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Guarigione del cieco nato - Gioacchino Assereto, 1640, Carnegie Museum of Art, Pittsburgh, USA - immagine tratta da commons.wikimedia.org


Lesperienza



di Dario Culot


Mentre ogni generazione deve fare la propria esperienza, da troppo tempo la Chiesa ha sostituito l’esperienza personale con le sue certezze ideologiche, cercando poi d’imporle a tutti d’autorità. Ma l’importante, per Gesù, non è la pratica religiosa, bensì l’esperienza umana, e ognuno fa la sua esperienza.

Se leggiamo il Vangelo di Giovanni, più volte ci vien detto espressamente di quanto l’esperienza sia essenziale. «Dove dimori?» chiedono i due seguaci di Giovanni Battista che si sono avvicinati a Gesù (Gv 1, 38). Ma Gesù non indica alcun luogo: li invita a compiere un’esperienza: «Venite e vedrete». Nessuna indicazione dottrinale, ma anche nessuna promessa rassicurante. L’unica cosa è andare a vedere.

"Com’è fare un’esperienza di volontariato in Africa? Com’è fare il cammino di Santiago? Com’è far parte della Caritas?" chiede più di qualcuno a chi ha fatto questo tipo di esperienze. “Vieni e vedi!”; o provi o non capisci, perché ogni esperienza è personale, e nessuno può descrivere cosa tu proverai.

Anche la fede fa parte di quelle esperienze umane in cui bisogna farsi coinvolgere personalmente. Non c’è possibilità di delega. O ci sei o sei out (Curtaz P.). Caratteristica del Vangelo di Giovanni è che Gesù dimora nella dimensione che si fida di Dio. Infatti nel vangelo si trova anche quest’affermazione «A chi mi ama il Padre mio ed io verremo in lui e prenderemo dimora in lui» (Gv 14, 23). Gesù vuol attrarre gli uomini nella sua dimora, che non è un luogo, ma l’ambito dove si può sperimentare l’amore gratuito di Dio, per farli diventare essi stessi manifestazione visibile dell’amore di Dio (Maggi A.).

Sempre nel Vangelo di Giovanni troviamo quest’altro esempio del primato della propria esperienza e quindi della libera coscienza sull’autorità dottrinale del magistero docente: nell’episodio del nato cieco, dopo che questi ha riacquistato la vista grazie a Gesù, il magistero vede Gesù come un “peccatore” avendo egli operato in violazione della Legge divina; perciò i capi religiosi fanno pressione sull’ex cieco affinché dia adesione al dogma del riposo del sabato da essi insegnato: «Da’ gloria a Dio! noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore» (Gv 9, 24). Ieri come oggi, neanche allora il magistero accettava il dissenso dal suo infallibile insegnamento e pretendeva che nessuno andasse contro la verità di un suo enunciato dottrinale. Il cieco guarito risponde invece in base alla sua esperienza personale senza entrare nel campo dottrinale e ribatte «Se sia peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo» (Gv 9, 25); cioè: “io di leggi e di teologia non capisco niente e voi ne sapete più di me; però so che prima non ci vedevo mentre adesso ci vedo, per cui, per me, va bene così” (Gv 9, 25). Quindi questo personaggio anonimo, che pertanto può rappresentare tutti noi, non accetta l’insegnamento del magistero e afferma che la sua idea, formatasi in base all’esperienza da lui vissuta, vale di più della dottrina che gli è stata insegnata dai sacerdoti.

Ancora pochi anni fa, papa Benedetto XVI negava che la propria coscienza potesse validamente ancorarsi alla propria esperienza, e insisteva che essa si ancorasse esclusivamente all’insegnamento del magistero, come i capi religiosi giudei di duemila anni fa.

Evidentemente, ogni magistero va sempre avanti con le sue certezze dogmatiche, con la sua verità, sicuro che essa corrisponda alla realtà effettiva; ma di fatto si disinteressa della realtà. I capi sanno (Gv 9, 24: «noi sappiamo»), e altro non gli interessa; «noi sappiamo» e siamo stati costituiti da Dio per essere maestri per tutti gli altri; in realtà il vangelo ci sta dicendo che non conoscono Dio anche se pretendono di essere i suoi rappresentanti in terra. L’autorità insegna ma non vuole apprendere: già sa. E per difendere la dottrina, il prestigio, finisce per negare l’evidenza, la verità del fatto concreto. La coscienza dell’individuo, stando al vangelo, prevale invece anche se va contro la verità insegnata dalla dottrina. L’ideologia religiosa ha reso ciechi i capi, mentre grazie alla sua esperienza quello che veniva considerato cieco finalmente vede bene. Pur di difendere il proprio sistema teologico il magistero preferisce by-passare la realtà sbalorditiva della guarigione; per glorificare il proprio dio che sembra interessato esclusivamente all’osservanza della Legge, non ci si cura della sofferenza degli uomini. Il cieco guarito, che ha invece sperimentato sulla sua pelle la misericordia di Dio, si è fatto una sua idea su Dio, e dalla sua esperienza trae le sue conclusioni: «una cosa io so», infischiandosene del rapporto fra peccato e Legge che sta tanto a cuore al magistero: «Se sia peccatore, non lo so».

