Ed era cosa molto bella

di Paola Franchina

Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.[1]

Così descrive il suo stato d’animo Stendhal, il quale, durante il suo Tour del 1817, viene colpito da un’affezione psicosomatica che genera in lui tachicardia, vertigini e confusione. Motivo scatenante di tale reazione è il trovarsi al cospetto di opere d’arte di sublime bellezza.

La sensazione celestiale che viene suscitata dall’arte e dal bello è esaltata anche da Platone, il quale, subendo l’influsso del razionalismo pitagorico, fa coincidere la bellezza con l’armonia. L’equilibrio accomuna le cose esistenti, trascende il sensibile nella sua eccedenza: i rapporti armonici di proporzione sollecitano l’uomo ad un percorso che lo indirizza al sommo Bene.

Nel 450 a.C. fu Policleto a definire la bellezza secondo il modello della razionalità matematica: nel suo Canone, fissa l’ideale paradigmatico di perfezione, inaugurando il periodo classico dell’arte greca. Viene, così, applicato il modulo architettonico all’anatomia umana, convenendo in un ideale di bellezza generato dall’armonia delle parti, misurate secondo il principio della proporzione. Il doriforo, di cui conserviamo una copia a Napoli, si impone quale espressione di un sublime equilibrio formale.

L’armonia non presiede solo alla composizione armonica dell’anatomia umana, ma rappresenta la legge che regola la creazione del cosmo: il Demiurgo, artefice dell’universo, dà forma al mondo secondo un criterio geometrico, plasmando la materia (chora) in forme perfette. Così, nel testo di Genesi, Dio si compiace della bellezza insita nella creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto tôb (bella e buona)»[2].

La bellezza era per gli antichi una forza attrattiva, principio formale del cosmo, motore che regola il divenire, ma anche telos a cui la realtà materiale tende.

Si racconta che Eris, dea della discordia, adirata a motivo dell’esclusione dal banchetto nuziale tenutosi in occasione del matrimonio tra Peleo e Teti, decise di presentarsi all’evento, gettando sulla mensa imbandita una mela d’oro, sulla quale era incisa la frase: alla più bella.

A concorrere per ottenere l’ambito pomo erano tre dee: Era, la sovrana dell’Olimpo, Afrodite, la dea della bellezza e Atena, la dea della saggezza. Zeus, non volendo entrare nel contenzioso, affida il compito di giudice a Paride.

Si narra che Afrodite, per accaparrarsi la vittoria, offre a Paride l’amore della più bella dei mortali, Elena, moglie di Menelao: casus belli della guerra di Troia.

La bellezza ci viene descritta in questo mito quale forza attraente capace di sedurre e privare finanche gli dei della loro lucidità. Il fascino dell’ameno si mostra nella sua ambivalenza: l’uomo può fare esperienza di transumanar, oppure cadere in uno stato di offuscamento della mente. Il carattere ambiguo della bellezza dipende dallo sguardo con cui ad essa ci si accosta.

Un esempio, in negativo, ci proviene dalla mitologia; nelle Metamorfosi di Ovidio, Apollo, in seguito ad una diatriba con Cupido, viene punto da una delle sue frecce che lo spinge ad indirizzare il suo amore verso una ninfa, la bellissima Dafne. Non essendo corrisposto dalla Naiade, il Dio del sole e delle arti si lancia in un inseguimento incalzante dell’amata, descritto attraverso lo scenario della caccia:

La fuga l’ha resa più bella. Ma rinuncia a sprecare altro fiato,

il giovane dio, per sedurla: a spronarlo c’è Amore in persona,

così affretta il passo ad inseguirla. Al modo in cui vede una lepre

in campo aperto un levriero celtico, e corre a cercare

lui la preda, ma lei la salvezza, e convinto di stare per prenderla,

l’uno conta di averla fra un attimo e allarga le fauci

per azzannarle le zampe, ma l’altra gli sfugge tra i denti

lasciandosi indietro quel morso che già la costringe, e non sa

se sia o non sia prigioniera, così corrono il dio e la ragazza,

sospinto dalla speranza lui, spinta lei dal terrore.

Ma le ali d’Amore sostengono quello che insegue:

non le dà tregua, è più rapido e già le sta addosso,

mentre lei scappa, alla schiena, ansandole dentro ai capelli

sparsi sul collo[3].

Dinnanzi alla possessività dell’amore che rifiuta diniego, Dafne è costretta a chiedere aiuto alla madre Gea, trasformandosi, così, in un albero di alloro.

Per chiudere aprendo, la bellezza si offre con il fascino della sua ambivalenza, sollevando in noi tensioni contrastanti: da un lato il desiderio di rispettare l’incanto del dischiudersi indisponibile e, nel contempo, accende in noi l’avidità famelica del possesso.



[1] G. Rau, Inseguendo Stendhal a Palazzo Medici Riccardi, su https://firenze.repubblica.it/cronaca/2010/07/27/news/la_sindrome_di_stendhal_nel_cortile_del_museo-5870172/.

[2] Gen 1, 29.

[3] Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Mondadori, Milano 2005, I, 530-543.