolatissimo rione di Roiano? Nonostante una frequentatissima sagra – “paesana”, si potrebbe aggettivare – appena terminata, proprio in onore dei Santi Patroni? La sofferenza di allora non ha insegnato niente? Non ha portato alcun frutto?

Vengono in mente i romanzi di Bruce Marshall – A ogni uomo un soldo, Tutta la gloria nel profondo. Il mondo, la carne e padre Smith, Il miracolo di padre Malachia, Un sicario per Giovanni Paolo - con i suoi preti protagonisti di vicissitudini sempre intrecciate alla vita della gente comune, per nulla troppo devota e assidua ai riti.

Ma le cose, il 28 luglio 2024, stanno altrimenti rispetto al 29 giugno 2014: non sono più le ragioni del sacro – come si intese riaffermare allora, pur senza dirlo esplicitamente - che devono allontanare i presbiteri da un eccesso di osmosi con la comunità, ma proprio il contrario. C’è bisogno, cioè, che chi guida una comunità cristiana – il presbitero, l’ “anziano” – sia radicalmente compromesso con le sorti, verrebbe da aggiungere “anche territoriali”, di quella stessa comunità, in tutte le sue componenti, cattolica ma anche laica o d’altra fede religiosa. Che significa tutto questo? È presto detto: significa che a Trieste, da poco più di un anno, c’è un nuovo vescovo, con una visione pastorale oggettivamente molto diversa da quella del suo predecessore e sembra che Roiano sia messa – chissà perché, si parla sempre de “la nostra Roiano”, al femminile, come fosse una micro-città – di fronte alle proprie responsabilità di assunzione di una coscienza ecclesiale e civica in prima persona, senza deleghe più possibili. Per esprimerci un po’ più rozzamente, ma forse in modo più chiaro: come se Roiano dovesse diventare cappellano di se stessa, senza altri intermediari. Per suggestione d’analogia, viene un po’ in mente il ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci, nel brano odierno del Vangelo di Giovanni, agli inizi del capitolo 6 – quello che narra dell’arcinota cosiddetta moltiplicazione dei pani e dei pesci -, secondo la liturgia romana. 

La vicenda del nostro rione, tuttavia, riguarda anche questo nostro settimanale, dal momento che la sua sede legale si trova in Via Moreri, una delle storiche strade di Roiano, verso il Carso, verso Opicina, verso il confine.

Anche “Il giornale di Rodafà” vorrebbe reagire alla nuova privazione di un vicario parrocchiale (presumibilmente frutto di consultazione sinodale, in ascolto di pastori e popolo di Dio), che tanto, tantissimo, si era speso in particolare per i giovani, con un riassetto della propria redazione che veda – finalmente – una presenza importante di firme di donne autrici (almeno tre), capaci di farci riflettere su temi teologici, di approfondimento biblico-esistenziale, di lettura critica ed entusiasta delle istanze provenienti dal mondo del diritto e da quello dell’arte, in tutte le sue infinite sfaccettature.

Cos’è questo nostro settimanale? Proviamo a dire qualcosa al riguardo.

Venerdì scorso l’interpretazione di Céline Dion, che dalla Torre Eiffel ha cantato l’Hymne à l’amour di Edith Piaf durante la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi, ha dato il senso di quella medesima “passione eccedente” – se non “eccessiva” – che ci anima e ci accompagna, fin dagli inizi, 776 numeri or sono, quindici anni fa. E ci chiediamo: esiste una corrente di riflessione artistica, filosofica, teologica e persino – da restare sbalorditi – giuridica che entri dentro i meandri di tanto appassionato coinvolgimento? Sì, esiste, ma le discipline “queer” sono pochissimo conosciute in Italia. Da Il Dio queer – l’opera fondamentale di Marcela Althaus-Reid comparsa in Italia nel 2003 con la magistrale traduzione del caro amico Gianluigi Gugliermetto per i tipi di Claudiana (Gianluigi ha curato la pubblicazione in italiano, appena uscita, di Il lavoro è vita del teologo episcopale Matthew Fox) – alla recentissima Bibbia Queer. Un commentario, volume pubblicato nel 2023 per le EDB, la riflessione culturale prosegue con speditezza, traendo linfa, nutrimento, dalle singole storie personali e collettive per scandagliare altre zone dell’esperienza umana troppo a lungo rimaste in ombra.

Scrivemmo di “onnigamia” (letteralmente “matrimonio di [o forse anche per] tutto/tutte/tutti”) diverse volte dalle righe del nostro giornale, non riuscendo tuttavia forse mai, va riconosciuto, a definire compiutamente che cosa fosse proprio di preciso questa tanto celebrata “onnigamia”, di cui fu inventore peraltro non certo un qualche autore de “Il giornale di Rodafà”, bensì niente poco di meno che Charles Fourier. È queer l’onnigamia? Ah, moltissimo, senza dubbio. Come faremo, però, a capirne qualcosa? Prendiamola larga anche in tal caso.

Ferve, in ambito cattolico, la discussione sul diaconato alle donne, anche in vista della seconda parte del Sinodo dei Vescovi che si celebrerà il prossimo ottobre.

