A me me piace


di Paola Franchina

Lo straordinario capolavoro di Wim Wenders del 1987, Il cielo sopra Berlino, si offre come omaggio alle poesie di Rainer Maria Rilke che hanno ispirato il film.

Ad essere messa in scena è la storia di due angeli, Damiel e Cassiel, che, liberi dall’inestricabile dedalo delle trame umane, sorvolano la città, osservando e ascoltando i pensieri dei berlinesi.

Sullo sfondo Berlino, distrutta alla fine della seconda guerra mondiale: Potsdamer Platz, una delle più maestose d’Europa prima dei bombardamenti, è ora una spianata desolata.

Il muro, sistema di fortificazione eretto dalla Germania dell’Est per impedire la comunicazione con la Germania dell’Ovest, è espressione icastica della cortina di ferro, linea immaginaria di confine tra le zone europee occidentali e quelle filosovietiche. Come la muraglia montaliana con cocci aguzzi di bottiglia[1], la barriera di protezione antifascista diviene correlativo oggettivo dell’impossibilità dell’uomo di pervenire ad una riuscita integrale.

Gli angeli osservano la città degli uomini planando dall’alto. Lo spazio d’aria che li separa dalle sabbie mobili dell’umano impedisce un coinvolgimento con la realtà: la conoscenza delle vicende dei mortali è distaccata e impersonale, il mondo appare in bianco e nero: le molteplici sfumature dell’effettivo vengono espunte dagli angusti confini della razionalità.

Damiel, animato dalla passione per Marion, un’acrobata da circo, decide di abbandonare la conoscenza rassicurante della speculazione per abbracciare l’esperienza nei suoi colori, incarnandosi in un corpo.

A seguito di questo movimento di exitus, che implica la rinuncia all’esistenza spirituale, si dischiude una nuova forma di sapere, in cui il soggetto è implicato nella verità conosciuta; Daniel non si limita a planare la città dall’alto, ma è implicato nella realtà che osserva: la visione epistemica di una adaequtio tra un ego cogito cartesiano e l’oggetto viene soppiantata da un accesso al mondo di stampo fenomenologico, in cui i sensi sono coinvolti nella sintesi eidetica.

Torna alla mente il concetto husserliano di Lebenswelt, il mondo della vita, in cui l’originario dischiuso nel fenomeno trova il suo fondamento in un radicamento prelogico della conoscenza e dell’essere.

Damiel, una volta incarnato, perviene ad una forma di conoscenza in cui il corpo e i sensi sono implicati nella determinazione dell’eidos, mettendo in discussione la tradizione platonica che ci ha portato a considerare la materia come una prigione che imbriglia l’anima, secondo l’adagio: soma esti sema. Tale motto viene smantellato dalla prospettiva fenomenologica, la quale riabilita il carattere intenzionale della percezione: io non mi limito ad avere un corpo (Korper), ma sono un corpo (Leib). Illuminante appare, a tal proposito, l’etimologia di sapere, dal latino sàpere, avere sapore: non esiste, infatti, una conoscenza che non abbia un coinvolgimento dei sensi.

L’angelo decaduto, finalmente, può gustare il sapore intenso di un caffè caldo e, in questo afrodisiaco incontro dei sensi, può comprendere la pleonastica sentenza di Gigi Proietti: «a me me piace».



[1] E. Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984.