Il punto di partenza, per tutti, deve essere quindi l’esperienza personale; l’esperienza potrà poi anche diventare la fonte di una dottrina, il cui compito è quello di esprimere la prima in termini razionali. Pertanto, se ci soffermiamo a pensare con calma, mi sembra si possa trarre pacificamente la conclusione che, almeno stando al Vangelo, l’esperienza concreta dell’uomo è ben più importante di qualunque verità dottrinale calata dall’alto. Tra la verità dottrinale e l’esperienza dell’uomo deve prevalere l’esperienza. E allora ‘attenzione!’ perché, come in passato faceva il tempio, anche la chiesa d’oggi può nuocere gravemente alla fede, visto che fede non significa sottomettersi alle regole divine insegnate dal magistero.

Se a qualcuno quest’idea può sembrare strana, essa trova ulteriore piena conferma anche nei racconti dei pranzi di Gesù, dove ci viene rivelato qualcosa di più su Dio. Gesù non si è sottomesso alle norme religiose sul mangiare e sull’alimentazione. Non ha osservato le norme sul digiuno (Mc 2, 18-22), sulle purificazioni rituali prima di mangiare (Mc 7, 1-7), sugli alimenti puri e impuri (Mc 7, 17-23). E con tale comportamento egli ha chiaramente suscitato scandalo fra gli osservanti. Ma col suo comportamento Gesù stava dicendo che la prima cosa non è il ritualismo religioso, bensì l’esperienza umana che si esprime nella convivialità, con tutto ciò che il mangiare insieme comporta. Se questo è vero, il Dio di Gesù non è legato principalmente al sacro, ma al profano, visto che per Gesù il cibo condiviso è un’esperienza concreta e fondamentale che si può fare di Dio (Castillo J.M.).

Anche la conclusione finale della parabola del grande banchetto (Mt 22, 1-10; Lc 14, 15-24) ci indica che ci sono due modi d’intendere la vita. La maniera di chi pensa ai propri interessi e questi orientano e determinano le sue decisioni e i suoi comportamenti. Oppure la maniera di coloro che hanno come prima e fondamentale motivazione quella di essere felici e godere della vita dividendo questa felicità con altri. Solo questi incontrano Dio. I primi non lo incontrano. Ed è fondamentale rendersi conto che il racconto del grande banchetto non menziona per niente argomenti o motivazioni di ordine religioso. Godere di una buona cena in allegra compagnia è evidentemente un’esperienza secolare e laica che non ha nulla di sacro o religioso. Eppure quest’attività chiaramente laica ci può far sperimentare il divino.

L’allegria e la felicità non si diffondono con la predicazione, l’insegnamento o dando ordini autoritari. La felicità si diffonde per contagio. Colui che si sente felice contagia di felicità coloro che hanno la fortuna d’incontrarlo. La gioia di condividere una vita felice rende felici anche coloro che s’imbattono in chi sta diffondendo questa felicità. Ma altrettanto certo è che chi si sente amareggiato o risentito, diffonde quest’atmosfera tossica e cupa a chi gli sta intorno.

È chiaro che Gesù ci sconcerta ancora oggi, perché ci apre cammini d’incontro con Dio che neanche avevamo mai sospettato. Chi di noi pensa che struggersi davanti a un bel tramonto, o passare una bella serata a cena con amici può essere un incontro con Dio? Quanti pensano ancora che Dio s’incontra solo a messa, o in cappella adorando l’ostia e pregando? Molte persone diranno che per la loro esperienza è proprio nel tempio, in una cappella, in un luogo «santo» e nelle cerimonie sacre che incontrano Dio. Ma i vangeli ci dicono che l’importante, per Gesù, non è la pratica religiosa, bensì l’esperienza umana che si vive quando si condivide la tavola. Non per niente i vangeli ci raccontano dei tanti pranzi di Gesù, ma di nessuna cerimonia religiosa. E soprattutto, quando il Dio che si sperimenta nel sacro Tempio non coincide col Dio che condiziona la nostra vita sulla strada, sul lavoro, nella convivenza quotidiana con gli altri, allora il luogo sacro (qualunque tempio) e il suo presunto «Dio» sono il grande inganno che perverte la religione e che per questo stesso motivo smentisce il «progetto religioso». Proprio a questa idea del Tempio si era opposto Gesù, avendo visto che la pretesa dignità del Tempio e le sue cerimonie sono l’origine della pericolosa tranquillità di coscienza e perfino della presunzione che lascia soddisfatti, cose che tante volte sperimenta la gente più fedele alla religione, specialmente i «professionisti» del culto sacro.

È sotto gli occhi di tutti che l’asse della predicazione cristiana si sia spostato troppo obliquamente passando dalla profezia allindottrinamento teologico. Si è liberi di essere anche dei teologi, ma si è cristiani solo quando si rivive lesperienza di Cristo (Ortensio da Spinetoli).