Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Lago tra Beinn an Dothaidh e Beinn Dorain. Scozia, foto di Michal Klajban tratta da commons.wikimedia.org.



Eyes wide dreaming



di Stefano Sodaro





Siamo fatti di sogni – ed anche di incubi paurosi -, eppure la nostra vita onirica viene espunta dalla dignità culturale di ciò che ogni giorno facciamo, cui ci dedichiamo, di cui pure parliamo senza difficoltà. Tutto, insomma, ma non i sogni.

Abbiamo paura che il sogno ci conduca lontano, da un’altra parte. Abbiamo paura che il sogno, ben al di là delle immagini con cui si presenta – spesso illogiche, ridicole, senza senso coerente -, riveli qualcosa che ci abita in profondità. Insomma, sperando di non scadere in una sconcertante banalità a bassissimo prezzo, Freud aveva ragione.

Il sogno, tuttavia, evoca anche una narrazione del nostro corpo che diventa tutt’uno con la nostra mente. Un’associazione inestricabile che forse pure ci spaventa nella nostra continua pretesa, raziocinante fino all’estremo, di definire, ritagliare, sezionare, controllare, organizzare, pianificare.

I tempi di pandemia fanno sognare, quasi costringono a sperare nel sogno. Ma, per quanto possa sembrare paradossale, la verità del sogno può essere stimolo d’azione concreta, riconciliazione tra il nostro sé più profondo ed il nostro esserci più esterno, esposto. Il realismo dei sogni.

E così accade di imbattersi in un racconto, in una sorta di favola, come questa che subito segue e che porta in territori, interiori, assai strani. Lasciamole la parola. La singolare novella è senza firma.

“Trovò, quasi per caso, quel manoscritto, riposto con grande cura tra gli scaffali della libreria, sopra una serie di volumi disposti orizzontalmente.

Lo sfogliò con delicata attenzione.

Era la narrazione di un sogno. «Che non ho rivelato a nessuno, se non a lei», confessava l’anonimo autore. «Così come le pagine più intime del mio diario», proseguiva. Dunque, c’era, era esistita – o esisteva ancora, chissà – anche una “lei” in simile relazione dell’inconscio.

Iniziò a leggere il seguito, dopo tale misteriosa introduzione.

«Nel sogno ero lì, per un motivo preciso. Dovevo confidarmi, aprirmi, anche cercare consolazione, conforto, comprensione. Cercare empatia.

Ma non ero esattamente lì, in un luogo preciso e certo. Ero in un qualche altrove, distante da lì, che non riesco a definire meglio.

Ho fatto questo sogno bellissimo.

Le ho parlato finalmente, incontrandola di persona. Dopo tante proibizioni, tanti divieti, tante paure. I dpcm, le autorizzazioni a muoversi, la paura di portare con sé contagio o di venire in contatto con infetti.

Ma nel sogno ci parlavamo, anzi le parlavo io. E lei ascoltava, senza troppo consentire e senza nemmeno però respingere. Com’è giusto che sia. Del resto solo se si “sta” ci si può conoscere.

Ma poi – sempre in quel sogno – compariva la necessità di andare lassù, in montagna. Perché proprio lassù, perché proprio in montagna? Non si sa.

Nel sogno attraversavamo il confine con la Svizzera, presentavamo addirittura i passaporti. E raggiungevamo il Passo del Bernina o del Gran San Bernardo, il sogno menzionava entrambi.

Guidavo io, una specie di SUV. Lei era seduta davanti, sul sedile di destra.

Però era quel viaggio come di una carovana; c’erano pure tutti i miei, fratelli, nipoti, genitori, tantissime persone, tutte amiche e care.

Correvo velocissimo in salita con l’automobile, benché la strada fosse a continui tornanti, credo di aver raggiunto i 200 all’ora, senza che ci accadesse nulla, quasi una sensazione di volo, di libertà. Lei era in apprensione, certo, ma giungemmo illesi nell’area di parcheggio.

