The Rabbi is in


Materiale e immateriale


di Miriam Camerini

Questa settimana è quella del Vitello d’oro: la porzione di Torah che leggiamo questo Shabbat, Esodo 30:11 e seguenti, è un brano che tratta di materiali di costruzione e di misurazione; essa parte dall’argento con il quale i figli d’Israele devono riscattarsi per essere stati contati, per aver “alzato la testa” nel guardarsi attorno ed essersi resi conto del loro numero e della loro forza, potenziale sempre pericoloso, specie quando si è tanti. La parola usata in loco per “riscatto, espiazione” è kofer, ossia la stessa con cui si indica la pece, il bitume, quei catrami che foderano tanto l’arca di Noè in Genesi quanto la culla-cesta di Mosè in Esodo: le bibliche imbarcazioni che servono a salvare uno perché salvi tutti gli altri sono accomunate dalla doppia fodera - “dentro e fuori”, ci informa il testo - nera di pece, che le fa galleggiare. Se la pece è doppia, l’argento invece è mezzo, ossia bisogna darne un mezzo siclo, e in questo caso il povero non ne dà meno e il ricco non ne dà di più: mentre tante altre tasse sono proporzionali al reddito, questa – che è una tassa sulla tracotanza – è uguale per tutti.

Sabato scorso, all’uscita dello Shabbat - come varie altre volte mi è capitato in queste settimane - sono uscita anche io al volo da casa, una valigia preparata alla rinfusa e senza molto pensiero, per correre in stazione e saltare su un treno. Questa volta il treno è per Padova, dove devo cantare in un concerto di canzoni ebraiche sul tema del danaro, appena arrivata. Il mio amico chitarrista Rocco ha già montato i microfoni, il pubblico è poco, ma caldissimo e affettuoso, la felicità di stare in scena e cantare e sentir suonare è sempre grande. Finito il concerto Rocco e io ci concediamo quattro passi e altrettante birre nelle belle vie del centro di Padova. Parliamo di vita, della sua bambina e di progetti artistici futuri, andiamo a dormire tardi e un po’ sbronzi nell’albergo anni ’50 a noi destinato.

L’indomani ho lezione con Gerusalemme, siamo nelle ultime settimane del primo semestre, e in contemporanea cerco di seguire una riunione importante, per i prossimi colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli: assieme faccio anche colazione, la valigia e saluto un amico. La giornata è limpida e calda, Padova festosa sa già un po’ di Carnevale: a mezzogiorno passeggiamo e pranziamo. Nel pomeriggio tengo la mia relazione su Torah ed economia, parlo del Vitello d’oro, di come - dopo l’argento e la pece - compaiano in scena altri due materiali: il rame del catino con il quale i sacerdoti si purificano le mani e la pietra delle Tavole del Patto, con le parole incise che significano libertà, perché solo dove c’è un accordo scritto e reciproco consenso c’è vera libertà. La radice charut in ebraico significa scolpito, inciso ed è la stessa di libertà, perché il patto “scolpito nella pietra” deve servire la libertà, non imprigionare: solo così il popolo di Israele può passare da essere schiavo di Faraone a servo della Divinità, guadagnando lo spazio vuoto che sta fra la mano dell’Eterno che lascia la Torah e Mosè che la riceve, il Legislatore in cielo, ma il più in basso possibile, e il Profeta sul Sinai, nel punto più alto della Terra, il monte.

Lo spazio mediano che rimane vuoto serve a evitare il fanatismo, deve lasciare spazio di manovra, misura di interpretazione della Parola e facoltà di scelta, è necessario per non essere schiacciati dalla pietra, bensì liberati dalle Parole.

Cito il Maharal di Praga, considerato il creatore del gigante d’argilla chiamato Golem, un quadro di Marc Chagall e l’ebraista Elena Loewenthal con il suo recente libro Dieci (Einaudi, 2019).