Ebbene, la tradizione consegna una singolare figura di diacona martire che fece crollare tutte le statue delle divinità romane, al cui cospetto fu condotta in catene perché le venerasse, e tutti i relativi templi – di Apollo, di Diana -. Si tratta di Santa Martina, vissuta – riferisce appunto una tradizione in ogni caso assai dubbia – nel III secolo e martirizzata al tempo dell’imperatore Alessandro Severo, che però non è affatto noto per sue persecuzioni anti-cristiane, anzi, al contrario, per la sua consolidata benevolenza verso ogni credo e da qui i dubbi sul racconto della santa. Ma poco ci importa.

Perché, come che sia, la diacona Martina diventa – nel nostro registro “rodafiano” - simbolo dello sgretolamento di ogni statua corrispondente ad ogni luogo comune, stereotipo culturale, frase fatta, azzeramento di pensiero critico, intorpidimento emotivo. E l’unica cosa che possono farci è dunque tagliarci la testa, come avvenne per Martina, che, secondo il racconto, uscì indenne anche dagli accanimenti sadici delle più raffinate e crudeli torture (verso un corpo di donna, poi, figurarsi…).

Ed era diacona - lo si è detto - la nostra Martina, proclamata niente di meno che compatrona di Roma nel 1634 da Urbano VIII [1]. Ed il suo stato di non sposata – sempre dando credito alla discutibile tradizione, ma ci piace molto – rinvia proprio alla necessità di uscire da ogni facile codificazione dei rapporti affettivi. Ed alla chiesa a lei dedicata nel Foro Romano forse potrà dirci qualcosa la nostra prossima, sua omonima, redattrice, esperta d’arte e di diritto ecclesiastico. Il diritto c’entra, eccome, perché la dinamica tra legittimità e ingiustizia della legge è una delle massime questioni a tutt’oggi, mentre imperversano le guerre. E come l’estetica artistica incroci il diritto è un’altra faccenda tutta ancora da indagare. Del resto l’attenzione precipua al diritto canonico, al diritto ecclesiastico, alla configurazione giuridica dei fenomeni religiosi, ha sostanziato la linea del nostro settimanale fin dagli inizi.

Insomma – si magna licet componere parvis -, come fu Cordula “il caso serio” per Hans Urs von Balthasar, grande teologo del Novecento, potrebbe essere davvero Martina “il caso serio” per Rodafà oggi.

Allora, augurandoci buona domenica, ci auguriamo anche una svolta di vita, per Roiano, per Rodafà, per qualunque luogo e condizione in cui viviamo. Perché di amare non si finisce ma. Non si può. Non si deve.

A Roiano non c’è, non c’è mai stata, siccità. E dunque rifiorirà. Onnigamicamente rifiorirà. Forse non solo Roiano. Forse, un pochino, anche grazie a Rodafà, chissà. (È tutta una rima, wow!).

A presto. E di cuore: buona domenica!




NOTA

[1] Si tramanda che Urbano VIII abbia addirittura composto un inno in suo onore:


Martinae celebri plaudite nomini,
Cives Romulei, plaudite gloriae:
Insignem meritis dicite Virginem,
Christi dicite Martyrem.

Haec dum conspicuis orta parentibus,
Inter delicias, inter amabiles
Luxus illecebras ditibus affluit
Faustae muneribus domus:

Vitae despiciens commoda, dedicat
Se rerum Domino, et munifica manu
Christi pauperibus distribuens opes,
Quaerit praemia Coelitum.

Non illam crucians ungula, non ferae,
Non virgae horribili vulnere commovent;
Hinc lapsi e Superum sedibus Angeli
Coelesti dape recreant.

Quin et deposita saevitie leo
Se rictu placido proicit ad pedes;
Te, Martina, tamen dans gladius neci
Coeli coetibus inserit.

Te thuris redolens ara vaporibus,
Quae fumat, precibus iugiter invocat,
Et falsum perimens auspicium, tui
Delet nominis omine.

A nobis abigas lubrica gaudia,
Tu qui Martyribus dexter ades, Deus
Une et Trine: tuis da famulis iubar,
Quo clemens animos beas. Amen.

E qui la traduzione:

Acclamate il nome splendido di Martina,
Acclamatene la gloria, cittadini figli di Romolo:
Celebrate la Vergine, gloriosa per i suoi meriti,
Celebrate la martire di Cristo.

Ella, nata da nobili genitori,
tra le delizie, tra le piacevoli
lusinghe del lusso possiede in abbondanza i ricchi
beni della prospera casa:

Disprezzando gli agi della vita, dedica
se stessa al Signore di tutto e con mano generosa
distribuendo ricchezze ai poveri di Cristo
cerca i premi del Cielo.

Né gli artigli né le fiere la tormentano,
né le verghe, infliggendole orribili ferite, la piegano;
poi gli Angeli, discesi dalle sedi eterne,
la confortano con il banchetto del cielo.

E in realtà, abbandonata ogni crudeltà, il leone
si getta ai suoi piedi, le fauci placidamente richiuse;
Ma te, Martina, la spada, dandoti la morte,
fa entrare nelle schiere del cielo.

A te laltare fumante, mentre dei vapori d’incenso profuma,
eleva preghiere senza interruzione
e, annientando la falsa idolatria,
la cancella con il segno del tuo nome.

Allontana da noi i falsi piaceri
Tu che propizio ti fai vicino ai Martiri, o Dio
Uno e Trino: concedi ai tuoi servi lo splendore
con il quale, clemente, rendi felici gli animi. Amen.



T-shirt al Jerusalem Pride del 2012 - foto di Neil Ward tratta da commons.wikimedia.org