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Memorie - disegno di Rodafà Sosteno

In tempi di scuola (non) cattolica. Ricordo di don Giuseppe Colombo



di Stefano Sodaro


L’ora di religione cattolica a scuola, negli anni di grazia 1982-1983, era disciplinata dal Concordato del 1929, che vi è da sperare nessuno - nemmeno tra i critici, spesso alquanto furibondi, di quello del 1984 - rimpianga.

Alla sezione A del Liceo Classico “Francesco Petrarca” di Trieste, in quarta e quinta ginnasio, dopo un’iniziale ma assai veloce presenza di mons. Libero Pelaschiar (su cui torneremo), titolare dell’insegnamento divenne l’allora padre – non ancora “don” – Giuseppe Colombo, gesuita di via del Ronco, dove ha tutt’ora sede la Casa della locale Comunità della Compagnia di Gesù, grazie a Dio ancora ben attiva nella nostra città.

È di oggi la notizia della sua morte, che ci lascia tutti avviliti ed anche sconcertati perché ne viene segnata la nostra storia, personale e collettiva.

Erano gli anni immediatamente precedenti alla convocazione di Leonardo Boff a Roma e tra noi, quattordicenni irrequieti, sembrava di particolare interesse una corrente teologica che ci facesse pre-assaporare quella filosofia che avremmo imparato solo al liceo, negli anni successivi, in cui peraltro – va pur detto, ad onor del vero – Marx avrebbe avuto scarsissimo spazio, se non proprio nullo, a fronte di settimane intere dedicate a San Tommaso. Ma la cosa ci avrebbe, in qualche modo, divertito e pur anche stimolato, forse la professoressa l’aveva fatto apposta, chissà. In ogni caso i ginnasiali petrarchini di don Colombo erano, per il momento, molto più interessati agli intrecci di rinnovamento ecclesiale, politica statunitense, fermenti rivoluzionari, craxismo incipiente e coerenze possibili solo in paesi lontani, a fronte di un plumbeo cielo democristiano che gravava su ogni possibile idealità giovanile, nonostante lo sforzo di appassionati democristiani e appassionate democristiane beninteso. Da lì a poco, infatti, sarebbe arrivato Loreto con il suo Convegno Ecclesiale del 1985, avrebbe iniziato a trionfare Comunione e Liberazione e poi - nel 1986 – sarebbe diventato Segretario Generale della CEI il Vescovo Camillo Ruini e buona notte per i successivi 25 anni.

Don Giuseppe ci lasciava parlare senza problemi di teologia della liberazione e di celibato ecclesiastico, non senza nasconderci le sue perplessità ed esitazioni, che ce lo rendevano ancora più vicino e “sim-patico”.

Ricordo perfettamente quando ci portò in aula il codice del diritto canonico del 1983 appena promulgato. Fu, sostanzialmente, la prima volta che ne sentii parlare. Il suo giudizio su una somma di prescrizioni strettamente giuridiche che vincolassero la comunità ecclesiale lo lasciamo immaginare. Disse parole precise, pesate, che preferisco però tenere per me. Personalmente, avvertii che una sfida – dentro di me – era lanciata, certo ancora in maniera tutta confusa, eppure qualcosa iniziò allora a smuovermi: ma come fanno diritto e fede ad andare assieme? Naturalmente, al tempo, nessuno spiegava un bel niente di tutta la Tradizione Ebraica, se no, forse, dal ginepraio sarei uscito con minor numero di graffi, ma quello era appunto il tempo del vecchio Concordato e del pre-ruinismo. Dunque, bando alle critiche, ormai archiviabili con lo spirare degli Anni Settanta (dell’altro secolo…), bando con le domande fastidiose, spazio invece alla risposte e alle certezze. I frutti culturalmente avariati di quegli Anni Ottanta li stiamo ancora raccogliendo. Altro che Sessantotto...

Decenni e decenni dopo ritrovai don Giuseppe, ormai prete diocesano e parroco triestino da molti anni, innamorato completamente dell’Africa. Nella sua chiesa parrocchiale festeggiammo un matrimonio africano, con le portate di caffè etiopico-eritreo che durano pomeriggi interi. Gli brillavano gli occhi nel vedere i colori e le danze dell’Africa. In momenti di sconforto personale mi aveva già accolto, mi pare fosse l'anno 1995, nella sua parrocchia di allora, dei Santi Pietri e Paolo, sotto l’Università.

Mi accorgo che subentra l’emozione e credo sia il caso di terminare qui, così.

Dopo di lui avemmo, al liceo, come insegnante di religione mons. Libero Pelaschiar, la “mens” filosofica della Diocesi di Trieste – che peraltro attaccava senza paura pensiero debole e “sfondamento” di Vattimo, ma che per la sua coerenza laica, per nulla timorosa dei poteri costituiti quali che fossero, era soprannominato “il prete rosso” -. Se ci penso bene, non ci fu soluzione di continuità tra un insegnante e l’altro. Al Liceo ci interessava approfondire Kant piuttosto che vedere che fine avesse fatto Leonardo Boff e mons. Pelaschiar era al riguardo perfetto. L’America Latina ci occupava cuore e mente, ma ci ritenevamo abbastanza avvezzi alle dinamiche teologico-liberazioniste per andare a vedere “Salvador” di Oliver Stone, del 1986, ormai senza maestri. Ed ormai sotto il nuovo Concordato. L’amico di una vita Francesco Boglioni potrà ben testimoniare al riguardo.

Ora lassù chissà di che parleranno Pelaschiar e Colombo.

Noi quaggiù sappiamo, però, di non poter, e non dover, mollare, perché i sogni, le utopie, la bellezza, gli ideali, gli Inti-Illimani, ci galvanizzano ancora, anche a 53 anni suonati.

Grazie, don Giuseppe, ti abbiamo voluto e ti vogliamo bene.