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Paolo VI e mons. Oscar Romero il 24 giugno 1978 - foto tratta da commons.wikimedia.org



In morte di Paolo VI, quarantacinque anni dopo

di Stefano Sodaro



Benché avessi dieci anni, ricordo abbastanza nitidamente come appresi la notizia della morte di Paolo VI il 6 agosto 1978. 

Prima non avevo mai immaginato non solo che il Papa potesse morire come chiunque altro, e altra, ma anche – forse soprattutto – che cosa significasse la sua morte, quali conseguenze quasi immediate provocasse. Né, fino ad allora, avevo mai saputo cosa fosse un Conclave.

Era sera inoltrata a Casal di Zoldo, il paese di Marco e Mattio di Sebastiano Vassalli e dei miei nonni materni, nelle Dolomiti bellunesi, ed un compaesano aveva avvertito mio padre, che era uscito per una passeggiata dopo cena, dell’avvenuta dipartita del Papa. Non ricordo invece se le campane della Chiesa pluricentenaria di San Floriano, a Pieve di Zoldo, avessero suonato a morto, ma il giorno dopo il parroco rese ovviamente tutti edotti del fatto tanto grave ed eclatante.

Ripensandoci oggi – a 45 anni esatti di distanza –, la morte di Paolo VI fu effettivamente una svolta nella storia della Chiesa (Cattolica). Aprì quel “post-concilio” – secondo espressione francamente un po’ logora -, che il baluginio luminoso di Giovanni Paolo I fece, per 33 giorni, sfavillare di sogni e speranze, ma che poi il lunghissimo pontificato di Giovanni Paolo II costrinse invece nelle maglie di un riduzionismo interpretativo che solo nel 2013, con l’elezione di Francesco a Vescovo di Roma, venne progressivamente a sua volta archiviato, a fatica ed i cui sforzi sono ancora in corso.

Paolo VI fu la Chiesa dell’amore e della domanda. Della passione e del dubbio non fine a se stesso, bensì rivelatore.

Fu il Papa della “Populorum Progressio” e certo anche della “Humanae Vitae”. Ma fu soprattutto il Pontefice che decise di proseguire, sino alla sua fine, il Concilio Ecumenico Vaticano II.

Oggi Francesco papa ha concluso solennemente la Giornata Mondiale dei Giovani a Lisbona, presente più di un milione e mezzo di ragazzi. Una festa piena di entusiasmo. Non un convegno di ecclesiologia, anche se viene da chiedersi quante e quanti, tra i presenti, avranno sentito parlare del Vaticano II.

Ma ormai il cammino della Chiesa è un altro: anche i Concili chissà se potranno mai avere un qualche futuro. I Sinodi sembra di sì, ma bisognerà vedere se l’exultet di questi giorni portoghesi non paralizzi – paradossalmente – anche una sede istituzionale, che, pur di natura consultiva, ha un Instrumentum Laboris molto ricco e articolato su cui discutere.

Pure il Sinodo dei Vescovi fu, in certa misura, un’invenzione di Paolo VI, il quale scrisse, nell’Apostolica Sollicitudo: «La sollecitudine apostolica, con la quale, scrutando attentamente i segni dei tempi, cerchiamo di adattare le vie ed i metodi del sacro apostolato alle accresciute necessità dei nostri giorni ed alle mutate condizioni della società, Ci induce a rafforzare con più stretti vincoli la Nostra unione con i Vescovi che lo Spirito Santo ha costituito... per governare la Chiesa di Dio (At 20,28). A ciò siamo mossi non solo dal rispetto, dalla stima e dalla riconoscenza, con cui a buon diritto circondiamo tutti i Venerabili Fratelli nell’Episcopato, ma anche dal gravissimo onere di Pastore universale a Noi imposto, per il quale dobbiamo condurre il popolo di Dio ai pascoli eterni. Infatti, in questa nostra età, veramente turbinosa e piena di pericoli, ma tanto largamente aperta ai soffi salutari della grazia divina, esperimentiamo ogni giorno quanto giovi al Nostro dovere apostolico una tale unione con i sacri Pastori, che perciò noi intendiamo in ogni modo promuovere e favorire, affinché - come altrove abbiamo affermato - non Ci venga a mancare il sollievo della loro presenza, l’aiuto della loro prudenza ed esperienza, la sicurezza del loro consiglio, l’appoggio della loro autorità (Discorso di chiusura del terzo periodo del Concilio: AAS 56 (1964), p. 1011). Perciò, soprattutto durante la celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, era naturale che nel Nostro animo restasse fermamente questa Nostra persuasione circa il tempo e la necessità di ricorrere sempre più allaiuto dei Vescovi per il bene della Chiesa universale. Anzi il Concilio Ecumenico è stato anche la causa che Ci ha fatto concepire l’idea di costituire uno speciale consiglio permanente di sacri Pastori, e ciò affinché anche dopo il Concilio continuasse a giungere al popolo cristiano quella larga abbondanza di benefici, che durante il Concilio felicemente si ebbe dalla viva unione Nostra con i Vescovi. (…) Così, dopo aver maturamente considerato ogni cosa, per la Nostra stima ed il Nostro rispetto nei riguardi di tutti i Vescovi cattolici, e per dare ai medesimi la possibilità di prendere parte in maniera più evidente e più efficace alla Nostra sollecitudine per la Chiesa universale, di nostra iniziativa e con la Nostra autorità apostolica erigiamo e costituiamo in questa alma Città un consiglio permanente di Vescovi per la Chiesa universale, soggetto direttamente ed immediatamente alla Nostra potestà e che con nome proprio chiamiamo Sinodo dei Vescovi.» E aggiunse: «Questo Sinodo (…) come ogni istituzione umana, col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato (…).»

E Francesco ha affermato all’omelia di quest’oggi a Lisbona, quarantacinque anni dopo: «Ma vorrei dirvi che non diventiamo luminosi quando ci mettiamo sotto i riflettori, no, questo abbaglia. Non diventiamo luminosi. Non diventiamo luminosi quando esibiamo un’immagine perfetta, ben ordinata, ben rifinita, no; e neanche se ci sentiamo forti e vincenti, forti e vincenti, ma non luminosi. Noi diventiamo luminosi, brilliamo quando, accogliendo Gesù, impariamo ad amare come Lui. Amare come Gesù: questo ci rende luminosi, questo ci porta a fare opere di amore. Non t’ingannare, amica, amico, diventerai luce il giorno in cui farai opere di amore. Ma quando, invece di fare opere di amore verso gli altri, guardi a te stesso, come un egoista, lì la luce si spegne.»

Paolo VI – per la Chiesa Cattolica San Paolo VI – comprese perfettamente che l’immagine di Chiesa di là da venire non sarebbe più stata “perfetta, ben ordinata, ben rifinita” e neppure “forte e vincente”.

Ci si interroga oggi sul ruolo del ministero ordinato, da mantenere in totale ossequio al modello tridentino o da elaborare sviluppando il Vaticano II, ma – forse – la discussione di per sé postula ormai un più ampio ragionare sulla stessa ministerialità battesimale nei confronti del mondo ed anzi su una vera e propria “ministerialità creaturale”, anche a prescindere dalle appartenenze cristiane secondo le diverse confessioni, che in ogni caso non si possono ignorare.

Paolo VI sapeva che il presente ed il futuro della Chiesa stanno nel suo decentrarsi, nella sua – direbbero i teologi spirituali – kènosi, vuotandosi nella salvifica realtà del Regno di Dio, che si estende ben oltre i visibili confini ecclesiali.