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Se l’identità rituale magnifica la bomba atomica


di Stefano Sodaro


Hiroshima, 1945 - foto tratta da commons.wikimedia.org

Colonia, 1945 - foto tratta da commons.wikimedia.org

È difficile, in apparenza, comprendere quale significato possa avere l’amplificazione – senza alcuna presa di distanza critica, anzi con sostanziale empatia – della convinzione per cui le operazioni di guerra sarebbero altrettanti cerotti medici da strappare tutti in una volta, se no fanno male, o secondo cui la guerra è un balsamo.

Ma in realtà la difficoltà scompare se si osserva, con amarezza, certo, che l’ottica con cui si guarda al “nemico” non è mai aderente all’Altro/a, ma sempre al Sé, al Medesimo, all’Uguale. È ciò che connota ogni rito, di qualunque fede, credo o ideologia, per il quale la contraddizione, la “contro-ritualità”, è una peste. L’Altro/a ha sempre torto, anche se lo blandisco, e può essere ridicolizzato proprio nel suo credo religioso. Sempre in questi giorni s’è scritto che esisterebbe, a detta di qualcuno – la finzione scenica è sempre quella del “relata refero”, mentre l’immedesimazione concettuale è oggettivamente indubitabile, quand’anche (in non creduta ipotesi, come si dice negli atti processuali) non se ne fosse consapevoli -, s’è scritto in questi giorni, dicevamo, che esisterebbe “una cultura che vede questo mondo come un inutile preambolo a quello che verrà dopo, una religione per cui la vita vera è quella eterna e quelli che muoiono per Allah vivono per sempre”, e che per questo tale cultura “toglie all’essere umano responsabilità e speranza, gettandolo in un fatalismo disperato dove morire è dolce e il martirio omicida è la massima aspirazione.”

Purtroppo l’apologia del proprio rito porta esattamente alla caricatura del rito altrui, salvo poi reagire violentemente, sdegnosamente – con giusto, giustissimo sdegno, sia chiaro – se qualcuno critichi i proprie di riti ed obblighi rituali. È come un cerchio maledetto da cui non si esce, da cui non escono neppure le menti che potevamo ritenere magari (forse sbagliando) le più illuminate, sensibili, attente, vaccinate contro ogni virus di alterofobia.

Riflettiamo. La guerra realizza la stessa dottrina della pena di morte, abolendo tuttavia – altrimenti non sarebbe guerra – il giudizio di un processo, con la sua, ancora una volta, rigida scansione rituale, per giungere piuttosto direttamente alla sentenza di condanna a morte, per di più, e di peggio, cumulativa.

È il motivo per cui l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, all’articolo 11 della sua Costituzione Repubblicana.

Non sappiamo che cosa abbia detto a Venezia mercoledì scorso il Card. Gugerotti, Prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali, sul delicatissimo – ma fondamentale, anzi decisivo – tema dell’appartenenza rituale nella Chiesa Cattolica, perché non ci è stato possibile presenziare a quella Prolusione (e rivolgiamo anzi un appello a quante e quanti, lettrici e lettori, abbiano invece forse avuto modo di ascoltarla dal vivo o comunque di conoscerne il testo, perché ci contattino), ma il “transritualismo”, in quanto potentemente queer, “eccentrico”, è l’unico antidoto possibile funzionale al disinnesco delle supremazie rituali, che l’ordinamento canonico, tra parentesi, bene ha conosciuto con il concetto di praestantia ritus latini

Transritualismo” sì: proviamo a forgiare adesso, subito, con un senso di impellenza, di urgenza assoluta, simile neologismo.

Eppure il passo che ci viene richiesto di osare è ancora più lungo ed è tutto contenuto nella risposta, onerosissima anche solo da formulare, che sentiamo di poter dare, o non dare, alla seguente domanda: le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki sono state una benedizione perché hanno permesso la fine del Secondo Conflitto Mondiale? Il bombardamento a tappeto della Germania – che pure ha portato alla fine della Seconda Guerra Mondiale – è da ritenersi, oggi, non ottanta anni fa, oggi, una benedizione, una lieta evenienza, una meraviglia da sentir raccontare sorseggiando ieri birra e adesso sidro? Oggi non siamo davvero in grado di pensare con altre categorie?

Il nazismo non nacque in contesto culturale diverso da quello europeo. Le sue radici, persino pseudofilosofiche, hanno allignato – ed allignano tutt’ora – nell’abolizione del pensiero critico che è del tutto tipica di certa attitudine europea ed occidentale, “ritualmente” preoccupata, per appunto, di non uscire dal proprio coerente perimetro parareligioso, identitario, nazionalista benché capace di reagire persino con violenza a simile critica.

Oggi possiamo pensare di investigare le tenebre del 1945 con strumenti ermeneutici un po’ più sofisticati di quelli adoprati ottant’anni fa? Ad esempio: vi è chi critica il Processo di Norimberga in nome di svariate concezioni del diritto, mentre – a parere del qui scrivente – proprio quella serie di atti rituali, di natura giuridica, eppure davvero transrituali, se solo si pensa alla composizione della corte giudicante, consentì di marcare la differenza tra l’abominio nazifascista e la cultura democratica, liberale, socialmente orientata, che portò, di lì a poco, esattamente 75 anni fa, alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Siamo capaci, a livello culturale prima d’ogni altro, di agire, per così dire, processualmente, e non sulla spinta istintuale di odio, massacro, assassinio, vendetta?

Perché almeno noi ne siamo convinti: no, il rito non può magnificare la bomba atomica, neppure in nome di una sedicente innocenza nel voler narrare ciò che diffusamente si possa credere e dire in determinati contesti, se quei contesti non vengono profondamente problematizzati, come solo un’opzione trans-rituale può fare.

Da qui in poi, ne siamo consapevoli, si apre il mare aperto. Ma non ci sono, ad esempio, madri nei reparti di ostetricia che meritino cura e assistenza ed altre che invece non lo meritino, verso le quali si possa sorridere di non curanza o rispetto alle quali non esista l’imperativo etico – più ancora che culturale – di proteggerle ad ogni costo.

Ci fermiamo qui. Il rito sa sempre chi fa bene e chi fa male: chi lo osserva e chi no. 

Noi, invece, vogliamo trasgredire i riti, guardarli potentemente negli occhi dei loro presupposti antropologici e delle loro effettive, concrete, conseguenze politiche.

Per piangere e reclamare giustizia in nome di ogni ostaggio della violenza.

E sperare in un futuro completamente diverso.