La fine del pomeriggio è uno di quei momenti in cui mi ricordo perché partecipo a questi incontri, perché voglio esserci io qui a parlare; il pregiudizio, i luoghi comuni, un certo sospetto.. Tutto è ancora presente e salta fuori quando meno te lo aspetti: è necessario essere pronti e forti e calmi. Io forse lì per lì non lo sono molto, né forte né calma, perché per un momento perdo un po’ le staffe e poi me ne dispiaccio. Spiegare con pazienza, continuare a credere che si possa allestire una lingua comune anche solo per un momento, per poi smontarla, magari, e tornare ognuno a casa propria, ma arricchito dall’aver per un’ora o un giorno condiviso un linguaggio, è il massimo che possiamo chiedere a noi stessi, ma questo poco va fatto. L’allestimento di un luogo temporaneo, destinato a essere smontato e poi semmai ricostruito altrove, mi ricorda chiaramente il mishkan, il Tabernacolo la cui costruzione viene descritta e prescritta minuziosamente in questo brano di Torah che leggiamo oggi e nei seguenti: “E però osserverete i Miei Sabati” è il verso (Esodo 31:13) che sancisce definitivamente la superiorità del tempo sacro dello Shabbat sullo spazio sacro del Tabernacolo, o quanto meno la necessaria alternanza fra questi: qualunque opera deve cessare durante il settimo giorno, anche quella più importante di tutte: la consacrazione dello spazio. Il Talmud impara dunque da qui le azioni proibite durante il Sabato: “Sei giorni lavorerai” (Esodo 20:9) rimane però fondamentale e forse anche fondante di una certa etica ebraica del lavoro che tradurrei semplicemente in lavorare molto e bene: servire Dio è anche questo: prestare al mondo la propria opera con serietà. Spero, oggi, di averlo fatto.

Quando esco nella sera padovana limpida e stellata mi coglie il richiamo della Mitteleuropa e una voglia mi pervade di tornare a Budapest, lavorare a un progetto che è lì in attesa e forse seminarne anche un altro. Senza pensarci - guidata solo dal desiderio e dalla felicità della mia libertà scolpita su pietra - salto sul primo treno per Venezia e compro un posto in vagone letto per il mio amato Venezia – Vienna in notturna.

A Venezia ho anche un paio d’ore per godere della città – da un po’ non ci passo, credo prima della pandemia – cenare a casa di due nuovi amici e lasciar loro in deposito una dozzina di copie del mio Ricette e Precetti che a Padova non ho venduto, purtroppo, e ora mi appesantisce in questo viaggio così imprevisto. Lascio i libri in ghetto a Tally e Moshe, dedico ovviamente loro una copia, domani è Purim katan, un Purim (festa ebraica in cui ci si traveste, si allestiscono banchetti e spettacoli, si beve e si legge il Rotolo di Ester) minore, un anticipo di quello “vero”, che sarà fra un mese esatto: la luna già splende piena in questo anno embolismico, ovvero gravido, a tradurre fedelmente il termine ebraico. Cammino felice per le calli di Venezia, godo ogni minuto di questa inaspettata avventura che mi sono appena regalata. Sul notturno per Vienna dormo bene, mi sveglio l’indomani nella campagna austriaca, ordino in stazione centrale il mio libro Rezepte und Gebote, tradotto in tedesco ormai da un paio di mesi, ma arriva domani: nemmeno questa volta farò in tempo a procurarmelo.

L’ultimo metallo che compare nella pericope della settimana è finalmente il più atteso e temuto: quell’oro del vitello eponimo che i Figli d’Israele impazienti costringono il povero Aronne, sacerdote, a plasmare per loro, fondendo i gioielli trafugati in Egitto, per sostituire Mosè, “l’uomo” che li ha tratti dalla schiavitù e che, come tale, temono morto sul monte. La fine è nota: dopo pietra e pece, argento e rame e oro, ecco che tutto finisce in polvere; l’idolo viene tritato, la polvere sciolta in acqua e l’acqua fatta bere a chi ha commesso il rito pagano.

La morale è abbastanza chiara: meglio un uomo, ancorché in ritardo, che una divinità liofilizzata.

Foto di Paola Cazzaniga