Ora bisognava arrampicare con le mani, per salire ancora. E tutti salirono con noi. Arrampicava anche un professore di Storia della Chiesa, mio amico, giunto lì chissà come. C’era una sensazione, condivisa, di libertà, di leggerezza, di gioia.

Dopo la salita comparve la stazione di una funivia, che portava ad una vetta assurdamente alta 11.000 metri sul livello del mare.»

Continuò nella lettura del manoscritto: «A causa della mia ipertensione, riportava correttamente il sogno, non potevo salire fin lassù, con funivia, ma lo fecero mio fratello, di dieci anni più giovane di me, ed il mio nipotino di quattro anni.

Quando tornarono, soddisfatti per l’ascesa, ci mettemmo tutti assieme, di nuovo, sulla via del ritorno, per raggiungere le automobili e ripartire. Ora arrampicavamo in discesa, fino a giù ed arrivammo all’area di parcheggio.

Riprendevamo le nostre vetture e, questa volta senza correre, rientravamo in un luogo che sembrava somigliare, al medesimo tempo, ad una località dell’hinterland milanese oppure ad un incrocio di due strade di Trieste, tra la Via dei Porta e la Via Rossetti; ora che ci penso sono le due vie in cui ho abitato da bambino e da ragazzo.

Alle 17 esatte eravamo tutti, tutti assieme, in una specie di hotel e potevamo riprendere distesamente a parlare di ciò che più ci stava a cuore.

E poi cenare, in un clima di intima, intensa, cordialità, come se tutti ci conoscessimo da infinito tempo.

Un sogno bellissimo.»

Ripose il manoscritto e aprì le finestre per respirare l’aria del nuovo giorno.”

Fine del racconto.

Cosa trarre da quest’accozzaglia di simili sensazioni fantasmatiche? Quale significato cogliervi?

Intanto che tutta intera la realtà ci abita e non semplicemente che noi abitiamo in essa.

Poi c’è un cenno, molto pudico, ad un dialogo, ad un confronto, ad un rapporto che pare decisamente e distesamente amicale, tra qualcuno e qualcun’altra. L’io ed il tu. La gigantografia - anche religiosa - dell’io messa in crisi dal desiderio, cocente, straziante, di vincere la propria solitudine e di incontrare.

Nel racconto sembra si staglino due protagonisti, o forse una protagonista ed un deuteragonista, perché “lei” sembra molto più decisiva di “lui”, che s’affanna a correre, a rispettare gli orari, ad evitare rischi.

Ma le domande possono anche farsi più audaci.

Che cosa hanno a che fare i sogni con la politica e con le istituzioni? Parrebbe di dover rispondere “nulla”, mentre la risposta più adeguata probabilmente è: “tantissimo”.

L’esperienza psichica, onirica, inconsapevole, è ben altro dalla rigidità articolatissima di leggi, codici, protocolli e prassi ordinate, certo, ma in questa alterità sta la liceità di quello stesso apparato che, altrimenti, non sarebbe che celebrazione di se stesso.

Il Papa, ad esempio, da un lato richiama al rispetto “non negoziato” del Vaticano II – è cronaca soltanto di ieri, https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-01/papa-francesco-udienza-ufficio-catechistico-cei-concilio-chiesa.html -, e dall’altro, tuttavia, evoca la continuità con il Vaticano I e la interruzione, non accettabile dal suo punto di vista, con una presunta tradizione della Chiesa da parte di quanti si opposero ai dogmi dell’infallibilità e del primato universale del Romano Pontefice, e “oggi ordinano donne”. Sic.

È proprio l’alterità delle donne, dunque, ad essere il cruccio dell’istituzione cattolica, che non riesce a prescindere da queste “Altre”, a rappacificarsi con loro, riaffermando così obiettivamente la univocità monolitica della storia della Chiesa declinata al maschile.

Siamo fatti di sogni. Nel vituperatissimo Sessantotto si invocava la “fantasia al potere”. Oggi di sognare ed agire, senza separazioni, abbiamo un pressoché disperato bisogno. Altrimenti da nessuna crisi, neppure di governo, riusciremo mai ad uscire.

Buona domenica.